Dove va l'America?

Uno sguardo sulle elezioni statunitensi tra interessi delle élite economico-finanziarie, ritorno del suprematismo bianco, realismo della new left e nuovi movimenti afro-americani

8 / 11 / 2016

Le elezioni sono arrivate, oggi sapremo chi governerà il Paese più potente del mondo ed andremo avanti. Io voglio approfittare quindi di questi ultimi momenti, per guardarmi un poco indietro. In questo periodo negli Stati Uniti, così come in Europa, la copertura delle elezioni è focalizzata sui due candidati principali, Clinton e Trump, con poco riguardo sulle differenze nelle loro agende. Si tratta difatti di una sorta di gara allo scandalo, che procura titoli grossi, facilmente monetizzabili.

Il ritratto che si fa della vita politica del paese è quello di contenuti - riassumibili in Siria, minaccia russa, violenza nelle strade, terrorismo, minoranze – poco articolati che si esauriscono nella dialettica urlata tra i due principali candidati.

La politica statunitense è tuttavia molto più di Hillary e Donald. Non mi riferisco tanto ai candidati minoritari come Johnson (Libertari) o Stein (i Verdi), quanto alla rinvigorita vita dei movimenti politici e sociali frutto dell’aggravarsi delle contraddizioni interne al Paese, specie a seguito della crisi economica.

Abbiamo tutti assistito alle proteste e alla prepotente emersione di Black Lives Matter – giunto sino alle panchine di eventi sportivi seguiti da migliaia di americani – a partire dal 2013  con l’assoluzione di Zimmerman per aver ucciso il giovane afroamericano Tryvon Martin, l’ennesimo caso, che ha spinto i leader delle comunità nere a chiedersi come rispondere alla svalutazione delle vite dei cittadini di colore. Nacque così la campagna, con l’hashtag #Blacklivesmatter, rivendicando eguale dignità per le vite degli afroamericani. Nel 2016 acquista particolarmente risalto il fermento popolare causato dalla candidatura di Bernie Sanders, che ha visto maggiormente protagonisti la classe lavoratrice e il giovane precariato bianco. Oggi assumono sempre maggiore rilievo le proteste degli ambientalisti e dei nativi americani in Nord Dakota e California. La centralità di questi movimenti e la capacità di porsi al centro del dibattito politico nazionale sono continuamente in crescita.

Il Senatore del Vermont per una buona parte delle primarie è apparso come una forza in grado di scuotere l’élite del partito democratico e rivoluzionare dall’interno la politica americana, i suoi sostenitori includevano vecchi reduci della new left, sezioni della comunità di quella LGTBQ, minoranze della comunità afroamericana, esponenti dei sindacati ed in generale, i giovani, o come sottolineano qui i “millennials”. Una base eterogenea con in comune i duri effetti della crisi e della precarizzazione.

Ora questi dove sono? Durante le primarie diverse questioni di primaria importanza hanno trovato una cassa di risonanza nel dibattito tra i due candidati democratici, ad esempio i diritti del lavoro, il proseguo della concentrazione di capitali in mano alle oligarchie finanziarie, l’inefficienza del sistema sanitario, ma anche la questione razziale, che ha seguito delle violenze poliziesche, degli omicidi di neri a Charlotte, Chicago, dei fatti di Ferguson, si è propagata e imposta all’attenzione dell’opinione pubblica e dello stesso dibattito delle primarie democratiche, come non più evitabile a costo dello scivolamento verso maggiore tensione, sospetto e violenze.

Se vogliamo delle risposte in questi campi, la maggior parte delle fonti d’informazione sono a dir poco inutili, tuttavia durante la mia permanenza negli States ho avuto la fortuna di conoscere diversi compagni, parlare con molti ragazzi che hanno “felt the Bern”. La mia permanenza in un campus universitario in Indiana, per via della particolare composizione socio-economica del midwest, ha tuttavia limitato i miei contatti a giovani di tutte le fasce sociali, grazie anche ad un buon finanziamento delle borse di studio, che permettono alle fasce popolari di studiare alla Purdue University, di razza bianca.

