EZLN, 25 anni di resistenza e ribellione

31 / 12 / 2018

Era l’alba del primo gennaio 1994, il Messico si apprestava a fare il suo ingresso nel primo mondo grazie all’entrata in vigore del NAFTA, il trattato di libero commercio del Nord America. In Chiapas, a San Cristóbal, Ocosingo, Comitán, Las Margaritas, Altamirano, Oxchuc, Chanal e Rancho Nuevo, gli abitanti ancora dormivano dopo i festeggiamenti per il nuovo anno, per le strade solo qualche borracho che ancora non aveva ritrovato la via di casa; la nebbia si alzava lenta quando piccole ombre apparvero dal nulla a occupare le strade di queste città. Erano migliaia ma nessuno capiva chi fossero: sui loro volti passamontagna e stretti in mano fucili rudimentali (spesso fatti solo di legno) e machete. Venivano dal passato, da quella notte lunga cinquecento anni fatta di conquista, sfruttamento, soprusi, violenza e venivano a reclamare il futuro. Erano gli indigeni tzotzil, tzeltal, zoque, tojolabal, chol, mame, gli ultimi, i dimenticati, gli sfruttati. Dissero di essere zapatisti e di coprirsi il volto per far vedere il cuore, di reclamare “terra e libertà” e di essersi sollevati in armi per gridare in faccia ai potenti “¡Ya basta!.

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Dal palazzo municipale occupato di San Cristóbal un’ombra meticcia, il SubComandante Insurgente Marcos, lesse quella che passò alla storia come la dichiarazione di guerra allo Stato messicano, la Prima Dichiarazione della Selva Lacandona: «Noi, uomini e donne, nel pieno delle nostre facoltà ed in libertà, siamo coscienti che la guerra che abbiamo dichiarato è l'ultima nostra risorsa, ma che è una guerra giusta. I dittatori stanno applicando una guerra genocida non dichiarata contro il nostro popolo da molti anni. Pertanto, chiediamo la vostra partecipazione, la vostra decisione di appoggiare questo piano del popolo messicano, che lotta per lavoro, terra, tetto, alimentazione, salute, educazione, indipendenza, libertà, democrazia, giustizia e pace. Dichiariamo che non smetteremo di combattere sino a quando i bisogni elementari del nostro popolo non saranno soddisfatti da un governo del nostro paese libero e democratico».

Il levantamiento in armi, il conflitto armato, durò 12 giorni perché in risposta alla durissima reazione dello Stato messicano si sollevò la società civile messicana e internazionale che scese nelle strade per chiedere a gran voce la fine delle ostilità e l’inizio del dialogo. L’EZLN accettò il dialogo e depose le armi costringendo così lo Stato messicano a fare altrettanto. La natura differente, unica e sorprendente di questo esercito di sognatori, appariva giorno dopo giorno più chiara: un esercito rivoluzionario che accettava il cessate il fuoco dopo soli dodici giorni di combattimento, che dichiarava di non voler prendere il potere, che aveva per comandante un sotto-comandante che obbediva alla sua gente. A mediare la fase dei negoziati fu il vescovo Samuel Ruiz Garcia, teologo della liberazione e figura rispettata dagli indigeni maya per l’impegno nella difesa dei diritti umani. Nel febbraio dell’anno successivo il nuovo presidente Zedillo, appena insediato, tradì i dialoghi pubblicando le presunte identità della Comandancia (la dirigenza zapatista) e riprendendo le operazioni militari che tra le altre cose portarono all’occupazione militare di Guadalupe Tepeyac, ex quartiere generale degli zapatisti. Solo pochi mesi dopo però il governo riaprì il dialogo per l’incapacità di schiacciare la resistenza indigena. 

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Si giunse quindi agli Accordi di San Andrés firmati nell’aprile del 1996 dall’EZLN ma poi disattesi e mai accettati dai governi. L’avvento degli zapatisti sulla scena politica mondiale fu folgorante per molti. In Italia ad esempio in quel periodo spopolava la prima Lega col suo discorso federalista e secessionista. Dal lontano Chiapas giungeva invece una voce che stonava con la deriva razzista condotta dalla Lega: gli zapatisti non parlavano di patria, tanto meno di secessione, ma di autonomia, autogoverno, diritti e rispetto dei territori. Fu una ventata di novità importante tanto che gli attivisti italiani crearono l’associazione “Ya basta!”: un ponte tra due mondi lontani, che pur parlando lingue diverse erano riusciti a capirsi e a confrontarsi. Nacque una relazione politica fondamentale per i movimenti italiani che portò, tra le altre cose alla co-costruzione di importanti progetti di sostegno alle comunità in lotta, come la famosa turbina per il villaggio de La Realidad o la commercializzazione del Café Rebelde Zapatista. Progetti che coinvolsero centinaia di persone, collettivi, associazioni e istituzioni e che aiutarono a far conoscere la realtà chiapaneca e la lotta zapatista di liberazione.

