Francia tra spettro nazionalista e fantasma astensionista

23 / 4 / 2017

La Francia non è l'America di Trump ma è governata con la stessa paura. I candidati alla presidenza rimasti nella corsa elettorale hanno permesso alla destra di amplificare la sua presenza e la sua cultura, oggi profondamente radicate territorialmente.

Il 23 aprile ci sarà un primo e fatale turno. Un secondo turno, decisivo, non permetterà aggiustamenti, ripensamenti, ricollocamenti, contrattazioni, mediazioni. Non siamo più nel XX secolo, non c'è più un Chirac e un Jean-Marie Le Pen, c'è la sua erede politica. E c'è una destra unica e compatta che va dal Front National di Marine Le Pen a Macron, un programma politico nazional-populista coabita con quello di un ghost-candidate, Fillon, e si muove nel vuoto politico del partito-start up di Emmanuel Macron, intervenuto a travestire la piena continuità delle politiche di classe del PS, defilato a margine della scena con la maschera in mano. Travestimento fatto per rimozione, il vuoto del non detto e dei sorrisi volenterosi con cui Macron può rinunciare alle ormai intollerabili menzogne socialiste perpetuandole in nuove forme silenziose.

Quella destra di socialisti contrariati, ormai a volto scoperto, sprofonda invece con il cadavere del governo Hollande, i cui spasmi ritornano nelle parole di Valls che profilano un eventuale compromesso con la destra parlamentare. La sinistra storica soccombe ai personalismi di un candidato "rosso", Mélenchon, con un programma protezionista e, su Europa, economia e lavoro "nazionali", simile a quello di Le Pen, nonostante il segnale dato da Hamon e dai suoi alleati verdi. Le idee di un programma che si dichiara d’aperta opposizione alla destra, ma che ha fondamentalmente dei tratti comuni, riguardano l'Europa delle frontiere e della guerra, la questione nucleare messa in sordina ma sfacciatamente presente nell'economia nazionale, la contrattazione (o no) del debito e il protezionismo economico, con l'ipotesi di un referendum per uscire economicamente dall’UE, riassumendo all'estremo il programma "républicain" del candidato del Front de gauche.

In queste ultime due settimane, i sondaggi, pubblicati dai media - acquisiti peraltro alla causa e interesse per Macron, figura che garantirebbe oltre alla continuità con le politiche del rigore economico, la stabilità di un centro-destra a fronte di una minaccia di estremismi a sinistra come a destra – focalizzano l’attenzione sull’avanzata del candidato “radicale” Mélenchon. Bisogna dire che a colpi di “popolo” e tricolore il tribuno “comunista” non solo sta risucchiando i voti nostalgici dei socialisti, ma è riuscito, tra meeting in ologramma e raduni messianici, ad accattivarsi anche le simpatie della destra radicale. Di quelli che non credono ad una possibile riforma delle politiche europee in generale e che rifiutano, in particolare, la forza lavoro “straniera”.

«Fare piazza pulita» resta uno slogan che accomuna i potenziali elettori del Front National e  della France insoumise.

Sebbene il protezionismo economico proposto si distanzi da quello del FN, per misure fiscali e penali in difesa di ambiente e lavoratori in senso lato (rispetto ai dispositivi razzializzanti  di Le Pen), è sul terreno dell’immigrazione che Mélenchon, ancor più di Hamon, non oppone alle misure radicali e xenofobe di Le Pen e Fillon che flebili ambiguità.  Sull’accoglienza, Hamon propone un’Europa delle quote giustamente ripartite senza andare oltre. Mentre Mélenchon,  riferendosi esplicitamente ai soli casi specifici di rifugiati climatici e politici e mettendo in causa l’immigrazione economica, non va oltre un discorso strategico sulle cause, proponendo un programma inconsistente sul piano operativo, che adotta il principio della transizione migratoria («permettere a ciascuno di vivere a casa propria») e si dichiara disponibile alla sola regolarizzazione di sans-papiers con contratto di lavoro. Ancora una volta diritti legati al lavoro in opposizione de facto all’apertura delle frontiere, che va distinta da una posizione da campagna di costruzione del consenso; si tratta dello sviluppo coerente di un progetto politico a tre teste: Nazione, Popolo, Sovranità.

