Endgame Afghanistan, l'avanzata dei talebani e i negoziati di Doha

Alle porte dell'anniversario dell’11 settembre 2001 l’Afghanistan ripiomba nel caos; il ritiro Usa e il fallimento dello state-building.

10 / 8 / 2021

Vent’anni fa, alla vigilia del Settembre Nero delle democrazie occidentali, se una qualsiasi persona avesse chiesto cosa fosse, o dove fosse l’Afghanistan pochi, o probabilmente nessuno, avrebbe saputo indicarlo su una cartina geografica. I tremendi fatti dell'autunno 2001, con i clamorosi attentati compiuti a New York e Washington – nei luoghi simbolo del potere economico e militare, del capitalismo occidentale -, misero il mondo davanti ad un nuovo paradigma: quello del terrorismo islamico stragista, che fino ad allora aveva colpito lontano dagli occhi di tutti.

L’11 settembre 2001 andava in scena quello che per anni venne definito per antonomasia “l’attacco all’Occidente” e di conseguenza ai suoi valori. Un atto compiuto da un gruppo di persone che i commentatori e i politici si apprestarono a definire nemici dell’umanità ma che invece non erano altro che dei terroristi.

Alcune decine di persone addestrate a vario titolo nel sabotaggio, nella guerriglia e nel dirottamento in poche ore riuscirono in un'impresa mai vista, ossia colpire il cuore finanziario dell'Occidente, mettendo tutti in allerta su un possibile cambio di prospettiva, asimmetrica e decentrata, rispetto ai nemici della democrazia.

Di lì a poco, spente le fiamme e fatta la conta delle vittime, asciugate le lacrime e aizzate le folle, da Oltreoceano si cominciarono a fare i primi nomi dei colpevoli, dei mandanti e dei fiancheggiatori. Sugli schermi apparvero per la prima volta le mappe dell’Asia Centrale, e quindi l'Afghanistan. Ben presto tale luogo, crocevia di popoli e di culture fin dall’alba dell’umanità, custode di antichissime tradizioni e forse rifugio di alcune delle ultime popolazioni nomadi della storia, divenne il focus di una campagna politica militare di vendetta incondizionata.

Qualche settimana dopo l’11 settembre in un celebre discorso G.W. Bush, in qualità di Presidente degli Stati Uniti d’America definì una serie di Paesi, tra cui l’Afghanistan, facenti parte dell’Asse del Male. Si presupponeva così la presenza di una serie di Paesi e realtà politiche definite, invece, portatrici del Bene. E così, in un attimo, il Male, ovvero chi dava rifugio al terrorismo islamico e alle sue componenti “internazionaliste”, come Al-Qaida, venne pesantemente attaccato e bombardato dalla Coalizione del Bene.

La sconfitta dei Talebani può definirsi repentina e relativamente poco dispendiosa dal punto di vista dei costi umani e politici da parte della Coalizione, anche perché, sull’onda della grande ferita subita dall’Occidente nel crollo delle Torri Gemelle, nessuno avrebbe mai avuto qualcosa da obiettare sul peso e sul numero delle bombe lanciate contro i mandanti dell’attacco al “nostro” cuore economico. Si apriva quella che per anni venne chiamata “la pagina di cronaca internazionale del domani”.

Se nel 2001 tutta l’opinione pubblica seguiva senza fiatare le decisioni militari delle cancellerie occidentali, a vent’anni di distanza alcune questioni è legittimo porsele. L’obiettivo della distruzione del terrorismo islamico è ampiamente fallito, non solo perché i Talebani hanno ampiamente vinto e stanno riconquistando quel terreno fisico perso nel 2001, ma oltretutto stanno ancor più ampiamente consolidando il potere politico nei territori dove sono stati in grado di rappresentare una minaccia politico-militare alla coalizione internazionale. Le madrassa non hanno mai smesso di sfornare generazioni di guerriglieri e nessun tentativo di costruzione di un qualcosa di politico-sociale è riuscito a contrastare questo processo.

L’attacco militare è sempre stato giustificato da un processo di nation-buiding e state-building che mirasse a superare le croniche ed evidenti fratture etnico-sociali che compongono la base della società afgana. La miope visione di coloro che hanno pensato di porre una soluzione al problema delle divisioni della società afgana non ha fatto che esacerbare le tensioni tra i vari gruppi etnici, tra i vari signori della guerra e tra le componenti della società afgana che più si rifacevano ad un sistema di autogoverno, lontano anni luce dalla prospettiva del confederalismo democratico, ma che garantiva loro il diritto alla vita, magari misera e di stenti, ma almeno autoregolata e autonormata come tipica delle società tradizionali.

