Gli Stati Uniti non sono la "Nazione indispensabile" del mondo

5 / 4 / 2022

Un’intervista a Samuel Moyn, a cura di Scott Casleton e tratta da Jacobin, tradotta per globalproject da Claudia Gonzáles Lobo e Anna Viero. Il mondo ha bisogno di nuovi accordi di sicurezza per mantenere la pace. La "leadership" americana - il dominio globale ricercato dall'establishment della sicurezza nazionale statunitense - non sostituisce tali accordi.

L'invasione russa dell'Ucraina ha sconvolto l'equilibrio della politica estera occidentale. Coloro che speravano in una svolta verso una politica estera statunitense più "muscolare" l'hanno acclamata come un "punto di svolta" - confidando probabilmente in una maggior apertura degli Stati Uniti riguardo ai conflitti militari internazionali rispetto agli ultimi anni. Ma questo presuppone la contrarietà degli Stati Uniti a tali soluzioni militari.

Pochi studiosi hanno documentato la portata della dipendenza degli Stati Uniti dalle soluzioni militari in modo così ampio come Samuel Moyn, professore di giurisprudenza e storia alla Yale Law School. Il suo recente libro Humane: How the United States Abandoned Peace and Reinvented War (Farrar, Straus and Giroux, 2021) descrive in dettaglio lo scoppio e il perdurare delle "guerre eterne" dell'America, guerre che testimoniano la continua preferenza dei presidenti e dei legislatori statunitensi per le milizie come strumento primario di politica estera, piuttosto che le istituzioni multilaterali e la diplomazia.

Qui, Moyn affronta le prospettive e le sfide della costruzione di un ordine globale che ponga dei limiti piuttosto che permetere l'uso della forza da parte delle superpotenze militari. La sua conclusione è che, questo progetto verrà ostacolato a livello internazionale e perciò bisogna iniziare a lavorare a livello nazionale, promuovendo una politica di pace e diplomazia, piuttosto di un continuo aumento delle spese militari.

SC | In molti dei suoi recenti lavori, lei ha criticato "la militarizzazione della geopolitica contemporanea da parte dell'America". Cosa risponde all'argomentazione che ci sia una certa giustificazione nel mantenimento della supremazia militare degli Stati Uniti, dato che altri Paesi, come la Russia, non esitano a usare la forza militare per raggiungere obiettivi di politica estera? È una critica valida?

SM | No. Il mondo ha bisogno di una struttura di sicurezza collettiva, mentre quella attuale lascia molto a desiderare. E, a parte armare gli ucraini, gli Stati Uniti non stanno usando la forza militare di fronte al più evidente atto di aggressione nella storia recente. Inoltre, la mancanza di restrizioni presente nei nostri accordi consente agli Stati Uniti - proprio come alla Russia - di farla franca con un sacco di atti aggressivi ed empi semplicemente grazie al loro dominio militare e geopolitico.

La litania è lunga, e va oltre le guerre portate avanti per scopi personali. Eppure rimane il fatto che, nel discorso mainstream, l'azione degli Stati Uniti che ha sempre peggiorato le cose sia accettata come "normale", mentre l'inazione come anormale e, per molti, imperdonabile. Non sono stati solo gli interventi in Afghanistan e in Iraq, ma più in generale la "guerra al terrore", ad aver chiaramente esacerbato i mali che intendevano contrastare o evitare. Sono cresciuto con le condanne dello "stare a guardare", e in qualsiasi crisi internazionale in cui i presidenti fanno la scelta di non intervenire direttamente - la Siria sotto Barack Obama o l'Ucraina sotto Biden - ci sono richieste d'interventi più forti, allusioni alla passività dell'epoca dell'Olocausto e ammonimenti sul fatto che la credibilità americana in un mondo pericoloso rischia di venir meno se non verranno lanciate più bombe. Accanto a questo militarismo di default, infine, il paese supervisiona anche un commercio globale di armi e arma e finanzia le guerre per procura. 

Nessuna di queste critiche è nuova. La questione principale è se vadano a giustificare la ricerca creativa della costruzione di un'alternativa alla supremazia armata - con i suoi enormi costi connessi anche per l'America stessa e di cui il paese gode dagli anni Quaranta. In qualsiasi modo consideriamo questa domanda, per il momento, non è tutto o niente, anche perché la militarizzazione del mondo da parte degli Stati Uniti è costosa e vasta, per non parlare del fatto che la spesa continua ad aumentare quotidianamente.