Gli anni successivi furono i più difficili per gli zapatisti perché il governo iniziò la strategia definita di contrainsurgencia con l’utilizzo non solo dell’esercito, ma anche dei cosiddetti gruppi paramilitari. Furono gli anni del massacro di Acteal e degli allontanamenti forzati degli indigeni, intimoriti dagli attacchi paramilitari, dalle comunità e dalla propria terra. Nel 2000 per la prima volta fu eletto un presidente non del PRI, il partito-stato al potere ininterrottamente da settant’anni. Era Vicente Fox del PAN, partito di destra, e subito allargò le braccia in segno di apertura verso gli zapatisti. 

Erano gli anni del popolo di Seattle, dei movimenti capaci di immaginare un mondo nuovo e gli zapatisti furono una delle avanguardie più suggestive di quest’epoca. Così nel marzo del 2001 uscirono dalla Selva con la Marcha del Color de la Tierra e arrivarono fino alla capitale Città del Messico accompagnati da migliaia di persone per chiedere il riconoscimento dei diritti indigeni. Tra di loro anche le Monos Blancos, le scimmie bianche, che in quelle settimane di viaggio piene ed emozionanti, diventarono loro stesse del color della terra da tanto mescolarsi con gli indigeni zapatisti. Fu una contaminazione entusiasmante, fondamentale per i giorni e i mesi che seguirono, quelli che portarono 300 mila persone a Genova a dichiarare guerra agli otto potenti della terra. Così recitava parte del comunicato con cui i movimenti italiani annunciarono le giornate genovesi: «Vi annunciamo formalmente che anche noi siamo scesi sul piede di guerra. Saremo a Genova e il nostro esercito di sognatori, di poveri e bambini, di indios del mondo, di donne e uomini, di gay, lesbiche, artisti e operai, di giovani e anziani, di bianchi, neri, gialli e rossi, disobbedirà alle vostre imposizioni. Noi siamo un esercito nato per sciogliersi, ma solo dopo avervi sconfitto. Oggi noi diciamo Ya Basta!». 

Tute bianche

La poetica utilizzata dagli zapatisti nei comunicati e nelle apparizioni pubbliche fu senz’altro un altro degli elementi dirompenti, che rompevano con il passato dei movimenti guerriglieri, capace di arrivare al cuore delle persone, di creare entusiasmo, di smuoverle. La marcia del color della terra arrivò in uno Zocalo gremito all’inverosimile e la Comandante Esther lesse al Congresso il messaggio con cui gli zapatisti chiesero ancora una volta l’emanazione di una legge indigena. Fu l’ultimo tentativo dell’EZLN di dialogare con le istituzioni. Qualche mese dopo arrivò l’ennesimo tradimento e tutti i partiti politici, compresi quelli di sinistra, rinnegarono ancora una volta gli Accordi di San Andrés votando a favore di una legge che continuava a garantire il saccheggio dei territori. L’EZLN si ritirò ancora una volta nel silenzio della Selva Lacandona e ne uscì solamente due anni dopo con l’annuncio della creazione dei Caracol: fu il passo decisivo verso la costruzione dell’autonomia. L’amministrazione civile dei territori ribelli e in resistenza passò dall’esercito alle Giunte del Buon Governo, organi composti dalle basi d’appoggio (i civili) che amministrano la vita nelle comunità in piena autonomia.

