Cosa (non) cambia nella politica estera statunitense dopo la vittoria di Biden: intervista ad Alberto Negri

Una parte dell'intervista è stata inserita all'interno dello speciale Tg Sherwood "Pastorale Americana", andato in onda mercoledì 2 dicembre.

9 / 12 / 2020

Le elezioni americane spostano una serie di assetti internazionali, Donald Trump nel suo mandato non ha aperto nuovi fronti militari preferendo un disimpegno nei confronti di Europa e Medioriente, e preferendo le guerre di dazi e dogane, non meno impattanti sulla vita delle persone. I tempi degli Usa come "poliziotto del mondo" sono forse finiti? Cosa possiamo aspettarci da Biden, già noto interventista in politica estera, lo abbiamo chiesto ad Alberto Negri, giornalista ed inviato di guerra che per più di 35 anni ha seguito sul campo i principali conflitti ed eventi politici internazionali. Una parte di questa intervista è stata inserita all'interno dello speciale Tg Sherwood "Pastorale Americana", andato in onda mercoledì 2 dicembre.

Iniziamo con la prima domanda: l’elezione di Biden ha cambiato alcuni scenari, alcuni Paesi avrebbero preferito la vittoria di Trump. In che modo queste elezioni mutano lo scenario internazionale?

Innanzitutto i Paesi che magari avrebbero preferito una rielezione di Trump sono Paesi europei come la Polonia e l’Ungheria, paesi con derive in qualche modo autocratiche che avevano un ottimo rapporto con l’amministrazione Trump (in particolare la Polonia, arrivata persino a comprare il gas americano piuttosto di acquistare quello russo); poi Paesi come l’Iran, nell’ala dura iraniana, più conservatrice, che vedevano nell’atteggiamento dell’America di Trump un’ottima giustificazione a perseguire una linea dura. Poi naturalmente Israele, il maggior beneficiario dell’amministrazione Trump (grazie allo spostamento dell’Ambasciata Americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscimento di Gerusalemme come capitale, la giustificazione e il riconoscimento delle colonie e dei territori palestinesi). Ancora, la linea tenuta dalle monarchie arabe del Golfo, come gli Emirati e Bahrein, che sono entrate nel famoso “patto di Abramo“ con Israele voluto proprio dall’amministrazione Trump. La stessa Arabia Saudita ha visto in Trump amicizia. 

Questi sono i Paesi che avevano in Trump un punto di riferimento.

Ora, non è che questi rapporti con l’ascesa di Biden verranno messi in forse: non ci sarà nessuna retrocessione americana sulla questione israelo-palestinese o dal punto di vista “retorico”, in realtà non cambierà quasi nulla. 

Ricordiamoci, come scrive il New York Times, che i nuovi membri del team di Biden non sono poi tanto nuovi: il segretario di Stato era un consigliere della Clinton (personaggio che aveva sostenuto l’intervento di Francia e Gran Bretagna in Libia, colui che voleva bombardare in Siria). Gli interventisti liberali che sono arrivati oggi sono molti di quelli che, insieme all’ex segretario di Stato Clinton, avevano combinato i maggiori disastri a casa nostra; non aspettiamoci dunque cambiamenti fondamentali. Uno dei nodi sarà per esempio il rapporto con la Turchia di Erdogan: Trump ha lasciato che Erdogan nel 2019 massacrasse i curdi siriani (nostri maggiori alleati contro il califfato). Farà qualcosa di diverso l’America di Biden? Io ne dubito, anche perché Erdogan è l’uomo che tiene impegnata la Russia su tanti fronti (Siria, Libia ecc.), quindi è funzionale agli interessi americani in ottica atlantista. 

Ecco perché non penso ci saranno reali cambiamenti; ci saranno cambiamenti di tono, ci sarà una maggiore retorica nei confronti dell’UE (citata come un importante alleato), ma in realtà rispetto all’alleanza atlantica le cose non cambiano. Agli europei verrà chiesto sostanzialmente di non firmare accordi con la Cina. 

Poi vedremo se nei confronti dell’Iran Biden e il suo team avranno il coraggio di rinegoziare l’accordo sul nucleare del 2015 voluto da Obama (e che Trump aveva stracciato). Il nuovo team della Casa Bianca è interventista liberale -dice sempre il New York Times- vale a dire che sosterrà e appoggerà interventi militari illimitati, magari con l’uso dei droni, dei quali il nuovo capo della sicurezza nazionale è una grande esperta. L’anno 2020, l’anno della pandemia, è iniziato il 3 gennaio con l’assassinio del generale Soleimani per mezzo di un drone americano. Continueremo su questa linea? Qualche dubbio c’è. 

