Gaza 2020 - Breaking the Siege: un’azione politica senza precedenti per rompere 13 anni d’assedio

Intervista di Dario Fichera ad un attivista italiano appartenente alla delegazione internazionale.

19 / 1 / 2020

Ispirandosi al “Free Gaza Movement” (freegaza.org) che, portando a bordo anche il compianto Vittorio “Vik” Arrigoni, nel 2008 riuscì a rompere per cinque volte il blocco di Gaza via mare, inviando aiuti umanitari attraverso dozzine di imbarcazioni; nei giorni scorsi un gruppo internazionale di attivisti per i diritti umani, identificato con il nome di “Gaza 2020 - Breaking the Siege” (www.gaza2020breakingthesiege.org) ha organizzato due tentativi di rottura dell’assedio, stavolta via terra, tentando di entrare nel territorio palestinese tagliando la rete militare di sicurezza che si trova al confine est della Striscia, nei pressi di Kuzha’a, proprio dove Israele sta già costruendo una nuova barriera di cemento alta 6 metri.

La delegazione, che giovedì 9 e lunedì 13 gennaio scorsi ha effettuato le azioni dimostrative, era composta non solo da attivisti, ma anche da insegnanti, avvocati e politici come Anna Kontula, parlamentare e sociologa finlandese.

In entrambi i casi gli attivisti sono stati arrestati dalle forze militari israeliane anche se, come vedremo in seguito, con modalità ed accuse differenti.

Attestati di stima e dichiarazioni di solidarietà nei confronti degli attivisti sono giunti immediatamente dall’interno della “più grande prigione a cielo aperto al mondo”. In primis dal comitato organizzatore della Grande Marcia del Ritorno, la manifestazione pacifica d’iniziativa popolare che da marzo del 2018 si raduna ogni venerdì proprio a ridosso di quella barriera, provando ad attirare l’attenzione del mondo sul fatto che ci siano due milioni di civili indigeni palestinesi tenuti in ostaggio dalla forza occupante e colonizzatrice sionista, rinchiusi come in una punizione collettiva dentro un territorio invivibile di 360 km2 .

Come abbiamo più volte rimarcato anche attraverso le pagine di GlobalProject, il 2020 è una data epocale per Gaza: segna, infatti, il punto di non ritorno verso l’inabitabilità, secondo le proiezioni delle Nazioni Unite e delle ONG.

Nei 13 anni di blocco della Striscia di Gaza, la situazione umanitaria è precipitata, tanto che -come si legge nel manifesto del collettivo -  «non stiamo parlando del fatto che il tempo sta per scadere. Il tempo è già scaduto. Il popolo di Gaza non può vivere un altro anno in una terra avvelenata, sovrappopolata e desertificata».

Proprio per questo motivo la campagna di iniziative di “Gaza 2020 – Breaking the Siege” è iniziata nei primi giorni dell’anno.

Anche la scelta della data del 13 gennaio non è stata casuale. L’azione, infatti si è svolta in concomitanza del 16° anniversario della morte dell’attivista britannico dell’International Solidarity Movement Tom Hurndall, colpito alla testa da cecchini israeliani a Gaza.

Giovedì 9 gennaio i primi due attivisti hanno preparato il campo al gruppo più numeroso (altri 5) che avrebbe dovuto tagliare le reti il lunedì successivo.

Tra gli attivisti di giovedì c’era un italiano, che ha deciso di identificarsi con lo pseudonimo di Achille e che sono riuscito ad intervistare.

D: Ciao Achille. Qual è stato il trattamento che vi è stato riservato dalle autorità militari israeliane, quali le accuse e le conseguenze immediate della vostra azione?

A: Ciao Dario. Innanzitutto, è importante dire che la barriera di Gaza non è riconosciuta ufficialmente come confine internazionale, ma è semplicemente una barriera di sicurezza. Questo per me la dice lunga sull’analogia che molti stati-nazione, tra cui Israele, fanno con le mura separanti un carcere dalla società considerata civile. Esattamente come i cosiddetti “criminali” vengono percepiti come un pericolo per la stabilità del sistema imposto dagli stati, la popolazione gazawa viene vista, dalle forze di occupazione sionista, come un ostacolo alla raggiunta dell’obbiettivo ultimo delle sue politiche: ovvero l’annessione dei Territori Palestinesi e l’assoluta maggioranza etnica e demografica. Già da questa considerazione si riesce ad intuire come la questione palestinese, ed in particolare quella della striscia di Gaza, sia un problema strettamente politico, che nel tempo è divenuto anche umanitario.