Programma che a sinistra si oppone, e in queste ultime settimane ha superato nei sondaggi, a quello del candidato socialista Hamon. Ex-deputato socialista che si considera il Bernie Sanders francese, uscito dal governo Hollande, accusato da tutti i suoi concorrenti di essere utopista per la proposta del Reddito universale e di una radicale riconversione economica ecologista, quindi sabotato all'interno del suo stesso partito che, in assenza di prospettive politiche, si posiziona con Macron. Sabotaggio che si affianca ad uno spostamento di voti a sinistra che nelle ultime ore sembra rendere un suo ritiro persino sfavorevole alla corsa al ballottaggio di Mélenchon: la candidatura del vincente alle primarie PS potrebbe giocare da utile sbarramento a destra.

Macron dal canto suo ha in tasca i voti di Bayrou, pseudo-centro perennemente perdente, che gli si è accodato, prenderà anche i voti dei disillusi elettori di Fillon, per il quale la procedura giudiziaria che indaga sull'accaparramento illegale di fondi pubblici per finanziare anni di falsi impieghi dei suoi familiari, su truffe, false dichiarazioni, collusioni e corruzione, ha avuto l'effetto di collocarlo al di fuori del quadro riconosciuto come Repubblicano-Gaullista e di farlo spostare a fianco della destra radicale. In caso di confronto Macron-Le Pen, i voti dei fondamentalisti cattolici, attualmente a sostegno di Fillon-indagato slitteranno all'estrema destra. La corruzione e gli affari di Fillon, come di Le Pen, hanno letteralmente appestato la campagna elettorale e preso in ostaggio la presa di parola sui devastanti programmi politici  di entrambi, diventati figure “resistenti” alle calunnie e “vittime” della giustizia di antica ma pur sempre attuale memoria.

In realtà il dato che riassume meglio la situazione è quello della forte astensione che oscillerà tra il 35 e 40%. Gli astenuti non sono gli "indecisi", come vengono definiti dai candidati, ma sono la maggioranza dei cittadini francesi ( gli immigrati, oltre il 20% della popolazione, non hanno diritto di voto). A un anno dal movimento contro la legge El-Khomri, passata nell’“emergenza” per ricorso al voto di fiducia garantito dall’articolo 49.3, che ha liquidato autoritariamente mesi di opposizione al progetto di legge da parte del 70% della popolazione, l’astensione al voto non esprime indecisione. L’astensione parla piuttosto di forme e materialità di cui si costituisce, in larga misura, lo scollamento tra la politica rappresentativa francese, un diffuso cittadinismo repubblicano alla “Charlie”, e ciò che emerge dai movimenti degli ultimi mesi: tra le altre cose, il rifiuto delle misure liberiste di governance e di rilancio dell’economia, la necessità di rafforzare i salari minimi, l’abrogazione delle forme di controllo sociale esercitate attraverso i dispositivi di distribuzione del welfare.

Al contempo, l’organizzazione politica di base contro le violenze poliziesche e di stato, contro i controlli su base etnica e la militarizzazione dei quartieri periferici, si è intersecata, a tratti  conflittualmente, con la lotta alla repressione subita dal movimento contro la loi El-Khomri, e sta costituendo un altro nodo centrale al quale l’astensione o il rifiuto del voto danno voce. La situazione migratoria, gli sgomberi violenti del campo di Calais e degli accampamenti informali dell’Ile-de-France, la progressiva centralizzazione delle procedure di diritto d’asilo o permesso di soggiorno, la repressione giuridica e poliziesca dei percorsi di autorganizzazione e accoglienza, sono stati materia primordiale di dibattito e agitazione prima e durante la mobilitazione contro la riforma del lavoro.