Due domande, che ti faccio subito insieme. La prima, i rapporti con l’Europa: arriva il momento in cui l’Europa deve essere più presente -forse anche militarmente- su alcuni fronti (nello specifico il fronte libico, ma parlo anche della situazione migratoria)? Seconda domanda, come reagisce la Cina a queste elezioni e cosa possiamo aspettarci dallo scontro sino-americano?

Sulla presenza militare europea nel Mediterraneo sappiamo che ci sono diversi punti caldi, uno è quello della Libia che tu citavi, ma c’è anche quello del Mediterraneo orientale dove la Turchia reclama la sua fetta di torta sulle hub del gas persico, sulla fascia costiera, e sta mettendo in rotta di collisione la Turchia con la Grecia, con la Francia, con lo stesso Egitto. 

Per quanto riguarda la Libia, è vero che c’è una missione militare europea che dovrebbe cercare di bloccare il traffico d’armi verso la Libia, ma non mi sembra efficace. Anche perché gli europei hanno interessi contrastanti tra di loro, non sempre agiscono in maniera univoca. 

Quanto alla Cina, come dicevo prima gli americani chiederanno agli europei di non firmare accordi con i cinesi perché gli States vogliono negoziare direttamente con Pechino. C’è un aspetto che volevo sottolineare, vale a dire che le maggiori società di borsa americana hanno aperto sedi a Pechino, per la borsa di Shangai ma anche per fondi di investimento, fondi pensione ecc. Questo è un segnale molto evidente del fatto che Wall Street e Pechino in fondo andavano a braccetto. Segnale positivo per Biden, tanto è vero che ha raccolto per la sua campagna elettorale un miliardo e duecento milioni di dollari: Trump non aveva raccolto nemmeno la metà, il che significa che il presidente in carica era ritenuto da Wall Street meno affidabile del suo concorrente Biden. Ecco perché la Cina accoglie le elezioni di Biden con un certo favore, perché lo vedono come un partner più malleabile e ragionevole rispetto a Trump, anche perché sostenuto dai grandi investitori di Wall Street. 

È strano che nessuno si chieda del rapporto degli Stati Uniti con la Russia, quello è il problema grosso, visto che Putin e Trump sembravano andare (almeno all’inizio) abbastanza d’accordo. Vedremo se Biden avrà la stessa inclinazione nei confronti di Putin, anche se ne dubitiamo.

Un’ultima domanda, restiamo sui Paesi arabi: una cosa che è passata sotto traccia (almeno nel giornalismo mainstream) è la questione del Qatar. Il Qatar è fuori dai paesi del Golfo Persico, però ospita la più grande base americana degli ultimi anni. Durante l’amministrazione Trump il Qatar era stato lasciato autonomo anche per quelle che sono state le sue svolte in chiave sportiva. La nuova amministrazione agirà di più sul golfo persico o potrebbe essere uno dei nuovi nodi?

Riguardo ai rapporti tra Stati Uniti e Qatar è interessante vedere come gli americani abbiano sempre trattato con attenzione questa questione. Il Qatar come sappiamo è alleato con la Turchia, uno dei maggiori finanziatori di Erdogan, è alleato della Turchia anche a Tripoli nel sostegno dei Fratelli Musulmani: la mia impressione è che gli americani non hanno voglia di trattare di petto la questione del Qatar, non solo perché c’è una base americana molto importante. Credo che gli americani staranno attenti a cercare di ricostituire un fronte unito dei paesi del Golfo. Molto dipenderà dal rapporto con i Fratelli Musulmani e dai rapporti con Israele, ad esempio l’incontro tra ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il principe ereditario Mohammed bin Salman è stato smentito ma si è svolto, lo sanno tutti, ma il fatto che sia stato smentito ufficialmente è un segnale molto importante.

Gli Stati Uniti vogliono fare di Israele il vero guardiano del Golfo, soprattutto nei confronti dell’Iran, considerando anche che queste monarchie del Golfo hanno molto pasticciato in questi ultimi anni: ci si rende conto che l’avventura in Yemen dell’Arabia Saudita e degli Emirati è stata un disastro, che l’intervento degli Emirati in Libia è stato un mezzo disastro, insomma queste monarchie del Golfo devono essere in qualche modo indirizzate, contenute, e come contenerle meglio se non trovando sempre di più accordi con Israele, il maggiore alleato degli Stati Uniti.