Dagli elogi a Putin alle “riforme economiche”, viaggio nell’Ungheria di Viktor Orbán

31 / 5 / 2022

Con l’inasprirsi della guerra in Ucraina cresce la necessità, da parte dell’Unione Europea, di una politica unitaria sulle sanzioni alla Russia. Nell’ambito dei vari Stati UE, una voce chiaramente fuori dal coro è rappresentata dal governo ungherese. La linea intrapresa da Orbán e dal suo entourage è stata sempre di estrema cautela per quanto riguarda le sanzioni alla Russia di Putin. L’Ungheria ha infatti più volte minacciato di fare da collo di bottiglia per i nuovi pacchetti di sanzioni che sono in discussione al consiglio europeo di questi giorni (30 e 31 Maggio) e al quale parteciperà anche il presidente Ucraino Zelensky.

La politica estera di Orban - concretizzata nel recente rifiuto di una ferma condanna all’invasione Russa ma comunque, come vedremo in seguito, timidamente allineata alla NATO - è di difficile comprensione e va letta tra le righe non solo delle parole dello stesso Orbán, spesso chiaramente di natura provocatoria, ma anche dalle azioni che l’Ungheria sta mettendo in pratica per negoziare posizioni migliori all’interno dell’UE, dove ricordiamo il paese magiaro è attualmente soggetto ad una procedura d’infrazione per via delle violazioni dello stato di diritto.

Per comprendere la parabola politica di Orbán, diamo un breve sguardo alla storia recente dell’Ungheria e del suo sistema elettorale.

Brevissimi cenni storici dell’Ungheria del 900’

Dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale dell’Austria-Ungheria da parte delle potenze dell’Intesa, il neonato Regno D’Ungheria ebbe una lunga parentesi monarchica, governato dal Reggente Miklòs Horty fino al 44’. Durante la Seconda Guerra Mondiale la monarchia ungherese diventò membro delle potenze dell’Asse, grazie alla cessione, avallata proprio dalla Germania nazista, di significative porzioni della Transilvania da parte della Romania e a favore dei magiari. Resosi conto, nel 44’, che l’Asse avrebbe perso la guerra, Horty provò a negoziare una pace prima con gli alleati e poi coi sovietici, provocando però la reazione dei nazisti che con l’operazione Panzerfaust (15-16 ottobre 1944) obbligarono il Reggente a dimettersi facendo diventare l’Ungheria de facto un proprio stato fantoccio, guidato dal nazista Ferenc Szàlasi.

Dopo la caduta del nazismo e l’occupazione da parte dell’Armata Rossa, dal 46’ in poi l’Ungheria conobbe il periodo della cosiddetta Seconda Repubblica Ungherese,egemonizzata sempre di più dagli stalinisti fino a quando, nel 49’, l’ordine dello stato mutò ufficialmente e prese il nome di Repubblica Popolare d’Ungheria, diventando così di fatto una repubblica parlamentare monopartitica sotto la sfera di influenza sovietica. L’Ungheria ebbe una transizione democratica post-sovietica particolarmente dolce anche per via del timido riformismo del suo primo ministro Kádár che, salito al potere dopo i fatti della rivoluzione del 56’, promulgò una serie di riforme di apertura anche nei confronti del settore privato e dell’occidente definite Nuovo meccanismo economico.

Ed è proprio in questo contesto di che venne fondata, nell’88’e in chiave anticomunista, l’Alleanza dei Giovani Democratici, la Fiatal Demokraták Szövetsége,da cui l’acronimo Fidesz, l’attuale partito di Orban.

I partiti in Ungheria

Dopo che, nell’ultimo congresso del Partito socialista operaio ungherese (che governò il paese per dal 56’ all’89’) dell’89, il partito fu sciolto, vennero proclamati la Repubblica di Ungheria e il multipartitismo, rendendo di fatto l’Ungheria una democrazia liberale. Nel sistema politico si sarebbero alternati al governo 3 partiti/coalizioni, almeno fino alle elezioni del 2006. Le uniche eccezioni di candidati indipendenti furono Péter Medgyessye Gordon Bajnai, entrambi a capo di governi che non sono riusciti però a rimanere in carica per tutta la legislatura.