Ad ogni modo un particolare elemento mi ha permesso di estendere occasionalmente il confronto sulle elezioni ad elementi al di fuori del limitato campione universitario. Infatti, se in Italia le scienze politiche sono trattate quasi come uno scherzo, qui, neanch’io mi spiego bene il perché, sono circondate da un’aura di rispetto ed interesse. Ogni volta che conosco qualcuno e vengono fuori i miei studi, ecco subito che la prima domanda è un parere sulle elezioni e così fioccano i dibattiti. È stata una fortuna perché ho potuto parlare di politica con chiunque, alcune vecchie signore di colore, giovani latini, afroamericani, giovani conservatori bianchi, ex attivisti della new left. Ho partecipato a riunioni di compagni e ho scoperto che esistono numerosi giornali, siti e altri strumenti di produzione e divulgazione di idee di cui la sinistra americana fa proficuo uso, una vitalità inaspettata per una frazione relativamente minoritaria dell’universo politico americano.

Da queste esperienze vorrei trarne un piccolo ritratto di ciò che vorremmo sapere su sinistra, movimenti sociali ed elezioni presidenziali negli Stati Uniti, ma a cui difficilmente riusciamo ad accedere.

Attualmente il dibattito sembra essere fossilizzato su una serie di scandali di poco conto, c’è poco sulle grandi questioni che gli Stati Uniti devono affrontare, tra esse la guerra in Siria, la stabilità globale, la precarizzazione della forza lavoro, la transizione verso una crescita sostenibile, l’erosione della classe media. Ma questo non vuol dire che queste tematiche non abbiano posto nella vita politica americana.

Black Lives Matter, e la rete di cui fa parte, ossia, Movement for Black Lives (MBL) dopo essere riusciti a sopravvivere, superando le ondate spontaneiste seguite agli omicidi di giovani afroamericani non solo sono rimasti aggregatori sociali e di protesta, ma si sono evoluti. Dallo spontaneismo, dalla lotta contro il razzismo, lo spettro delle rivendicazioni del movimento si è esteso in maniera non affatto scontata nell’ambiente culturale americano, formalizzando la connessione la tra questione razziale e quella sociale.

Il primo Agosto 2016 a seguito delle deliberazioni di almeno cinquanta delle organizzazioni che formano la rete BLM, è stata pubblicata una piattaforma politica, dando vita ad una svolta propositiva.

Riassunta, la piattaforma consiste in sei grandi rivendicazioni:

1.La fine della guerra contro le persone nere

2.Riparazioni per i danni presenti e passati, il governo è responsabile per le società private ed altre istituzioni che hanno tratto profitto dal danno inflitto ai cittadini di colore. Come veicoli del danno si considerano il colonialismo, la schiavitù, la discriminazione nel mercato immobiliare, l’incarcerazione di massa e la sorveglianza. Tali danni devono essere riparati attraverso il pieno e gratuito accesso all’educazione, un salario minimo dignitoso garantito e riparazioni economica diretta.

3.Disinvestimento dalle forze sfruttatrici che criminalizzano, incarcerano e danneggiano le persone di colore, tra cui le prigioni, i combustibili fossili, la polizia, la sorveglianza, l’apparato militare e le aziende sfruttatrici, per riutilizzare il capitale in educazione, sanità e sicurezza.

4.Giustizia economica, che comprende la proprietà collettiva delle comunità nere, non solo il mero accesso alle risorse.

5.Controllo delle comunità su leggi, istituzioni e politiche finalizzate a servirle, come scuole, budget locali, dipartimenti di polizia e terra, in questo punto viene anche dichiarata la necessità di rispettare i diritti e la storia dei popoli indigeni. 

6.Potere economico e autodeterminazione nera in tutte le aree della società, il sistema politico statunitense deve essere riformato per creare una democrazia reale dove tutte le persone emarginate possano esercitare pieno potere politico.

Vi invito a visitare il sito del movimento per esplorare nel dettaglio i punti, ben spiegati ed argomentati, ma già dal riassunto si può comprendere la loro interconnessione, l’ampiezza e la complessità dell’agenda, che possiamo etichettare senza indugi come rivoluzionaria, al punto che diverse personalità hanno creato dei paralleli tra MBL e il Partito delle Pantere Nere.

