la rabbia si è trasformata in furiosa battaglia, dopo le immagini trasmesse a ripetizione dalle tv panarabe, che hanno mostrato i cecchini mercoledì a Rabaa che sparano sui soccorritori mentre raccolgono i feriti, su giovani ragazze inermi e lontane dagli scontri e dalle barricate.

Dopo il massacro ancora centinaia di morti in tutto il paese

17 / 8 / 2013

Cadute le foglie di fico con le dimissioni di El Baradei e del portavoce dell’opposizione laica, i generali guidati da El Sissi continuano nel loro tentativo di stabilizzare lo status quo ante col fuoco e col sangue spingendo il paese oltre la linea del non ritorno della guerra civile.

Nel venerdi' di preghiera dopo le stragi di Rabaa e Nahda, con un bilancio ufficiale di oltre 600 morti destinato inesorabilmente ad aumentare, i sostenitori del deposto presidente Mohamed Morsi sono tornati nelle strade per il ''giorno della collera''. E la rabbia si è trasformata in furiosa battaglia, dopo le immagini trasmesse a ripetizione dalle tv panarabe, che hanno mostrato i cecchini mercoledì a Rabaa che sparano sui soccorritori mentre raccolgono i feriti, su giovani ragazze inermi e lontane dagli scontri e dalle barricate. La moschea di Rabaa è stata praticamente distrutta dalle fiamme, un atto ''imperdonabile'' per i musulmani.

"Gli assassini verranno giustiziati", hanno gridato in migliaia oggi in tutto il Paese, con la guida dei Fratelli musulmani, Mohamed el Badie, che ha invitato i confratelli a "resistere, fino alla vittoria". Alle prime ore del pomeriggio, così come avevano minacciato, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sui manifestanti: i primi a cadere sono stati i sostenitori di Morsi a Ismailiya, poi a Tanta, Arish, Fayyoum, fino al Cairo, dove si registra il bilancio più drammatico. I militari hanno sparato sulla folla radunata a piazza Ramses, che si staglia a un paio di chilometri da Tahrir, il luogo simbolo della rivolta contro Mubarak e Morsi, presidiata da 14 carri armati leggeri e decine di blindati della polizia. I dimostranti hanno reagito con il lancio di pietre, poi hanno attaccato e dato alle fiamme un commissariato.

Proponiamo qui di seguito un commento di Stefano Casertano tratto da ‘LINKIESTA.IT’

Paragonare gli eventi mediorientali con precedenti storici di altre epoche e geografie non serve più a nulla. I confronti con rivoluzioni francesi, 1848, modernismi, colpi di stato arabi, 1968, 1989 sono stati un esercizio divertente ai primi tempi, quelli delle ingenue speranze verso un nuovo futuro della regione. Adesso, con tutta la complessità dei fatti che scuotono il mondo arabo, continuare a inerpicarsi in questi esercizi accademici ha il solo effetto di impedire di comprendere la situazione. Quanto sta succedendo in Egitto non è un ritorno all’epoca di Mubarak. La realtà egiziana non si fa comprendere incasellandola in categorie alto-novecentesche. Si sta solo sviluppando uno scontro per la supremazia del più forte.

Anche all’interno degli apparati militari esistono divisioni radicali, con gruppi filo-presidenzialisti, filo-islamisti e perfino filo-salafisti. «Al-Sisi ha deciso di intervenire ora perché voleva dimostrare di avere il pieno controllo della macchina militare», sostiene un ricercatore tedesco residente al Cairo da alcuni anni, «e per questo l’operazione di sgombero degli accampamenti pro-Morsi è stata dovuta prima di tutto a motivi interni al sistema delle forze armate». Al Sisi si vuole proporre come nuovo Mubarak? «Sta cercando esternamente l’appoggio delle minoranze, quelle che temono l’ascesa di forze radicaliste, le quali da settimane stanno attaccando le chiese copte in tutto il paese». Su 85 milioni di egiziani, i cristiani sono circa otto milioni. 

Sostiene Ahmed, studente d’ingegneria al Cairo, che la dimissioni del vice-presidente premio Nobel Mohammed El-Baradei – il quale non è un fratello mussulmano – in polemica con le azioni dei militari «hanno deluso molti che si oppongono agli islamisti. L’oppressione era sentita ogni giorno di più. El-Baradei era una speranza per i secolaristi». Che davvero la violenza dei militari sia la soluzione più opportuna è in dubbio, ma il punto di vista dello studente dice molto delle tensioni createsi in Egitto.