Uno dei partiti storicamente più influenti è il Partito Socialista Ungherese (MSZP), formatosi dalle ceneri del Partito Socialista Operaio Ungherese, di orientamento socialdemocratico. Abbiamo poi il Forum Democratico Ungherese, di orientamento liberal-conservatore nonché ex alleato di Fidesz per il primo governo Orbán del 1998. L’ultimo partito è proprio Fidesz, nato come partito liberale e anticomunista e finito ad essere a tutti gli effetti un partito di estrema destra. L’impressione è che proprio l’asse politico della nazione sia spostato vertiginosamente a destra.

Dalle elezioni del 2006, vinte dai socialdemocratici, Fidesz si presenta alle elezioni col Partito Popolare Cristiano Democratico. Nelle ultime elezioni il panorama politico è consistito in due grandi blocchi elettorali: oltre alla coalizione Fidesz-KDNP di Orbán, hanno concorso per i seggi dell’Assemblea Nazionale la coalizione Uniti per l’Ungheria, guidata dal conservatore Péter Márki-Zay e comprendente un po' tutto lo spettro politico ad eccezione di alcuni partiti minori di sinistra. Uniti per l’Ungheria è una composizione estremamente eterogenea che comprende dai nazionalisti di Jobbik, ai socialdemocratici dell’MSZP sino ai liberali di Momentum.

Il sistema politico ungherese

L’Ungheria è una repubblica parlamentare monocamerale con un sistema elettorale leggermente complicato. Con la riforma costituzionale voluta da Orbán e entrata in vigore a inizio 2012, sono stati fortemente ridotti il numero dei deputati dell’Assemblea Nazionale, il parlamento unicamerale del paese, passando da 386 deputati a 199, limitando di fatto la rappresentanza. Di questi 199, 106 sono eletti attraverso il sistema cosiddetto first-past-the-post, che in Italia chiamiamo scrutinio maggioritario uninominale. Semplicemente, in ognuno dei 106 distretti previsti dalla legge elettorale, il nome col più alto numero di voti ottiene un seggio in parlamento. I restanti 93 seggi vengono invece assegnati tramite una seconda votazione in cui non si sceglie il candidato ma il partito.

La peculiarità di questo sistema è che i voti in eccesso del primo scrutinio, vengono aggiunti al secondo. Per voti in eccesso, o wasted vote, si intendono da un lato i voti dati a candidati perdenti, che si sommano a quelli del partito del secondo scrutinio, e dall’altro il surplus di voti del candidato vincente, che fanno la stessa fine dei primi. A ciò si aggiungono delle soglie di sbarramento molto alte per i partiti minori, che arrivano fino al 15% in caso di coalizioni di tre o più partiti e al 5% per i singoli. Il sistema è stato criticato per esser esageratamente maggioritario e per avere un chiaro bias nei confronti dei grandi partiti. Per fare un esempio, nelle elezioni del 2018 la coalizione Fidesz-KDNP ha vinto il 67% dei seggi col 49% dei voti.

L’Ungheria di Orbán

Le reazioni della stampa internazionale dopo la vittoria di Orbán non sono state per niente unanimi, con grandi differenze in base alla linea editoriale delle varie testate. In Italia le congratulazioni sono arrivate innanzitutto dai partiti di destra, come la Lega e Fratelli D’Italia.

Appena eletto, il primo ministro ha subito messo in chiaro la sua posizione, specialmente nei confronti dell’UE e della guerra in Ucraina, salvo ritrattare poco dopo quest’ultima ribadendo che “I russi sanno che siamo con la NATO”.

Oggi Orbán risulta esser un personaggio estremamente controverso. Se da un lato è molto amato soprattutto da chi si identifica in idee di destra, dall’altra è costantemente sotto attacco sia dalla stampa liberal che da quella di sinistra. L’impressione è che molte di queste prese di posizione, soprattutto quelle da parte dell’elettorato, siano principalmente ideologiche e ricalchino più una fedeltà di partito che una reale consapevolezza delle politiche ungheresi. Diamo allora un breve sguardo al tipo di governance che Fidesz ha esperito in Ungheria.

A livello economico, il Governo Orbán è stato definito un caso di nazionalismo finanziario, teso a guadagnare autonomia rispetto alle politiche europee. Le riforme che il governo ha messo in atto dal suo insediamento nel 2010 in poi sono state in favore della deregolamentazione, finalizzata ad attrarre più capitali stranieri possibili nel Paese. Dal 2017 in poi, la tassazione per le imprese scende al 9%, mentre quella delle persone fisiche resta stabile al 15%, in un’ottica di flax tax. Ciò ha permesso all’Ungheria di attrarre ingenti capitali esteri. Solo le imprese italiane fatturano ben 3 miliardi e mezzo di euro nel paese magiaro.

