Economia politica della protesta algerina

Di Clara Capelli

19 / 3 / 2019

Da ormai un mese le manifestazioni in corso in Algeria hanno scosso lo status quo, obbligando l’entourage del presidente Bouteflika prima a promettere un mandato di un solo anno in caso di (scontata) rielezione e poi a ritirare la candidatura. Le proteste dell’ultima settimana, che fanno seguito all’annuncio dell’11 marzo di rimandare le elezioni presidenziali a data da destinarsi, hanno dato prova di una popolazione consapevole del vero significato di questa manovra “cosmetica”, volta a prendere tempo di fronte a una élite di potere incapace di riorganizzarsi al suo interno e trovare un nuovo volto pubblico. 

L’Algeria si trova ad affrontare una crisi profonda e articolata, sia del sistema di potere che l’ha controllata per anni, sia della sua struttura economica. In primo luogo, a essere messo in discussione è il cosiddetto pouvoir, una complessa rete di potere che fa capo in buona sostanza a esercito, servizi di intelligence e Sonatrach, l’azienda di Stato che gestisce gli idrocarburi. In questo quadro, il “clan Bouteflika” domina le sorti del paese da circa vent’anni, in giochi di rivalità e alleanze che gravitano appunto intorno alla figura del presidente, nonostante il suo critico stato di salute fisica. Questi giochi hanno retto per i primi anni Duemila, mentre il prezzo del petrolio consentiva di fatto politiche di spesa volte a placare i malumori della popolazione. 

Occorre considerare infatti che, sebbene di portata più contenuta e meno organizzata, la protesta non si è mai completamente placata in Algeria. Disoccupazione, alloggi, carovita sono tradizionalmente fra le cause di malcontento. Sebbene venga raramente ricordato, anche gli algerini scesero in strada tra il 2010 e l’inizio del 2011; anzi, tali proteste e scontri contro le forze di polizia si collocherebbero in continuità con un 2010 particolarmente teso, non a caso etichettato da alcuni come l’“anno delle mille e una rivolta”. La situazione si è ulteriormente acuita negli anni successivi, quando il calo del prezzo del petrolio avrebbe velocemente esaurito le riserve accumulate e gestite dal Fonds de régulation des recettes (Frr), costringendo i governanti algerini a una serie di impopolari misure restrittive (compreso l’aumento dell’Iva e delle accise sui carburanti) tra il 2016 e il 2017. 

L’economia algerina è infatti pressoché completamente dipendente dal settore degli idrocarburi, il quale rappresenta circa un terzo del Pil, oltre due terzi delle entrate fiscali e la quasi totalità delle esportazioni; l’andamento dei mercati internazionali di petrolio e gas determina di conseguenza le sorti del paese. Le difficoltà della finanza pubblica hanno quindi reso impossibile il tamponamento dei numerosi problemi strutturali dell’Algeria, che dipende dalle importazioni dall’estero per la maggior parte dei suoi consumi, anche alimentari, e presenta una forza lavoro molto giovane (nel 2018 il 54% aveva meno di 30 anni), spesso formalmente disoccupata o confinata nel settore informale. La frustrazione serpeggiante è montata sia fra le classi popolari sia fra la piccolo-media borghesia che ha profondamente risentito dell’inflazione e delle varie restrizioni alle importazioni imposte dalle autorità. 

Difatti, l’imminenza delle elezioni presidenziali ha spinto i governanti a fare marcia indietro rispetto alle politiche fiscali restrittive, ma le misure congiunturali non sono state sufficienti a prevenire le proteste di larga scala delle ultime settimane, rivolte contro la corruzione e il malgoverno del clan Bouteflika. Dall’altra parte, i conflitti di potere si sono progressivamente acuiti. Il clan Bouteflika – anche noto come clan di Nedroma, dal nome della cittadina vicino a Tlemcen di cui sono nativi alcuni suoi esponenti – si è spesso scontrato con diversi gangli del pouvoir, come l’esercito e il Département du renseignement e de la sécurité (Drs), che è stato oggetto negli ultimi anni di un processo di sostanziale smantellamento voluto soprattutto dal fratello del presidente, Said. Altrettanto complesse sono le relazioni con il settore privato, rappresentato in particolare dal Forum des chefs d’entreprises (Fce). Il clan Bouteflika ha stretto negli anni numerose alleanze con il settore privato, anche nel quadro di una serie di (deludenti) programmi volti alla diversificazione produttiva che contenessero i potentati tradizionali; tuttavia, come osserva l’esperto di Algeria Riccardo Fabiani, anche all’interno del settore privato esistono fazioni più o meno favorevoli o in opposizione a Bouteflika, secondo linee di frattura rese sempre più evidenti dalle recenti proteste. 