La prova più lampante della sconfitta del processo imposto di state-building è la creazione di un sistema proto-mafioso in cui i rappresentanti delle istituzioni sono e sono stati addestrati, finanziati ed armati dalla Coalizione. Sono gli stessi che hanno sfruttato e sfruttano il loro potere per avere vantaggi personali, siano essi politici, economici e militari. Il fatto che molte delle cariche pubbliche e militari non siano in nessun modo elettive ma di nomina governativa, ha fatto sì che vari signori locali, signori della guerra oppure politici, che si dotavano di milizie armate per la loro protezione, siano divenuti nel tempo veri e propri boss locali, che poco facevano gli interessi del governo di Kabul e molto facevano dei loro.

Tale processo di costruzione tout-court di uno stato, della sua burocrazia e della sua capacità di difendersi è stato ampiamente corroborato da un'infinita campagna di bombardamenti, di uccisioni mirate e di arresti arbitrari da parte delle truppe della Coalizione che ha portato, inevitabilmente, ad aumentare la reticenza e l’odio verso il governo centrale e i suoi sostenitori esterni.

Raccontato così sembra che l'intervento dei paesi occidentali verso l’Afghanistan sia stato solo di supporto economico/finanziario per la creazione di un nuovo sistema politico che avrebbe saputo sorvolare sulle diversità di quel paese. In realtà, c'è un grossissimo ma, infatti, il tutto è stato accompagnato da una campagna militare di dimensioni inestimabili, con dei costi inestimabili e con dei costi umani altrettanto inestimabili.

Per venti e lunghi anni migliaia e migliaia di bombe sono state lanciate su tutto il territorio afgano per aiutare lo sviluppo; centinaia di basi sono state costruite in ogni dove per cercare si fermare l’avanzata dei Talebani e degli altri gruppi ribelli, ufficialmente sconfitti nel 2001.

Ma forse il costo più alto, come in qualsiasi conflitto di cui si provi a fare un’analisi sensata, è quello delle vite umane perse. Non serve dilungarsi sulle cifre, che sono manipolabili - e in un contesto come quello afgano totalmente non verificabili -, ma basti sapere che il prezzo più elevato lo pagano sempre le persone.

Tanto più, – come denunciato ieri sul tardo pomeriggio da Emergency – che anche i presidi sanitari sono oggetto di attacchi.

"Essere costretti a chiudere un Posto di primo soccorso in un momento come questo significa privare la popolazione locale delle cure di primo soccorso in un territorio da sempre sprovvisto di strutture sanitarie”, ha commentato Alberto Zanin, Medical coordinator del Centro chirurgico a Kabul, “ma in questo momento non abbiamo altre possibilità” e continua “Non siamo un bersaglio, ma i combattimenti danneggiano sia i civili che chi presta soccorsi. Chiediamo ancora una volta a tutte le parti di rispettare le strutture sanitarie e di garantire che non vengano messe in pericolo”.

Il focalizzarsi solo su alcuni argomenti, tanto come il dare una veloce e alquanto superficiale lettura del conflitto afgano, serve per darci alcune chiavi di lettura degli avvenimenti delle ultime settimane. La riemersione con grande violenza dei Talebani e di altri gruppi combattenti islamici ci insegna in prima istanza che la guerra dichiarata vinta oltre vent’anni fa è tutt’altro che finita. Con essa, sono evaporati tutti i tentativi di creazione di un’entità statale stabile, che sappia garantire la propria autosufficienza e la sua continuazione nella storia, perché troppo legata ai finanziamenti e al supporto materiale e militare di chi l’ha creata.

Con gli storici negoziati di Doha, l'Occidente si è convinto di aver chiuso la sua partita, dimenticandosi però quanti siano stati gli errori commessi. Abbandonare l’Afghanistan e la sua gente equivarrebbe ad una condanna: milioni di persone tornerebbero a vivere in una condizione di guerra permanente e totale che non vedrebbe fine.

Un antico proverbio afgano, coniato negli anni del Grande Gioco, a metà ‘800, dice: “Voi potete avere pure gli orologi. Noi abbiamo il tempo.” Con questo auspicio crediamo che anche l’Afghanistan avrà il suo tempo, di risorgere libero, senza interferenze e padrone del suo destino.

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Pic Credit: Esplosione a Kabul © Ap