Ridurre l'interventismo americano è un esperimento da provare, anche mentre vengono portati avanti tentativi di immaginare accordi di sicurezza alternativi. E comunque si giungerà a un mondo multipolare a prescindere dalle politiche americane. Si potrebbe anche essere lungimiranti e approfittarne per cercare un'alternativa all'unipolarismo che sia positiva per il mondo. 

SC |  L'opinione standard della sinistra è che un passaggio ad accordi di sicurezza alternativi dovrebbe comportare, tra le altre cose, il superamento della NATO. Ma non rafforzerebbe la giustificazione dell'alleanza se gli Stati Uniti dovessero recedere dal loro ruolo di super-poliziotto macho?

SM | Non credo che un'istituzione della guerra fredda sia necessaria in un mondo post guerra fredda. Il suo ruolo negli ultimi decenni non è stato utile, con una zona di sicurezza nordatlantica mascherata da causa per la libertà. Questo non significa che il contenimento della supremazia americana proibisca alleanze complesse, comprese quelle regionali. Penso anche che dobbiamo ritornare a concetti quali lo sviluppo di nuove forme di cittadinanza e il trasferimento della democrazia al di sopra degli stati, in modo che l'ordine globale non sia basato sulla libertà degli stati potenti di condurre guerre e la libertà degli interessi commerciali di spostare capitali.

SC | Nel suo lavoro lei insiste sulla necessità di astenersi dal cosiddetto intervento umanitario. Le sue principali obiezioni sono che tale intervento (a) rischia conseguenze non volute e (b) fornisce un pretesto ad altri stati per intervenire. C'è qualcosa di più di questo? Cosa dice ai falchi liberali che indicano i due interventi della NATO nei Balcani negli anni '90 come esempi d'interventi umanitari di successo?

SM | Non c'è altro. Il fatto che ogni intervento umanitario abbia peggiorato il mondo mentre forniva pretesti d'intervento per noi e per altri attori è sufficiente per condannare questa metodologia – e la protezione degli Yezidi dopo il massacro di Sinjar nel 2014 ne è forse il più grave contro-esempio. La citazione del Kosovo da parte di [Vladimir] Putin nella sua sfuriata dell'altra settimana ci ricorda sia come i nostri stati abbiano messo da parte il diritto internazionale quando questo interferiva con gli imperativi morali, sia che così facendo permettano ad altri attori di giustificare la loro aggressione.

In generale, come ha sottolineato Rajan Menon, gli interventi degli anni '90 appaiono meno come trofei da esibire rispetto all'epoca - non solo perché hanno avuto torbidi effetti a lungo termine in Europa sudorientale, ma soprattutto per l’uso e l’abuso che se n’è fatto in seguito a nostri interventi in Iraq e Libia, e a quelli di Putin nel corso degli anni successivi. In ogni caso, le circostanze per gli interventi nell'Europa sudorientale erano evanescenti, e non potrebbero ripetersi ora, dato ciò che Putin pensa di aver imparato dal contesto un tempo permissivo nei confronti dell'azione militare occidentale nella regione.

SC | Nel suo libro “Humane”, lei non prende una posizione così netta sui due interventi della NATO nei Balcani che hanno avuto luogo negli anni Novanta. Lei dice che lo smart power ha funzionato per sostenere la politica estera dell’amministrazione Clinton nel 1995 e che ha funzionato anche in Kosovo nel 1998-99.

SM | Si tratta dell’eccezione che conferma la regola. Il problema è che solitamente i casi di forza militare progressiva sono così rari da non verificarsi mai. Ma l’eccezione ipotetica al fatto che l’intervento umanitario sia complessivamente dannoso – sia a breve che a lungo termine – finisce sempre per non rispecchiare mai la realtà, o solamente in modo discutibile. Sembra che scatenare la forza con conseguenze imprevedibili si basi sulla prova che questo renderebbe le cose migliori e non peggiori – ma è proprio su questo errore che l’esperienza sembra non aver insegnato nulla a nessuno. Tutto ciò che l’intervento umanitario ci insegna è che si tratta di azione contrapposta all’inazione, ma è solo un altro tipo di “soluzionismo” popolare che ignora il fatto che i problemi siano difficili e che ci sono altre opzioni possibili tra il bombardare dall’alto (la forma che hanno assunto tutti gli interventi “umanitari” dal 1989) e il non fare nulla.