Il recupero elettorale di alcune delle rivendicazioni emerse durante la primavera 2016 da parte dei candidati schierati a sinistra si sta dando in un quadro populista e repubblicano-nazionalista, come nel caso della candidatura di Mélenchon, e nel discorso scarsamente mediatizzato di Benoit Hamon, uno dei pochi candidati ad investire l’appello al de-finanziamento delle forze dell’ordine. Il dato è che la campagna elettorale non è stata attraversata da un dibattito politico articolato, all’altezza delle rotture emerse nell’ultimo anno e mezzo di mobilitazioni .

«Tutto può accadere» dicono in molti. Forse, ma certo è che chi non va a votare legittimamente - o semplicemente perché non ne ha il diritto come i milioni di immigrati, europei e non-europei, che  fanno parte della società francese- sa che la "preferenza nazionale" articolata come politica di discriminazione, di etnicizzazione e di guerra tra poveri peserà notevolmente sull'esito dell'elezione presidenziale che favorisce il Front National. Con gli arresti a Marsiglia per un presunto preparativo di attentato e l'attacco armato contro i poliziotti che controllano gli Champs Elysées, arteria dello shopping turistico e del lusso, il terrorismo internazionale e la guerra interna si sono prepotentemente invitati sulla scena elettorale. Una campagna elettorale blindata, con lo stato d'emergenza dal 2015 e l'esercito a presidiare le urne. Mentre  si denunciano le violenze poliziesche, i candidati della destra passano dallo schieramento indiscusso con le forze dell'ordine all'omaggio strumentale delle vittime del terrorismo,  diventate "martiri nazionali" a cui, ricordiamo, tutto è  promesso e permesso, l'impunità per prima cosa nei confronti degli stessi cittadini francesi e più ancora degli immigrati. La protezione dei cittadini come i valori dello stato di diritto funzionano ad intermittenza e spesso vengono dimenticati per poi riemergere sul terreno elettorale e nella retorica di chi nei fatti li mortifica ogni giorno.

Come si arriva a questo primo turno può sembrare il solito banale ricatto, eccetera, ma non lo è più. Chi è nato oppure ha attraversato la vita di questo paese da immigrato/a ne è pienamente cosciente, più di qualsiasi altro/a citoyen/ne francese: i papiers significano anche diritti, come non smettiamo di ricordare ogni giorno quando denunciamo l'État d'urgence, contro le violenze della Police e della République. È difficile assistere alla mutazione politica in corso senza provare ansia e rabbia insieme, sentimenti pericolosi quando determinano il bollettino di voto. Nel contempo, non è facile esprimere il disagio del sentirsi ostaggio di una corsa elettorale per la quale le persone che si conoscono o altre con le quali si ha un contatto per un qualsiasi occasionale o anche ordinario motivo, dichiarano di « rifiutare la mascarade delle elezioni » o di voler « bruciare pubblicamente la tessera elettorale », o di votare le idee di Mélenchon", oppure di votare per  Le Pen.

Ma esiste comunque una scelta possibile e auspicabile. Essere ingouvernables nelle piazze francesi del 2016 ha significato anche affermarsi come soggetto politico, non diventarlo per esclusione: l’affermazione di una generazione e di soggettività molteplici che esprimono nelle strade e nelle pratiche esteriorità rispetto alla messa in scena elettorale. A Parigi, in una delle manifestazioni della lunga primavera francese contro la loi travail si leggeva sulle muri « il n’y aura pas de présidentielle ». Un grido che più che guardare alla diserzione attiva delle urne ne constatava l’inutilità, relegando il passaggio elettorale a meccanismo di riproduzione dello stato di cose presenti, nello spazio di continuità che rende impossibile ogni rottura. Eppure quando ci si sente dire: « non siete espropriati/e di niente perché i cambiamenti non arrivano dalle urne elettorali », questa volta non ci sembra così vero.