La piattaforma ha suscitato l’entusiasmo di molti attivisti, di tutte le età, diventando un punto di riferimento anche oltre la questione razziale; importanti riviste ispirate dai reduci della new left, come the Jacobin, hanno scritto con interesse del progetto politico del movimento.

Sanders, sicuramente più moderato, è stato un’ondata di (relativo) radicalismo per gli Stati Uniti nel periodo delle primarie. Il senatore del Vermont ha incentrato la sua campagna sulla necessità di nuove garanzie per i lavoratori, come  lo stipendio minimo garantito a livello federale di almeno 15$ all’ora, portando per la prima volta nel dibattito delle primarie democratiche il #fightfor15, battaglia comparsa a partire 2012 dalle proteste dei dipendenti sottopagati dei fast food in tutto il Paese, per poi estendersi fino ad avere una portata più generale e che ha già registrato diversi successi a livello statale, come in New York, California e cittadino, come San Marcos, Missoula e Pittsburgh. Hanno trovato inoltre spazio la proposta, non nuova, ma difficile da riscontrare tra i vertici di partito, di una riforma del sistema sanitario in modo da garantire il diritto universale alla salute, un’estesa piattaforma in ambito di sicurezza e questione razziale che comprende la demilitarizzazione della polizia, il controllo democratico su di essa, intervenire sulla composizione dei reparti delle forze dell’ordine per far sì che rispecchino le comunità che servono, maggiore trasparenza, restituire il diritto di voto a quell’afroamericano su sette che lo ha perso per una permanenza in carcere, abrogare leggi discriminatorie, rendere il giorno delle elezioni festivo (attualmente è di martedì, non vi è il diritto di assentarsi da lavoro per votare) e tanto altro. Una piattaforma elastica ed in divenire che è stata creata anche attraverso l’interagire tra movimenti, attivisti e il comitato per Sanders.

Da questi due programmi emerge la sostanziale ed inedita rottura che le prospettive, i progetti emersi dalla dialettica politica statunitense, dal basso, dall’entusiasmo, di giovani e lavoratori, attuano nei confronti dello stato attuale delle cose e della stessa cultura politica individualista, capitalista, liberale americana.

Tuttavia, ciò è assente dal dibattito tra i due principali candidati. Ognuno flirta a modo proprio con lavoratori e giovani. Trump promette la rottura col passato attraverso il primo grande rifiuto della globalizzazione ed il ritorno ad un mercantilismo capace di valorizzare la forza lavoro nazionale, nuovi progetti per la sicurezza nei ghetti e la fine dell’intervenzionismo militare statunitense. Nel frattempo la Clinton cerca di attrarre le masse che furono galvanizzate da Sanders, ma le sue proposte sono più moderate rispetto a quelle del suo ex avversario alla candidatura democratica ed ancor di più al confronto della piattaforma di MBL; esse si riducono, come accaduto nei tre dibattiti televisivi, a dichiarazioni di circostanza sulla collaborazione tra polizia e comunità, parole d’ordine senza sostanza circa l’eguaglianza di genere e la lotta alla discriminazione, che tuttavia acquistano una relativa credibilità grazie all’impressionante curriculum della candidata ed alla stima di cui gode nel Paese, non per nulla mi sono più volte sentito dire che le buone idee della presidenza di Bill sono probabilmente state tutte di Hillary.

Le due opposte campagne elettorali, così come i due diversi profili dei candidati hanno prodotto due blocchi di sostenitori con precisi connotati di genere e razza.

