Leggi su Meltingpot.org tutti gli articoli della carovana di Overthefortress in Libano.
E’ una Beirut in stato di massima
allerta quella che si prepara al voto. Le grandi arterie di scorrimento sono
pattugliate da autoblindo e camionette militari: le piazze più significative
dei quartieri cristiani, musulmani e armeni - dove su ogni pilone sventolano
decine di bandiere dei partiti in corsa - sono sorvegliate da soldati con
giubbotti antiproiettili e armati di mitra.
I locali notturni sono stati chiusi, limitati gli orari di aperture di bar e
ristoranti ed è scattato il divieto di vendere bevande alcoliche. Davanti alle
scuole e ai seggi elettorali, il traffico è stato deviato e tutti i veicoli in
sosta rimossi per timore di attentati con autobombe. Vietata anche la
circolazione di mezzi pesanti. In poche ore la città che era una delle più
caotiche che avessi mai visto, è diventata "quasi" silenziosa. Anche
i tanti cantieri che sino a ieri risuonavano di betoniere e di martelli
pneumatici sino a notte tarda, tacciono. Tutte le attività edili sono state
precauzionalmente sospese per mantenere le strade libere in caso di disordini.
Cantieri chiusi, quindi. Eppure le persone che vi lavoravano sono ancora dentro. Nessuno di loro ha fatto ritorno a casa. Sono tutti siriani. Tutti fuggiti dalla guerra, tutti irregolari. Per uno di quei tanti accordi non scritti che in Libano contano come un decreto del primo Ministro, la polizia non entra mai nei cantieri. Quello che vi accade dentro non è affare dei tutori dell’ordine. «Qui sono al sicuro. Ma se qualcuno mi ferma fuori del cantiere e mi chiede un documento? Cosa gli do? - mi spiega un lavoratore -. E lei ha visto quanti soldati ci sono per strada? No, no. Meglio restare dentro», mi spiega Khaled.
Anche quando non c’è lo stato di massima allerta, capita assai di rado che un lavoratore edile esca dalla sua prigione, anche solo per un paio di ore. Comincia a lavorare all’alba, posa gli utensili quando il sole è calato da un pezzo. E la notte, dorme dentro il suo cantiere - prigione, in un giaciglio improvvisato tra le betoniere e le ruspe.
«Il padrone ci permette di usare la struttura che stiamo
costruendo come casa. E’ una prassi normale in Libano. D’estate va anche bene,
ma d’inverno c’è molto freddo. Anche perché possiamo sistemarci solo dove le
mura non sono finite, dove ci sono gli attrezzi, e tira sempre tanto vento. Non
certo negli appartamenti pronti per la vendita!».
Khaled è scappato della guerra per non essere reclutato dalle milizie di Assad.
Ha una trentina d’anni e prima lavorava come aiuto in uno studio dentistico. I
soldi che aveva portato con sé sono finiti subito. Racconta di essere stato
truffato da un libanese che gli aveva venduto un negozio di frutta e verdura ma
che, una volta preso il suo denaro, non gli dato nulla. «C’era la mia parola
contro la sua. E la mia non conta niente, qui». Così è andato a lavorare
nell’edilizia. «Qui sono tutti siriani come me. Una volta c’erano quelli del
Bangladesh ma i padroni preferiscono noi che siamo più ricattabili».
Se gli chiedo quanto guadagna Khaled si mette a ridere. «Mi lasciano dormire qui dentro dove sono sicuro che non viene la polizia. A mezzogiorno portano qualcosa da mangiare, per farci vivere. Oggi no però, perché i cantieri sono chiusi. Oggi non si mangia. Cosa vuoi che mi diano, in più, di soldi? Qualche volta dicono 200 dollari al mese, o 150. Poi te ne danno 100 o anche meno perché sostengono che hai lavorato poco. Capita anche che non ti diano niente e tu devi stare zitto e ringraziare. Fanno quello che vogliono».
Un altro siriano come Khaled vive nel cantiere in costruzione addirittura con tutta la sua famiglia: moglie e due bambini di 4 o 5 anni. Quando comincia a lavorare la moglie va via - che il padrone non la vuol vedere - e torna la sera per preparare i giacigli per lui e per i bimbi. Con la paura continua che un giorno non tornino più, perché sono stati arrestati per immigrazione clandestina. Quando arriva il pranzo, il padre mette via qualcosa anche per loro, senza farsi vedere dagli incaricati alla distribuzione del padrone che portano cibo solo per chi lavora. Non ha nessuna voglia di parlare con me e non ho il coraggio di insistere. Ha messo una ciotola fuori della recinzione del cantiere e ho visto una signora lasciargli un po’ di carità. L’elemosina nei confronti dei lavoratori edili è frequente a Beirut.
Avevo scritto, nell’ultimo reportage di #FragileMosaico,
della dura vita delle lavoratrici
domestiche in regime di Kafala. Ma per questi lavoratori la vita è ancora
più dura. Per loro, non c’è nessun futuro.
«Possono mandarci via quando vogliono. Di solito lo fanno se solo provi a
chiedere qualcosa in più o se ti lamenti, oppure se diventi vecchio e non ce la
fai più a seguire i ritmi del cantiere. Sei fuori anche se ti ammali o ti fai
male lavorando. Allora ti prendono per i piedi e ti trascinano in strada. Non
cambia niente per il padrone. Ci sono centinaia di siriani che, come me, sono
scappati dalla guerra e che non aspettano altro che di prendere il mio posto in
questa prigione».