Cosa accadrebbe se il Coronavirus raggiungesse la Striscia di Gaza

12 / 3 / 2020

Un articolo originale del 5 Marzo 2020 apparso su Mondo Weiss a cura di Ramzy Baroud. Traduzione di Dario Fichera, Ass. Ya Basta! Êdî Bese!

E se il Coronavirus raggiungesse la Striscia di Gaza sotto assedio dal 2007? 

Se è vero che il grande quesito sull’emergenza sanitaria spaventa tutti i palestinesi che vivono sotto l'occupazione militare di Israele, la situazione di Gaza è particolarmente complessa ed estremamente preoccupante. 

Circa 50 paesi hanno già segnalato casi di malattia COVID-19, la grande epidemia causata dal Coronavirus SARS COV-2. 

Se i paesi con un sistema sanitario sviluppato, come l'Italia e la Corea del Sud, stanno lottando a fatica per il contenimento del pericoloso e letale virus, fa paura solo immaginare ciò che la Palestina occupata dovrebbe affrontare in caso di diffusione epidemica del virus.

In effetti, secondo i funzionari sanitari, il Coronavirus avrebbe già raggiunto anche la Palestina a seguito di una visita di una delegazione sudcoreana nel periodo tra l'8 ed il 15 febbraio, che includeva un tour nelle principali città palestinesi di Gerusalemme, Nablus, Gerico, Hebron, e Betlemme. Nove persone di quella delegazione sono risultate positive al Coronavirus dopo il loro viaggio, anche se non è ancora chiaro quando abbiano contratto il virus. 

L'Autorità Palestinese si è affrettata a contenere il rimpallo della notizia, che ha causato inizialmente un panico tangibile tra una popolazione che ha poca fiducia nella sua leadership politica. Il primo ministro dell'ANP, Mohammad Shtayyeh, "sperava" che i "proprietari di non meglio precisate strutture alberghiere" chiudessero i loro stabilimenti aperti al pubblico, come dimostrazione di senso civico.

Sono seguite le dichiarazioni del Ministero della Sanità, che ha decretato lo "stato di emergenza" in tutti gli ospedali sotto la giurisdizione dell'Autorità Palestinese in Cisgiordania, designando un centro di quarantena vicino a Gerico per coloro che arrivano dalla Cina e da altre aree focolaio.

Per i palestinesi, tuttavia, combattere un focolaio di Coronavirus non è una questione semplice, anche seguendo alla lettera le raccomandazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). 

I palestinesi sono da tempo isolati, attraverso una “matrice di controllo” dell’apartheid israeliana, che ha escluso dalla vita civile molte comunità grazie a grandi mura di cemento, checkpoint militari e folli ordinanze dell'esercito, che sono intrinsecamente progettate per indebolire la comunità palestinese e facilitare la missione del governo israeliano di controllare i palestinesi e colonizzare i loro terra. 

Cosa può fare l'Autorità Palestinese per proteggere la salute di decine di migliaia di persone nella cosiddetta Area C della Cisgiordania occupata? Questa regione è interamente sotto il controllo dell'esercito israeliano, che ha ben poco interesse alla tutela del benessere dei palestinesi. 

Domande come questa dovrebbero essere inquadrate nel contesto di quelle che l'OMS definisce "disuguaglianze sanitarie" tra i palestinesi, da un lato, ed i coloni ebrei illegali ma privilegiati, dall'altro. 

In qualche modo, molte comunità palestinesi sono già state messe in quarantena da Israele, ma per ragioni politiche, non mediche. Un focolaio di Coronavirus in alcune di queste comunità, in particolare quelle tagliate fuori da un'adeguata assistenza sanitaria e da strutture mediche ben attrezzate, si rivelerebbe catastrofico. 

Lo scenario catastrofico peggiore al mondo potrebbe essere riservato proprio a Gaza, nel caso in cui questo virus letale ed estremamente contagioso riuscisse a superare i blocchi dell’assedio ermetico che isola da quasi 14 anni questa regione minuscola, ma densamente popolata. 

Gaza, che è entrata nel suo quattordicesimo anno di assedio israeliano e continua ad arrancare a seguito delle massicce e distruttive operazioni militari israeliane, è già stata dichiarata "inabitabile" dalle Nazioni Unite. 

Tuttavia, quando si va ad analizzarne i dettagli, il disastro umanitario di Gaza non smette mai di stupire. Negli ultimi dieci anni almeno, non un singolo rapporto delle Nazioni Unite sulle condizioni delle strutture sanitarie o sulla formazione del  personale medico della Striscia ha lasciato spazio ad un linguaggio che facesse intravedere uno spiraglio di positività o speranza.