Difatti, Trump, con il suo nazionalismo economico e il richiamarsi ad una “Great America” passata, implicitamente bianca, da riportare in vita, ha raccolto il consenso della classe media bianca impoverita. La Clinton dal canto suo ha il sincero appoggio della comunità afroamericana anagraficamente adulta, soprattutto per via del ricordo dell’operato di Bill che per primo nominò ben quattro segretari afroamericani e sotto la cui amministrazione si assistette al boom economico che portò al diminuimento della disoccupazione dei cittadini di colore dal 14.1% all’8.2% ed aumentò il loro stipendio medio del 25%, anche i Latinos e le donne, estraniate dai commenti e dalle idee dello stesso Trump sono più tendenti alla Clinton, che dal canto suo, in particolare circa il tema dell’uguaglianza di genere ha presentato un lungo e continuo impegno.

I grandi temi dei movimenti americani dopo un’emersione in grande stile, si ritrovano compressi nell’attuale dibattito presidenziale e nemmeno menzionati dai media tradizionali. Questi sono più focalizzati sul profitto, con la creazione di una falsa corsa alla presidenza, vendono al pubblico, con lauti guadagni, l’idea del pericolo Trump, scandali appetitosi ormai scollegati dalla realtà, tenendo l’elettorato col fiato sospeso, teso, attento. Un pericolo che però trova una possibile concretizzazione nel funzionamento delle elezioni presidenziali statunitensi, dove a contare è il voto del singolo stato e non quello popolare a livello federale. In molti temono infatti che la Clinton possa vincere il voto popolare grazie alle preferenze in stati progressisti e popolosi come la California, l’Illinois, New York, perdendo però consensi nei meno popolosi stati del sud. Che il pericolo Trump sia più percepito che reale o viceversa, non ci sono abbastanza elementi per poter davvero abbassare la guardia.

Se la Clinton vincerà le elezioni - e probabilmente non di misura -  sarà grazie all’appoggio della sinistra orfana di Sanders, della minoranza latina e nera, del centro e del tradizionale, moderato elettorato repubblicano e democratico.

Oltre ai contenuti della sinistra, anche i suoi soggetti sono assenti dalla copertura mediatica delle elezioni, o tutt’al più vengono presentati come compatti attorno alla Clinton, paladina del progressismo contro la minaccia fascista rappresentata dall’imprenditore immobiliare newyorkese.

Ma è davvero così? La Clinton non è di certo una progressista, così come Trump non può essere ridotto al fascismo, sarebbe una semplificazione eccessiva delle dinamiche sociali statunitensi.

La candidata democratica è vicina agli ambienti di Wall Street, ai più alti circoli finanziari e neoliberisti, compatta attorno a sé il sostegno dei neocon e dei falchi del complesso militare ed industriale. Non è un caso che per molti sia vista come un pericolo per la stabilità e la pace mondiale più di quanto lo sia Trump. La sua carriera come senatrice e segretaria di Stato l’ha vista sempre in prima linea, anche contro il parere di Obama, per un maggiore interventismo americano. In campagna elettorale ha usato il populismo patriottico accusando i russi di aver hackerato le sue mail, sviando il dibattito dal deficit di democrazia che emergeva da esse ed ha ricreato la figura del grande nemico contro cui compattare il fronte interno. Continua inoltre a sostenere la necessità di instaurare una no fly zone siriana, che aiuterebbe gruppi jihadisti, etichettati come moderati dal Dipartimento di Stato, e rischierebbe di esacerbare la tensione con Mosca, con conseguenze catastrofiche per i Siriani e l’Europa. Gli spazi per evitare una nuova guerra fredda, un rinnovato militarismo, sono ancora presenti, la Clinton non sembra nemmeno voler volgere lo sguardo in tale direzione.

Il suo appoggio per i trattati di libero scambio e le politiche neoliberiste, nonché i suoi maggiori sostenitori e finanziatori, lasciano largamente dubitare della sua capacità di intervenire a favore dei lavoratori, riequilibrando i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Allo stesso modo la promessa di imbarcarsi in politiche ambientaliste, come l’ambizioso piano di iniziare una transizione verso fonti di energia rinnovabili, stride con la struttura legale della NAFTA (Area di Libero Scambio del Nord America), come ben argomentato da Naomi Klein in “This Changes Everthing”.

La Clinton non è di certo la candidata della sinistra, ma l’immobiliarista newyorkese costituisce un pericolo più grande per le anime della sinistra americana.

