Dopo la rivolta tunisina, s'infiamma l'Egitto. Al
grido di «Via Mubarak», «Pane, lavoro e salario minimo» in migliaia
scendono in piazza in tutto il paese. Almeno tre le vittime. Un
movimento ampio, oltre ogni previsione, pieno di donne. Il regime trema.
In fuga il figlio del presidente, destinato alla successione.
Brucia anche l'Egitto, sull'onda della rivolta
tunisina, come non accadeva dal 1967, quando l'inattesa e umiliante
sconfitta del Paese nella «Guerra dei Sei Giorni» fece scendere in
strada milioni di cittadini. Al grido di «Via Mubarak», «Pane, lavoro e
salario minimo», «Libertà e fine delle leggi d'emergenza», ieri
centinaia di migliaia di egiziani - un milione secondo fonti non
ufficiali - hanno invaso le strade del Cairo e di Alessandria, della
città operaia di Mahalla, Assiut, Port Said, e anche di el Arish e
Mahdia nel «prospero» Sinai e di città di solito «tranquille», come
Tanta. E hanno scelto di farlo proprio nel «Giorno della Polizia», una
delle ricorrenze più amate dal regime.
Nei centri periferici sono
state protagoniste le donne, soprattutto quelle più povere che ogni
giorno con pochi pound in tasca devono fare i salti mortali per
assicurare almeno un pasto alla loro famiglia. Hanno invaso le strade
spingendo figli e mariti a fare altrettanto, a non temere la reazione
della polizia. Un movimento ampio, oltre ogni previsione, che ha dato un
forte scossone al regime del presidente-faraone Hosni Mubarak,
incollato alla poltrona del potere da trent'anni e che intende
candidarsi per l'ennesimo mandato alle elezioni del prossimo autunno o
passare lo scettro al figlio Gamal, «economista» paladino delle
privatizzazioni e della riduzione dei sussidi statali ai più poveri.
Gamal ieri è partito con la famiglia per la Gran Bretagna spaventato
dall'ampiezza della rivolta.
Ma le manifestazioni egiziane hanno
messo in forte allarme anche i governi occidentali, protettori del
«moderato» Mubarak e incuranti delle violazioni dei diritti umani, delle
torture nelle carceri, dei diritti politici negati in Egitto. Lo rivela
l'intervento del Segretario di stato Usa Hillary Clinton che ha chiesto
a «tutte le parti» di mettere fine agli scontri. Washington teme di
perdere il suo principale alleato in Medioriente dopo aver già perduto
Ben Ali. Mubarak ha dalla sua parte l'esercito, a differenza del
dittatore tunisino costretto alla fuga, ma non è detto che il fermento
in atto nel paese non spinga i vertici militari a favorire soluzioni
diverse dal semplice passaggio del potere da Murabak padre a Mubarak
figlio del quale si parla da anni.
Ieri sera migliaia di egiziani
occupavano Piazza Tahrir, sede di diversi palazzi delle istituzioni,
decisi a resistere, con cibo e coperte, fino a quando non saranno
accolte le loro richieste, a partire dall'uscita di scena di Mubarak. A
nulla è servito il dispiegamento nella capitale e in altri centri di 30
mila agenti dei reparti antisommossa che le hanno tentate tutte - ma non
hanno sparato - per respingere la folla che, ad esempio, al Cairo
voleva bloccare l'ingresso dell'Assemblea del Popolo (è stato smentito
invece un tentativo di invasione del Museo Egizio). Idranti,
lacrimogeni, percosse, manganellate e calci non sono bastati a
respingere chi scandiva «Via Mubarak» e «Pane e lavoro». «Ho fame, mi
puoi arrestare, mi puoi anche uccidere, non mi importa, ma io ho fame»,
urlavano alcuni manifestanti. Oltre a decine di feriti e centinaia di
arresti, ieri ci sono stati almeno tre morti: due manifestanti a Suez,
uno dei quali ucciso da un proiettile di gomma, e un agente di polizia
caduto e calpestato dalla folla.
Il successo delle proteste popolari
ha sorpreso il raìs, il governo e anche l'opposizione che in parte si è
tenuta a distanza dalla strade. A questa storica giornata l'opposizione
è giunta divisa. Hanno avuto ragione il gruppo Kifaya e il movimento
del «6 aprile», entrambi espressione della società civile, che hanno
lavorato per giorni per organizzare, anche grazie a internet, le
proteste e non si sono fatti intimidire dalle minacce della polizia che
ha compiuto un centinaio di arresti preventivi nella notte tra lunedì e
martedì. I due gruppi hanno mobilitato i propri sostenitori ponendo
l'accento sulle politiche economiche del regime che stanno affamando un
numero crescente di egiziani. Recriminano in queste ore alcuni leader
dell'opposizione, come quelli del partito di sinistra Tagammu che
avevano chiesto ai propri militanti di rimanere a casa.
Ambigua, come
spesso accade, la posizione dei Fratelli musulmani, la più consistente
forza di opposizione, che non ha aderito alle manifestazioni
anti-Mubarak ma ha lasciato liberi i propri militanti di decidere. E ha
avuto torto anche il più noto degli oppositori di Mubarak, Mohammed
ElBaradei, che dopo aver rivolto un appello alla «cacciata» del
presidente, ha scelto di rimanere all'estero e di non rientrare. «Dopo i
brogli ai quali abbiamo assistito alle elezioni parlamentari egiziane e
la rivolta tunisina, chi si rifiuta di manifestare (contro il regime)
scrive una pagina nera nella nostra storia», ha avvertito Mohammed Abdel
Aziz di Kifaya.
Pesa come un macigno anche la decisione della
Chiesa copta di vietare ai cristiani di partecipare alle proteste
popolari. L'avvocato Neguib Gobriel, attivista dei diritti umani, ha
speigato che queste manifestazioni «non portano alcun beneficio» ai
copti. «Non viene richiesta l'abolizione di leggi che ci discriminano,
non verrà chiesta maggiore libertà per ristrutturare o costruire nuove
chiese. Le dimostrazioni di oggi non sono affare nostro», ha detto. Ma
forse a tenere i copti lontano dalle piazze è stato soprattutto il
favore con cui i cristiani d'Egitto guardano, nonostante tutto, al
regime, nel timore che la rivolta contro Mubarak apra la strada al
radicalismo religioso.
E ora brucia anche l'Egitto
26 / 1 / 2011
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