La debolezza economica dell’Algeria è da considerarsi innanzitutto un retaggio del suo passato coloniale, caratterizzato da un modello prevalentemente estrattivo e di tipo agricolo in cui le terre più fertili e redditizie erano controllate dai coloni francesi, così come peraltro le attività industriali. All’indomani delle guerra di liberazione (terminata con gli accordi di Evian del 1962), furono poste le basi per ciò che lo storico Gian Paolo Calchi Novati definì un modello di “capitalismo di stato” anziché di socialismo diretto, scrivendo inoltre a commento di questa esperienza: “[L]a rivoluzione non si realizzò come la guerra di liberazione aveva prospettato: la democrazia del potere fu incerta, astraendo dalla voce e molto di più dall’impegno delle masse; l’apparato amministrativo si burocratizzò invece di vivificarsi con un partito di militanti; l’arbitrio di una giustizia di parte arrivò a macchiarsi dell’infamia della tortura; le popolazioni contadine non furono sollevate dalla loro grande povertà, rinviando continuamente la riforma terriera per non aver osato attaccare direttamente la borghesia agraria araba; mancò sempre un piano generale abbastanza organico da costringere i centri di potere economico privati o stranieri a piegarsi alle esigenze della collettività” (1).

Si innestarono su questo quadro i fallimenti in politica industriale degli anni successivi, consolidando un modello di crescita basato sulle rendite degli idrocarburi che già negli anni Ottanta mostrò tutte le sue criticità. Com’è storia nota, quelli furono gli anni delle prime liberalizzazioni e privatizzazioni in Algeria, che cercarono di ovviare alla crisi del paese con le ricette economiche prescritte dalla teoria dominante, culminate con l’intervento del Fondo monetario internazionale tra il 1989 e il 1991. Nell’ottobre 1988, il paese fu attraversato da violente proteste, originatesi nel quartiere popolare della capitale di Bab el-Oued, con effetti a cascata che finirono per costringere l’allora presidente Bendjedid a intraprendere un percorso di riforme per il superamento del monopartitismo del Front de libération nationale. La situazione comunque precipitò alla fine del 1991 con l’inizio della guerra civile, in una lotta feroce tra le varie componenti del pouvoir e diverse formazioni di tipo islamista. 

La memoria della violenza della guerra di liberazione e della guerra civile è ancora ben viva fra la popolazione algerina, che non a caso ha ripetutamente insistito sulla natura pacifica (silmiyya) delle manifestazioni e sulla relazione sostanzialmente positiva con le forze dell’ordine. Al momento è estremamente complesso formulare pronostici sui futuri sviluppi del paese. È comunque certo che il clan Bouteflika non intenda fare una reale marcia indietro rispetto alle istanze dei manifestanti, lasciando sfogare la piazza mentre i vari potentati si contendono il ruolo dominante. Dall’altra parte, le ragioni delle proteste e i profili dei manifestanti - nonostante il comune denominatore della “rivolta dei giovani algerini” proposte da molti giornali – sono talmente variegati che è altrettanto difficoltoso pronunciarsi contenitori e proposte dell’opposizione, che appunto spaziano da considerevoli capitali privati, piccola-media borghesia alle classi popolari urbane e rurali. 

Se la determinazione dei manifestanti algerini è fuori discussione, più arduo è comprendere se e in che termini avverrà un effettivo ricambio di potere e, soprattutto, che tipo di modello socioeconomico si affermerebbe eventualmente. I casi di Marocco, Tunisia ed Egitto hanno molto da raccontare a riguardo. Questo, e non un generico spauracchio di “caos” agitato da diversi osservatori internazionali, dovrebbe essere la principale preoccupazione di chi si trova ora a seguire un paese che nonostante tutto tiene ancora molto all’eredità della lotta anticoloniale e ai principî di giustizia sociale tante volte rivendicati nel corso della sua storia.

(1) La Rivoluzione Algerina, Gian Paolo Calchi Novati, Edizioni Dall’Oglio, 1969.