Trump in sé è una creatura dello spettacolo, le sue dichiarazioni sono scandalistiche e poco rappresentative delle sue reali posizioni, la distinzione tra personaggio reale e fittizio è d’obbligo in questo caso. Ciononostante è un dato di fatto che la sua candidatura abbia fatto riemergere, segmenti della società che si pensava fossero stati superati. Il candidato repubblicano, per la prima volta nella storia contemporanea americana, ha ricevuto il sostegno dei suprematisti bianchi (neo nazi e KKK), degli ultraconservatori religiosi e di alcuni degli elementi più reazionari della società statunitense. Trump indirettamente mette sul tavolo la legittimazione politica di questi gruppi, prima sotterranei.

Le sue posizioni, attendibili o meno, sono in aperto contrasto con le ultime maggiori conquiste nell’ambito dei diritti civili. Ma è davvero possibile far retrocedere le lancette della storia? Sì il rischio è che, come già fece Reagan, un futuro Presidente Trump possa trovarsi nella situazione di nominare un buon numero di giudici della corte suprema e dei distretti federali, le cui cariche durano a vita. Nel sistema giuridico americano le leggi vengono interpretate sulla base delle sentenze dei giudici; se i più importanti tra questi venissero nominati da Trump, l’interpretazione e l’applicazione della legislazione potrebbe avvenire attraverso categorie conservatrici, mutandone nel lungo termine la natura stessa.

Non stupisce quindi che la sinistra statunitense abbia scelto, nonostante alcune defezioni, di schierarsi dalla parte della Clinton; voci autorevoli di compagni, professori e giornalisti come Harry Targ, Arun Gupta, DeRay McKersson e lo stesso Bernie Sanders ne sono esempio.

Il supporto ha molte giustificazioni.  Numerosi attivisti, specie dell’area di Bernie Sanders, pongono precedenza alla sconfitta di Trump e delle forze da lui rappresentate, con la fede che una vittoria della candidata democratica con uno stacco importante sia possibile solo grazie ai voti della nuova sinistra americana. Una tale vittoria, secondo alcuni strateghi, tra cui uno dei miei professori alla Purdue University e compagno reduce della new left, il Prof. Harry Targ, darebbe la possibilità agli attivisti, interessati al diretto utilizzo della rappresentanza istituzionale, di essere ascoltati dall’amministrazione, dalla Clinton, una sorta di diritto di sedere al tavolo dei vincitori.

Personalmente trovo tale assunto fallace, gli interessi sono inconciliabili e difficilmente possono trovare un compromesso al tavolo con la Clinton, tanto meno vedersi riconoscere una parte nella vittoria. Le attenzioni della candidata democratica sono infatti più dirette all’elettorato moderato spaventato dall’imprevedibilità di Trump.

Sempre dallo stesso campo da cui proviene Harry Targ, i reduci della new left, gli intellettuali vicini a Sanders è emersa un’idea più convincente, ossia quella di supportare la Clinton per evitare il peggio con Trump, per poi riuscire mantenere la mobilitazione prodotta da Sanders e dalle elezioni per creare piattaforme di lotta contro la Clinton, in particolare con riguardo alla politica commerciale, sociale e l’interventismo militare.

Una posizione realista, che non si concede il lusso di sognare la concessione del diritto di entrare nella stanza dei bottoni, ma che è consapevole da una parte che i compromessi si raggiungono con la lotta, non nei salotti, ma nelle piazze e dall’altra che la maggiore sicurezza garantita dalla Clinton alle comunità latine, afroamericane, LGTBQ probabilmente verrà pagata con le vite di molti in medio oriente, con la guerra, con nuova instabilità. Questa posizione, sebbene pregevole, proviene da fonti che poco hanno a che fare con le forze sociali a cui si appellano, relegate a piccoli circoli radicali, solitamente composti da bianchi, più focalizzati sulla produzione di cultura, contro-informazione e strategie, con una ridotta presenza reale tra gli strati subalterni, emarginati e senza un’organizzazione incapace di produrre i risultati sperati. Gli stessi soggetti fautori della proposta sono quindi, secondo me, il maggiore ostacolo ad un progetto in sé pregevole.