Lo scorso marzo, il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per il territorio palestinese occupato, Jamie McGoldrick, ha denunciato "interruzioni croniche di energia, lacune nei servizi critici, tra cui la salute mentale e il supporto psicosociale, e la carenza di medicine e forniture sanitarie essenziali". 

A gennaio, la ONG israeliana per i diritti umani B'Tselem, ha parlato di una crisi sanitaria senza precedenti nella Gaza assediata, che non è mica causata dal Coronavirus o da epidemie simili, ma semplicemente dal fatto che gli ospedali a malapena funzionanti di Gaza adesso si ritrovano anche a dover fare i conti con le ripercussioni sanitarie e sociali di migliaia di giovani feriti derivanti dai cecchini israeliani durante la Grande Marcia del Ritorno, che ha avuto luogo per oltre un anno lungo i confini della Striscia. 

B'Tselem, nel suo rapporto di denuncia, riferisce che "la politica illegale del fuoco aperto che Israele sta usando contro queste manifestazioni, permettendo ai soldati di sparare contro manifestanti disarmati che non mettono in pericolo nessuno, ha portato a risultati orribili". 

L’ONG Israeliana ha citato alcune stime fornite dall'OMS secondo cui, alla fine del 2019, i medici di Gaza si sarebbero ritrovati a dover eseguire amputazioni degli arti su 155 manifestanti, tra questi 30 sarebbero bambini. Tutto questo in aggiunta alle dozzine di manifestanti che sono rimasti permanentemente paralizzati a causa di lesioni spinali. 

Questa, purtroppo, è solo una piccola parte visibile di una crisi sanitaria molto più sfaccettata e complessa. Non solo il morbillo ed altre malattie infettive altamente contagiose stanno tornando a Gaza, ma anche le malattie trasmesse dall'acqua si stanno diffondendo a un ritmo allarmante. 

Il 97% di tutta l'acqua di Gaza non è adatta al consumo umano, secondo l'OMS, il che pone un interrogativo estremamente urgente: come potrebbero gli ospedali di Gaza affrontare l'epidemia di Coronavirus quando, in alcuni casi, l'acqua pulita non è nemmeno disponibile allo Al-Shifa, l’ospedale più grande di Gaza? 

Anche nei casi in cui l’acqua è disponibile, i medici, gli infermieri ed il personale sanitario non sono in grado di sterilizzare le mani a causa della pessima qualità di quest’ultima. 

Il gel disinfettante per le mani è sempre stato quasi introvabile; le norme igieniche basilari sono spesso disattese per cause di forza maggiore; l’elevatissima densità di popolazione e le abitudini sociali quali ad esempio le frequenti strette di mano rendono Gaza un luogo nel quale il virus si diffonderebbe in maniera incontrollata nel giro di un paio di settimane. Il sovraffollamento degli ospedali, la carenza di macchinari per la ventilazione meccanica e di posti letto in terapia intensiva, l’inquinamento e le conseguenti patologie che affliggono una gran parte della popolazione gazawa che risulta malata ed immunodepressa, porterebbero ad una mortalità esponenzialmente più elevata rispetto al resto del mondo! (ndr).

Il direttore dell'OMS in Palestina, Gerald Rockenschaub, ha utilizzato un linguaggio rassicurante a seguito del suo incontro con il ministro della Sanità della PA, Mai Al-Kaila, a Ramallah lo scorso 25 febbraio, nel quale si è discusso riguardo alla necessità di ulteriori "misure di preparazione" e di "azioni di preparazione prioritaria aggiuntiva" in Cisgiordania ed a Gaza. 

L'OMS ha anche annunciato che si sta "coordinando con le autorità locali di Gaza" per garantire la preparazione della Striscia a far fronte al Coronavirus. 

Un linguaggio così rilassante, tuttavia, nasconde una brutta realtà, che l'OMS e le Nazioni Unite non hanno affrontato nel corso di un decennio. 

Tutti i precedenti rapporti su Gaza dell'OMS, pur descrivendo con precisione il problema, hanno fatto ben poco per diagnosticare le sue radici o per trovare una soluzione permanente ad esso. In effetti, gli ospedali di Gaza sono disfunzionali come sempre, l'acqua di Gaza è più sporca che mai e, nonostante i ripetuti avvertimenti, la Striscia non è ancora adatta alla vita umana, grazie al brutale assedio israeliano ed al silenzio della comunità internazionale. 

La verità è che nessuna preparazione a Gaza - o, francamente, ovunque nella Palestina occupata - può fermare la diffusione del Coronavirus. Ciò che è necessario è un cambiamento strutturale che porti all’emancipazione del sistema sanitario palestinese dall'orribile impatto dell'occupazione israeliana e dalle politiche di assedio perpetuo del governo israeliano e dalle quarantene imposte politicamente, note anche come “apartheid”!