È un paese in cui non ci sono né buoni, né cattivi, ma solo violenza, in quel deserto politico lasciato dalla caduta di Mubarak. L’ex-presidente, come tutti i semi-dittatori, ha fatto sopravvivere la sua regola svuotando gli apparati statali di qualsiasi potere – così che, alla sua fine, è seguito il nulla. Samuel Huntington chiamava questa situazione “pretorianismo”. In Egitto è una strage senza fine. La prevalenza di Al-Sisi non significherà un ritorno al presidenzialismo arabo, ma l’installazione di una dittatura militare ancora più pervasiva e assoluta rispetto al passato.

gli islamisti hanno assaporato il gusto del potere. Non crede nessuno agli intenti realmente “democratici” delle riforme dei Fratelli Mussulmani: fin dal primo giorno al governo hanno cercato introdurre cambiamenti costituzionali per assicurare la propria regola, e hanno cercato di installare fedeli e fedelissimi nelle posizioni più importanti. Ha riconosciuto anche l’Economist che “Senza alcun dubbio la performance di Morsi come presidente è stata un disastro. Ha vinto un quarto dei voti e ha preso a sbarazzarsi di qualsiasi regola democratica».

Ma l’Egitto, qualunque strada avesse imboccato, sarebbe stato devastato da un qualche tipo di scontro civile. Morsi non è un personaggio aperto al dialogo, così come non lo sono gli zeloti che compongono il suo partito. Vedono la democrazia come sistema per accaparrare il potere assoluto. Difficilmente sarebbero stati aperti a elezioni vere, e con tutta certezza il loro piano politico avrebbe portato a ribellioni generalizzate in tutto il paese. La Fratellanza Mussulmana è stata fuorilegge per decenni, ma la sua espressione politica non è fatta di riconciliazione e inclusione, ma di fanatismo e regole assolute: “o con noi, o contro di noi”.

Perché Morsi non è mai stato un Mandela, che alla sua liberazione in Sudafrica invitò gli africani – e i membri del suo partito fuorilegge dal 1960 al 1990, l”African National Congress” – a perdonare i bianchi e a rifondare il paese. Morsi vuole solo potere, potere, potere e riforme sul modello islamico, ispirandosi alla Turchia di Erdogan, con il cui governo si sono sviluppati incontri regolari e lezioni su come riorganizzare l’Egitto. Se in Turchia il modello è clamorosamente fallito, ciò ha portato solo a qualche rivolta di piazza sedata prontamente con fumogeni, pallottole di gomma e idranti – Erdogan si era premurato a tempo di svilire i militari di potere e risorse. Ma Erdogan ha preso anni per spingersi in là con le riforme islamiste: ha aspettato il momento adatto, quando non avrebbe avuto seri concorrenti per il potere. 

Al contrario di Erdogan, Morsi ha avuto fretta: ha sottovalutato la capacità di reazione dei militari. In tutte le riforme portate avanti, ha fatto in modo di non toccare gli interessi economici dei generali, pensando che ciò sarebbe stato sufficiente a evitare una loro opposizione. Il problema per Morsi è stato che i militari hanno appreso fin troppe lezioni dall’esempio turco, e hanno deciso di interrompere l’ascesa islamica con il sangue, prima che Morsi diventasse troppo forte. Hanno agito quasi con arroganza: hanno annunciato il colpo di stato con tre giorni d’anticipo: «Signore e signori, mercoledì 3 luglio alle quattro attueremo un colpo di stato» hanno dichiarato pressappoco la domenica precedente.

Washington è in comodo imbarazzo: non può che compiacersi dell’eliminazione di un fattore destabilizzante come la Fratellanza Mussulmana, tra le sue amicizie con Hamas e vari gruppuscoli estremisti in tutto il quadrante. Deve condannare le violenze per chiare ragioni ideologiche – Obama ha annunciato che un’esercitazione militare congiunta con gli egiziani, prevista per settembre, è stata temporaneamente cancellata. Il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest ha dichiarato da Marta’s Vineyard, dove il presidente è in vacanza, che «il governo egiziano deve interrompere le violenze» e che «gli Stati Uniti si oppongono al ritorno dello “stato di emergenza”» nel paese. Poco conta se, al momento delle dichiarazioni di Earnest, le violenze erano già in atto e lo stato di emergenza era già stato imposto. Gli Stati Uniti sanno che tutto il quadrante è in subbuglio: stanno tornando disordini in Bahrein e in Tunisia, e anche l’Afghanistan è a rischio. Turandosi il naso, i militari egiziani sono l’unico appiglio per cercare di creare condizioni di ordine politico. Che tale ordine non si chiami “democrazia” è ovvio. Perché in questo momento la democrazia non è l’obbiettivo.


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