In definitiva le strategie della particellare sinistra americana non hanno a mio parere reali prospettive nell’immediato futuro e l’appoggio alla Clinton si rivela più come una scelta dettata dall’assenza di reali alternative, date le risorse e la situazione presenti.

Alternativa e degna di interesse è invece la posizione del Movement for Black Lives, una rete di numerose organizzazioni decentrate che hanno nel coordinamento nazionale una cassa di risonanza e aggregatore di risorse per le rivendicazioni locali. Nonostante alcuni attivisti a titolo personale abbiano appoggiato la Clinton, il movimento non ha nessuna posizione ufficiale in merito, anche perché, se non a seguito di deliberazioni che coinvolgano l’intera base, i portavoce nazionale non possono parlare a nome di tutti gruppi aderenti al MBL. Viene attuata una separazione dei piani, quello elettorale, da quello della lotta, con la coscienza che la Clinton non sia un’alleata, specie presa in considerazione la nuova piattaforma politica del movimento. La mobilitazione e la lotta riguardano la società americana in toto, è permanente e non può relazionarsi con il momento elettorale, con le personalità dei candidati, offuscando la centralità delle rivendicazioni.

Il MBL è secondo me uno dei nuclei attorno cui si potrebbe costruire un’opposizione antimperialista, anticapitalista e di sinistra radicale di movimento. La piattaforma è semplice, chiara ed elastica da poter riunire attorno a sé numerosi gruppi anche se non afroamericani, ma per rendere possibile un simile risultato occorre anche l’apertura del MBL a nuove alleanze, alla condivisione di lotte. Ma questa più che una possibilità è una mia ipotesi personale, una speranza nata dal salto di qualità operato dalla natura della piattaforma di MBL, ma che trova alcuni limiti nella condivisibilità di lotte specificatamente legate alla condizione di afroamericano nella società americana, che rischierebbero di essere offuscate dal loro inserimento in un ambito più ampio di lotta che possa coinvolgere anche attivisti bianchi. Tale problematicità non toglie però il fatto che battaglie indipendenti dal supporto ad un candidato o una personalità, come quelle contro la gentrificazione o il salario minimo di 15$, conoscano oggi terreno fertile per poter continuare ad attecchire, mettendo sotto pressione le istituzioni da più parti, intersecandosi volontariamente o meno, senza compromettere le specificità degli obbiettivi perseguiti.

In conclusione la sinistra americana, è frammentata e spaesata, disperata, mossa dal timore di Trump, senza alternative si stringe attorno alla candidata dell’establishment. Tuttavia, non sia questo motivo di pessimismo, alle prossime elezioni difficilmente le ragioni che hanno portato alla mobilitazione degli strati popolari, l’entusiasmo per il progressismo di Sanders e anche all’elezione di un candidato non tradizionale come Trump, verranno meno. La politica neoliberista della Clinton difficilmente allevierà la pressione del debito di centinaia di migliaia di studenti e famiglie o sarà in grado di invertire l’incremento della povertà negli USA, la crescente disparità tra ricchi e poveri, la divergenza tra le condizioni economiche dei diversi gruppi etnici, la tendenza a delocalizzare.

Il bipartitismo è stato messo a dura prova quest’anno dai candidati non tradizionali, dal supporto più alto mai raggiunto da un candidato libertario, Johnson è correntemente dato al 12%, dall’esplosione delle violenze nelle maggiori strade americane. Se la situazione non verrà mutata al più presto, se le contraddizioni in cui la società americana sta precipitando non verranno affrontate al più presto, difficilmente il bipartitismo riuscirà a sopravvivere come lo conosciamo oggi, se non a costo di un ulteriore compressione degli spazi democratici, della partecipazione delle basi di partito a favore del decisionismo dei suoi vertici, a costo però di esasperare ulteriormente la situazione.

Non subito come sperano alcuni autori, ma col tempo, una nuova stagione di mobilitazione è cambiamento è destinata a pervenire, la società statunitense non può più continuare su questa strada.