Il governo di Orbán si è anche contraddistinto per una politica del lavoro assolutamente anti sindacale e per alcune controverse riforme, come la cosiddetta “legge schiavitù”, che obbliga i lavoratori e le lavoratrici a dover accettare di fare straordinari fino a 400 ore annue pena il licenziamento, con la possibilità delle imprese di ritardare fino a 3 anni i pagamenti. Approvata nel 2018, è stata definita incostituzionale solo nel 2021 grazie ad un ricorso presentato dai sindacati e  poi accolto dalla Corte costituzionale. Nonostante ciò, definire il modello economico del dittatore magiaro unicamente liberale risulterebbe semplicistico, visto che il governo ha anche avviato, a partire dal 2011, la nazionalizzazione di alcuni settori strategici, in primis i fondi pensione fino ad imprese di telecomunicazione e media. La costante delle politiche di Orbán sembra però essere quella dell’indipendenza economica unita ad una gestione neoliberista dell’economia e ad una politica che è stata definita ordonazionalista.

Sul fronte della famiglia la posizione del governo è chiaramente di impronta conservatrice. Il problema che si è posta l’Ungheria negli ultimi anni, diventata sempre più una nazione di consumatori e con una popolazione inferiore ai 10 milioni di persone, è quello di avere sempre più manodopera per sostenere la crescita costante del Pil, passato dai 115 milioni di dollari del 2006, agli attuali 155 milioni. Essendo uno stato con un settore secondario molto importante, il governo ha sempre cercato un modo di aumentare il numero della propria manodopera. Il ricorso all’immigrazione, per un governo ultranazionalista come quello di Orbán, è fuori discussione. Si è allora deciso di fare largo uso di incentivi per le famiglie.

La natura di questi provvedimenti è decisamente eterogenea, si parla ad esempio di tassazione agevolata per i nuclei familiari secondo un sistema per il quale più fai figli meno tasse paghi fino all’esenzione per le famiglie con più di quattro figli. Altre riforme sono il congedo parentale per i nonni, in modo che possano accudire la prole, il mutuo sociale per le famiglie per acquistare casa, incentivi per l’acquisto di auto spaziose, un sistema di asili pubblici gratuiti, un incentivo monetario mensile dalla durata di due anni per i neosposi, benefit di maternità, ferie aumentate eccetera. Questa enorme mole di provvedimenti ha ovviamente un costo molto elevato, si parla di addirittura il 4% del Pil speso per riforme in sostegno delle famiglie, un costo che a quanto pare il governo è disposto a sostenere in un’ottica di lotta al declino della popolazione ungherese. I risultati sono stati ovviamente significativi. Secondo un report della Banca Mondiale, l’indice di fertilità (figli per donna) in Ungheria è passato da 1,23 del 2011 fino a 1,55 del 2018.

Per quanto concerne la politica interna Orban ha attuato riforme volte a limitare fortemente la libertà di stampa e di espressione, arrivando a fare pressioni politiche su organi di stampa rivali e imporli di chiudere, come accadde, ad esempio, nel 2020 al quotidiano Index. Oltre alle pressioni politiche, la stretta di Fidesz sui media viene esperita anche attraverso un'unica fondazione, la Central European Press and Media Foundation, in ungherese KESMA, che controlla, anche tramite continue acquisizioni, circa 500 diverse agenzie di stampa ungherese, che da sole rappresentano fino al 90 percento della stampa magiara.

La stretta sui media ungheresi è diventata via via più forte da parte di Fidesz, cosa che si può facilmente notare vedendo il trend del ranking del World Press Freedom Index. L’Ungheria è difatti passata dall’essere la 56esima nazione su 180 per libertà di stampa nel 2013 a raggiungere la posizione 92 nel 2021. Dal 2011 in poi, è infatti una commissione eletta dal parlamento (saldamente in mano a Orbán) a decidere i vertici della tv pubblica e la linea editoriale.

L’opposizione è silenziata non solo attraverso pressioni politiche e acquisizioni, ma anche, come nota un report della EFJ (European Federation of Journalist) facendo pressioni sulle agenzie pubblicitarie per far sì che esse non comprassero spazi pubblicitari di media non allineati. Difatti, la maggior parte delle entrate pubblicitarie sono monopolizzate dai media governativi, in primis il canale TV2 che da solo genera il 67% degli introiti pubblicitari televisivi del paese. La precarietà delle entrate per i media non governativi, spacciata per una semplice conseguenza del libero mercato, rappresenta un problema reale per quei giornalisti che non si allineano alla propaganda di Fidesz e che fanno quindi fatica a mantenersi.