Con la Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona del 2005 e la Otra Campaña del 2006 l’EZLN ruppe definitivamente con la sinistra istituzionale messicana e col suo leader storico Andrés Manuel López Obrador, che accusò gli zapatisti di essere responsabili della sua sconfitta elettorale per aver ostacolato la sua candidatura. Sebbene isolati e non più di moda gli zapatisti continuarono il loro camminare domandando e la costruzione dell’autonomia e dell’autogoverno. In questi anni organizzarono importanti incontri intercontinentali a cui parteciparono migliaia di persone e imponenti manifestazioni come la marcia silenziosa dei 40 mila zapatisti per le strade di San Cristóbal. Più recentemente le esperienze delle escuelitas zapatistas e dei festival CompArte e ConCiencias hanno messo in luce i progressi nelle comunità in lotta e la capacità dell’EZLN di mettere in pratica la costruzione di un nuovo modello di società seguendo i principi del comandare obbedendo: servire e non servirsi, rappresentare e non soppiantare, costruire e non distruggere, obbedire e non comandare, proporre e non imporre, convincere e non vincere, scendere e non salire. I progressi nelle comunità sono ottenuti nonostante la continua pressione e repressione subita da parte del governo: la pace nei territori ribelli è ancora distante: in uno degli eventi più tragici, nel maggio 2014 un gruppo di paramilitari appartenenti alla Cioac Historica uccide brutalmente il maestro zapatista Galeano. Pochi giorni dopo, per decisione collettiva, il Subcomandante Marcos smette di esistere in quanto non più utile alla causa e rinasce come Subcomandante Galeano per sconfiggere simbolicamente la morte ingiusta del maestro.

Negli ultimi due anni si è ritornato a parlare di zapatismo per l’assurda scelta di candidare una donna indigena alla presidenza del Messico. Questa scelta portata avanti assieme al Congreso Nacional Indigena, lungi dall’essere un tradimento degli ideali rivoluzionari, è stata invece il tentativo di ricostruire dal basso una rete di organizzazioni, collettivi e singoli che lottano contro il neoliberismo, al di fuori della politica ufficiale: per gli zapatisti infatti, la vittoria elettorale del candidato progressista AMLO alle elezioni del 2018 è una vittoria effimera, perché il nuovo presidente non metterà fine al sistema capitalista, ma lo governerà da “sinistra” come tanti prima di lui hanno provato a fare nel continente latinoamericano. Cambia il maggiordomo ma non cambia il padrone, il neoliberismo.

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Oggi l’EZLN festeggia venticinque anni di sollevazione armata e lo fa proseguendo nel cammino intrapreso col CNI, costruendo quella rete di resistenze e ribellioni di cui c’è urgente bisogno per allargare le crepe nel muro del capitalismo in crisi. Proprio nei giorni precedenti all’anniversario Guadalupe Tepeyac è stata la sede dell’incontro delle reti di appoggio al Consiglio Indigeno di Governo, l’organo votato dalle varie comunità indigene messicane come portavoce delle istanze e delle lotte dell’intero movimento.

Oggi l’EZLN festeggia venticinque anni di sollevazione armata, di resistenza e ribellione, di autonomia, libertà e dignità; lo fa nonostante ciò che dicono i suoi detrattori e nonostante l’attacco sempre più subdolo e spietato del sistema capitalista, lo fa consapevole della propria forza e pronto ad affrontare il futuro. Pronto perché in questi venticinque anni ha costruito le fondamenta del proprio futuro attraverso l’autogoverno e l’autonomia, crescendo giovani ribelli che ora sono quadri dell’organizzazione e responsabili delle proprie comunità: i giovani zapatisti sono promotori di salute, di educazione, sono medios tercios (media-attivisti), si occupano in pratica di tutti gli aspetti della vita comunitaria, tramandandosi “saperi ribelli” e dignità. Questo e molto altro è la rivoluzione zapatista: una realtà composta da migliaia di persone, una grande comunità capace di organizzarsi, di lottare insieme, orizzontalmente, senza mai vendersi, senza mai arrendersi, senza mai claudicare. A quanti dicono che in fondo non hanno ancora ottenuto niente, che ancora e ancora sono lì a lottare per le undici domande basiche, rispondono le parole del Comandante Tacho: “­­­­¿Los zapatistas van a tardar? Si, pero van a llegar”. Perché chi ha sofferto 500 anni, si è preparato in clandestinità per 10 anni, e da 25 lotta alla luce del sole, ha resistito alla guerra di cinque presidenti e si appresta ad affrontare il sesto, non può temere il tempo: gli zapatisti sono ancora al loro posto e, c’è da giurarci, ci rimarranno ancora a lungo.

¡Zapata vive, la lucha sigue!

Foto di copertina: Antonio Turok, EZLN, 1994, Chiapas.