Riguardo al trattamento da parte della polizia e dei militari è necessario fare una distinzione tra le due azioni, quella di giovedì e quella di lunedì. Nella prima siamo stati bloccati in prossimità della barriera stessa; il che ha comportato dapprima un intervento, piuttosto irruento, da parte dei militari presenti nella zona adiacente la barriera, seguito da una deportazione nella stazione di polizia più vicina. Lì siamo stati detenuti dapprima per 5-6 ore e poi ufficialmente arrestati con l’accusa di “cospirazione contro lo stato di Israele e danneggiamento di proprietà militari”, venendo ammanettati a mani e piedi. Dopo altre circa 4 ore di interrogatorio siamo stati rilasciati. Tuttavia, le autorità di occupazione si sono riservate il diritto, risultato poi infondato, di tenersi i nostri effetti personali, passaporti compresi. Oltretutto, nessun documento probatorio ci è stato rilasciato. Stiamo ancora lottando a livello legale per riaverli: il risultato è che io sto tuttora girando “clandestinamente” per il paese.

Lunedì è andata diversamente, in quanto il convoglio è stato fermato prima che potesse giungere nei pressi della barriera, con tutti gli strumenti necessari per l’azione (i.e. tenaglie ed accessori vari). Non essendo in territorio militare l’accusa e le modalità sono state differenti: la polizia si è direttamente occupata del caso, e dopo una decina di ore di detenzione motivate dall’accusa di volere entrare illegalmente su territorio straniero, il gruppo è stato rilasciato.

In entrambi i casi, la libertà è stata condizionata con l’impossibilità di accedere alla parte meridionale dei territori occupati nel 48.

Nonostante sia stata la polizia ad occuparsi direttamente dei casi, le indagini sono state guidate dallo Shabak (i.e. i servizi segreti dedicati all’anti-terrorismo); il che ad esempio, complica ulteriormente le pratiche per il rilascio degli effetti personali.

D: Cosa rende quest’iniziativa di solidarietà differente dalle altre e quale contenuto politico la connota?

A: A differenza di altri tipi di iniziative riguardanti Gaza, l’intento è prima di tutto politico.

È evidente che la condizione umanitaria nella quale si trova la popolazione della Striscia sia il risultato del connubio tra le politiche adottate dallo stato oppressore e dalla comunità internazionale. Le
prime, dopo aver evacuato Gaza a seguito della seconda intifada, hanno finalmente potuto iniziare un embargo totale sulla sua economia senza correre il rischio di coinvolgere eventuali coloni sionisti.
Restrizioni su acqua, elettricità, beni primari, medicinali e razionamento del cibo basato su un calcolo di calorie pro-capite, sono le conseguenze dirette dell’embargo, alle quali si aggiungono gli
effetti indiretti dell’occupazione. Nonostante questa condizione sia stata più volte portata all’attenzione delle Nazioni Unite, la risposta è sempre stata superficiale, di facciata, come spesso succede quando la comunità internazionale viene interpellata. Questo avviene, a mio parere,
perché la lettura che viene data al problema è quella di una “crisi umanitaria”, ignorando volutamente le cause di questa crisi, che sono prettamente politiche ed economiche. Siamo di fronte ad
uno stato colonizzatore che sta cercando di portare a termine delle pratiche di pulizia etnica all’interno dei territori che pretende gli spettino di diritto.

Se in Cisgiordania, nei territori occupati nel 1948 ed a Gerusalemme Est queste pratiche si basano principalmente su dinamiche di apartheid, nella striscia di Gaza la scelta è stata quella di isolare il
popolo palestinese e ridurlo deliberatamente in condizioni di vita insostenibili.
È per questo che a lato dell’aiuto umanitario, che pur resta necessario per garantire la sopravvivenza, la lotta per portare alla luce il problema politico legato all’assedio della Striscia di Gaza è fondamentale e deve tornare ad essere un punto fondamentale nell’agenda dell’attivismo filo-Palestinese.

Oltrepassare la barriera di filo spinato che separa Gaza dal resto del mondo diventa dunque, per quanto un gesto simbolico, portatore di un contenuto politico rilevante.

D: Avete intenzione di ripetere le azioni?

A: Assolutamente sì. Abbiamo voluto lanciare un messaggio agli attivisti internazionali, che spesso vedono la lotta contro l’assedio di Gaza come un rischio troppo elevato.

La verità è che rompere l’assedio è possibile, ed è un obbligo morale provarci.

Queste pratiche hanno anche l’intento di mettere in imbarazzo gli stati da cui proveniamo ed obbligarli a prendere una posizione nei confronti dello “stato di Israele” qualora i propri cittadini siano detenuti e privati dei loro diritti, come ad esempio sta succedendo a me in questo periodo in cui cono stato privato del passaporto.

È innegabile che i primi tentativi siano stati bloccati in maniera efficace dalle forze di occupazione; tuttavia abbiamo imparato molto sulle loro forze, sulle nostre risorse ma anche e soprattutto sui loro limiti e sulle loro paure. Ci riproveremo, indubbiamente. Ma per arrivare all’esito desiderato è necessario che sempre più attivisti internazionali decidano di sposare il progetto e mettersi in prima linea. Per questo invito tutte e tutti a contattare il collettivo e discutere, per cercare nuove delegazioni pronte a mettersi in gioco per aprire la barriera inumana che stritola la Striscia.