Durban - Diario

3 / 12 / 2011

Un’aria torrida ci avvolge appena arrivati a Durban, Sudafrica. Nella città che ospita la COP17 sul clima, gli effetti delle mutazioni climatiche sono una realtà con cui convivere per i 3,5 milioni di abitanti ammassati nel principale centro petrolchimico africano.

In Sudafrica, il paese che ha dato i natali a Mandela, uno su due è povero ed uno su sei vive negli slum. Qui a Durban il dato è peggiore, se possibile. Uno su tre vive nei ghetti, dove la disperazione ha il colore nero e mostra la faccia di un paese ancora fermo al bivio tra democrazia ed apartheid.

Il polo petrolchimico non ha prodotto sviluppo, forse altrove. L’unica relazione tangibile sta nel fatto che molti container vengono rubati dal porto per farci delle baracche per i poveri. La segregazione economica è tangibile più che mai ed il caos climatico si abbatte impietoso nelle vite di chi non riesce a garantirsi un alloggio sicuro. La notte prima dell’inaugurazione del COP17 come una amara beffa si è abbattuta una tempesta tropicale che ha fatto 9 morti nello slum chiamato Kwamamsuthu.

Qui è normale, ci dicono. Si chiama razzismo ambientale l’ultima forma di apartheid. In Africa i poveri pagano due volte il prezzo della crisi: la prima perché non accedono ai servizi basici minimi e la seconda perché colpiti più di tutti dagli sconvolgimenti climatici. Alla conferenza sul clima è fortissima la denuncia degli attivisti, delle comunità, degli intellettuali e degli scienziati del continente dove ha avuto origine la vita.

Se in tutto il mondo la paura di essere dinanzi ad una crisi irreversibile comincia a farsi sentire a suon di disastri, in Africa le simulazioni sull’aumento medio della temperatura, qualora non ci fosse una inversione di rotta, indicano una situazione apocalittica: +8 gradi in questo secolo. Questo il tema al centro dell’assemblea delle donne contadine africane che si sono incontrate nell’università Kwazulu-natal, che ospita gli incontri delle delegazione della società civile di tutto il mondo. Le conseguenze catastrofiche in termini economici, alimentari, sociali, migratori, dovrebbero indurre al buon senso i delegati dei 190 governi presenti.

Del resto l’organizzazione metereologica dell’ONU – wmo, ha affermato come il 2011 ha chiuso la decade più calda dal 1850. Per ora, questo non sembra avvicinare le distanze tra i principali inquinatori ed il resto della comunità internazionale. Anzi, l’unico accordo in piedi, Kyoto, è a rischio. La scienza e la società civile insistono sulla necessità di azioni strategiche e non emergenziali. L’inerzia dei cambiamenti climatici produce un aumento della temperatura che non può essere fermata immediatamente. Per questo avremmo bisogno di azioni preventive. Tappare i buchi non serve più.

Giuseppe De Marzo, A Sud

su L'Unità del 1 dicembre 2011