I pochi giornalisti rimasti subiscono invece la macchina del fango dei media pro-Orban, che non perdono occasione di delegittimare e etichettare come nemici del popolo quelle persone che non risultano allineate col pensiero del governo.

La situazione della libertà di stampa in Ungheria è quindi molto critica, e anche se la repressione del dissenso viene attuata attraverso forme forse vagamente meno dirette rispetto ad altri regimi dittatoriale, è innegabile che la vita di un giornalista di opposizione nell’Ungheria di Orbán sia sempre più difficile.

Insomma, l’Ungheria di Orbán è tutt’altro che uno stato governato da un esecutivo “popolare”. Al di là delle sparate del ministro contro Soros (che tra l’altro finanziò inizialmente Fidesz e pagò gli studi di un giovane Orban in Inghilterra) e contro l’UE, l’agenda politica del ministro è di natura principalmente liberale. Fidesz nasce infatti proprio come partito progressista e, in un certo senso, anche europeista. Fino all’anno scorso, il partito di Orban era addirittura affiliato al PPE, il partito europeo della Von der Leyen, liberale, conservatore e fortemente europeista.

Come già spiegavo in un altro articolo sul tema anche in questo caso l’utilizzo di una retorica anti-establishment non basta a qualificare una forza politica come popolare, ma si limita a rendere Fidesz un partito semplicemente populista che, dietro allo scagliarsi conto una troppo generica “finanza internazionale”, attua una politica economica asservita alle imprese a all’oligarchia magiara.

La questione delle politiche di Orbán ci porta ad una serie di riflessioni che sono doverose fare anche all’interno dei movimenti di sinistra. Le ultime elezioni francesi, che hanno visto al ballottaggio i liberali di Macron contro la destra della Le Pen, hanno riportato in auge il dibattito su cosa debba fare la sinistra in questo caso. Dibattito che in realtà affonda le radici nell’eterna domanda, così cara specialmente alle frange troskiste, del dover o meno difendere lo stato liberale da forze reazionarie.

Il fatto che il Rassemblement National della Le Pen abbia però sempre provato ad aggraziarsi il favore della working class francese promettendo un indirizzo economico peculiarmente keynesiano, rende il tutto ulteriormente più complesso.

In Italia invece si moltiplicano i partiti fortemente antisistema, antieuropeisti e sovranisti che si rifanno a ideali che definiscono timidamente di sinistra. In questo caso credo che il problema non sia, come una certa narrazione liberal vuole, le critiche legittime che si possono muovere all’Unione Europea e alla sua classe dirigente. Il problema che si pone quando partiti come quello di Orban o della Le Pen salgono al potere con una retorica molto antieuropeista, è quello di scambiare una classe dirigente impopolare con un'altra classe dirigente ugualmente impopolare, ma nazionale. L’Ungheria è un caso esplicativo di come soprattutto le persone che vivono in contesti di marginalità, come ad esempio gli operai, gli immigrati, o gli appartenenti alla comunità LGBT+, hanno tutto da perdere.

La risposta di una sinistra che si definisca tale non può e non deve assolutamente essere quella di strizzare l’occhio alle destre o ai reazionarismi, semplicemente perché utilizzano una narrazione vagamente anticapitalista. E questo deve valere con la Le Pen, con Putin, con Orbán e con qualsiasi altro tentativo, da parte delle destre, di egemonizzare le critiche alla globalizzazione o al capitalismo.

L’altra faccia della medaglia, l’altra “sinistra di destra”, per dirla come Mauro Vanetti, è però quella socialdemocratica e liberale, quella dell’accettazione acritica di qualsiasi agenda politica, anche quella di Macron o del crescente militarismo, in nome di una difesa degli interessi comuni e di un “antifascismo” che è tale solo di facciata. Anche questo escamotage risulta assolutamente controproducente, non facendo altro che legittimare una governance neoliberale senza che si costruisca una reale alternativa.

È doveroso che in questo crepuscolo, la sinistra rimanga ugualmente equidistante da tutte le degenerazioni del suo pensiero, tra chi vorrebbe strizzare l’occhio a Putin o a Orbán in nome di un sedicente antiimperialismo e chi invece è pronto ad accettare qualsiasi diktat in nome del più insulso menopeggismo.