E se “il mondo nuovo” partisse dalle città d’America in fiamme?

1 / 6 / 2020

Mentre il mondo era in attesa di una fantomatica rivolta guidata dai fascio-complottisti (no, non parlerò della macchietta dei gilets arancioni!), solleticata anche delle relazioni degli 007 di diversi Paesi, a mettere realmente a soqquadro il “mondo nuovo” del post(?)-Covid ci stanno pensando i “neri d’America”.

Non è una rivolta qualsiasi, quella scatenatasi dopo l’assassinio di George Floyd a Minneapolis: ha il portato di un processo di emancipazione che dura da secoli, ma avviene in un tempo e in un contesto che fanno da detonatore di un gigantesco insieme di contraddizioni. Il sorriso beffardo dell’agente Derek Chauvin, la sua espressione scanzonata mentre toglie lentamente il respiro a George, quel ginocchio proteso in maniera quasi naturale sul corpo della vittima, come se quel gesto fosse un retaggio arcaico: in una sola immagine vengono a galla centinaia di volti, di nomi di persone uccise dal “razzismo di Stato”. Un razzismo che non si è mai fermato, che è sopravvissuto all’abolizione formale della schiavitù, al Voting Rights Act, a un presidente afro-americano. E l’immagine di Derek Chauvin sul corpo di George è talmente iconica da rappresentarne una sintesi quasi perfetta.

Il tempo, dicevamo. Negli Stati Uniti, forse più che altrove, la pandemia ha fatto emergere nel modo più tragico possibile le ineguaglianze di una società in cui anche la mobilità sociale – emblema dell’american dream – si è fermata bruscamente dopo la crisi del 2008. Il tasso di mortalità per Covid tra la popolazione nera e i tra i latinos sono stati di gran lunga superiori a quelli dei “bianchi”. A New York, per settimane epicentro della pandemia negli USA, il 62% dei morti a causa del coronavirus fa parte di questi due gruppi di popolazione. Nello specifico la mortalità tra i latinos è stata di 22 su 100 mila, tra i neri 20 sul 100 mila, tra i bianchi “solo” 10 su 100 mila[1].  È andata addirittura peggio in altri contesti: a Chicago, ad esempio, il 72% delle vittime è di origine afroamericana ed è stata la stessa sindaca Lori Lightfoot a rendere pubblici i dati già all’inizio di aprile.

Nonostante sia ancora impossibile tracciare un quadro statistico nazionale, in un Paese dove ancora i morti giornalieri sono vicini alle 4 cifre, è evidente che i dati riportati sopra siano lo specchio di un intreccio tra questione razziale e diseguaglianze sociale che negli Stati Uniti è andato aumentando via via che la retorica trumpiana dell’american first prendeva piade anche sul piano delle misure economiche interne. Il resto è noto a tutti: sistema sanitario inaccessibile per le fasce di popolazione a reddito basso, afro e latinoamericani sono stati quelli che più di tutti hanno continuato a svolgere lavori ad alto rischio di contagio durante la pandemia, esposizione a malattie e infezione che è generalmente il 50% più alta di quella dei bianchi, come confermato dall’ultimo rapporto del Centers for Disease Control and Prevention, principale organismo di controllo sulla sanità pubblica nel Paese.

Tutto questo per dire che le proteste che stanno scoppiando negli ultimi giorni sono mosse da qualcosa che va al di là della rabbia - sempre degna e legittima! - per l’assassinio di un cittadino nero da parte della polizia, l’ennesimo in un Paese dove la probabilità per un afroamericano di essere ucciso dalle forze dell’ordine è tripla rispetto a una persona “bianca”.

Ma c’è ancora qualcosa di diverso rispetto ad altre rivolte simili che abbiamo visto nel corso degli anni, da quella ormai epica di Los Angeles nel 1992 a quella di Ferguson, che ha visto la nascita del movimento Black Lives Matter. La partecipazione

attiva di giovani bianchi, di ispanici e, in alcune città, anche di nativi è un segno distintivo che mai avevamo visto in episodi precedenti. Un metissage esplosivo, soprattutto se si legge nel contesto della crisi economica e sociale che sta devastando il Paese, dove tassi di disoccupazione sono simili, se non superiori, a quelli generati dal crack del ’29.

Ed è forse questa la cosa che fa più paura all’establishment, Trump in primis. Il Presidente cerca un nemico su cui scaricare una situazione diventata esplosiva e prova a trovarlo negli antifascisti e nella sinistra radicale. Lo fa con uno dei suoi soliti tweet, in cui scrive che gli “antifa” sono da considerare un’organizzazione terroristica; ma stavolta la sua è più di una provocazione perché gli fa eco il procuratore generale William Barr, il quale ha annunciato che il dipartimento di Giustizia intende identificare e perseguire “gli organizzatori e gli istigatori” delle manifestazioni violente, collaborando con le 56 task force anti-terrorismo del Federal bureau of investigation (Fbi). Intanto la Casa Bianca, diventata da giorni uno dei principali obiettivi politici dei manifestanti, viene evacuata e il Tycoon e famiglia spostati nel bunker di sicurezza, una procedura che si applica solo in situazioni ritenute “ad alto rischio”.

Nel frattempo, dopo la Georgia, anche la California sabato scorso dichiara lo “stato d’emergenza” e in quasi 30 città è stato instaurato il coprifuoco. A Minneapolis sono oltre 13 mila i militari schierati, con licenza di uccidere, ma la situazione non è ancora sotto controllo; a Indianapolis un altro manifestante è stato ucciso nel corso delle proteste e si aggiunge alle persone uccise a Denver e Detroit. Gli arresti hanno superato i 2.300, di cui oltre un terzo a Los Angeles, la città dove le manifestazioni hanno assunto un carattere più massificato e la polizia ha più volte sparato sulla folla.

Ma la protesta non si ferma: è arrivata al sesto giorno e quasi ovunque la polizia chiede il soccorso della Guardia Nazionale perché non riesce a sedare gli scontri. Il fuoco continua a innalzarsi, le strade a essere bloccate, i grandi centri commerciali espropriati, il numero di città in rivolta a moltiplicarsi, ridefinendo ora dopo ora la geografia della rivolta. E chissà che vengano riscritte anche le mappe di una società più giusta, dentro e fuori dagli States.



[1] I dati sono stati forniti da Ibram X. Kendi, direttore dell’Antiracist Research and Policy Center dell’American University, in un articolo su The Atlantic e ripresi da Linkiesta nell’articolo “Afroamericani, latini, immigrati: in America il coronavirus non è uguale per tutti” (23 aprile 2020)