SC | Quali tipi di cambiamenti sistemici prevede al di là delle richieste di riforma del Consiglio di Sicurezza dell'ONU?

SM | Se la nostra preoccupazione è l'intervento umanitario, i principali esempi di "successo" nella storia sono gli interventi sud-sud, come quelli dell'India in Pakistan e del Vietnam in Cambogia negli anni '60 e '70. In assenza di una riforma delle Nazioni Unite è sicuramente il caso di sperimentare coalizioni di stati più deboli, che sono proprio quelli che hanno più subito l’idea che si potesse porre fine alla sofferenza umanitaria attraverso azioni militari. La dottrina della "responsabilità di proteggere" si è generalizzata, eppure ha finito per servire solo le agende delle grandi potenze nel famigerato intervento libico del 2011, quando Francia e Stati Uniti hanno abusato del permesso che era stato loro dato di proteggere i vulnerabili e hanno operato un cambio di regime, riportando indefinitamente indietro la regione e portando a una militarizzazione per procura molto peggiore.

Al di là del tema ristretto e ossessivo degli interventi umanitari (che descrive solo un minuscolo numero d'interventi occidentali), possiamo leggere gli emendamenti di Kampala allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale che proibiscono l'aggressione militare, così come le richieste di dare all'Assemblea Generale il potere di istituire tribunali speciali sulle aggressioni, contenuta nel progetto di riforma del Consiglio di Sicurezza. Penso che l'obiettivo principale di un futuro movimento - a differenza di quelli recenti - dovrebbe essere la democratizzazione di chi può condannare le grandi potenze, in modo che un'organizzazione internazionale che emerga da una pace tra grandi potenze non condanni il mondo a un sistema di egemonie regionali o, peggio, a un impero globale deterritorializzato. L'America ha avuto l’egemonia in un periodo determinato e il suo potere ha assunto una forma diversa da quelle precedenti, ma una cosa è certa: non è l'ultima grande potenza.

SC | Cosa dice a coloro che criticano un sistema internazionale a maggioranza sostenendo che permetterà alle nazioni non democratiche di formare maggioranze per condannare i paesi democratici?

SM | Ad oggi le democrazie formali hanno abbastanza potere - anche se minacciate di essere messe in minoranza in alcuni forum - per influenzare il risultato che non dovremmo temere di democratizzare i nostri accordi globali. Chiaramente la democrazia al di sopra dello stato è una farsa nella misura in cui gli stati vengano poi considerati dei buoni rappresentanti dei loro popoli in questi forum. Tuttavia, il Sud globale, per tutti i suoi fallimenti interni di governance (sui quali non ha il monopolio), ha agito in modi altamente progressivi dalla decolonizzazione, per esempio respingendo la governance economica neo liberale e la guerra delle grandi potenze. Allo stesso tempo, assegnare loro più potere, per esempio rafforzando l'Assemblea Generale, deve chiaramente andare di pari passo con un progetto parallelo per creare forum più democratici che non presumano che qualche élite statale rappresenti gli interessi globali.

SC | Un tema importante del suo lavoro è la continuità dell’interventismo americano in politica estera attraverso le presidenze, sia repubblicane che democratiche. Questo record di continuità è imbarazzante per i liberali. Ma sminuisce le differenze significative tra le amministrazioni democratiche e repubblicane?

SM | Non proprio. Dagli anni '40, la sicurezza americana nelle sue varie forme è stata per lo più un affare bipartisan, come il commercio di armi e il finanziamento militare. Sono stati i democratici a intensificare la guerra fredda, la guerra del Vietnam e la guerra al terrorismo. Donald Trump può aver cambiato l'equazione, ma uno dei lasciti più affascinanti di quell'epoca è come i repubblicani più potenti, compresi i neoconservatori, fossero scioccati da Trump tanto quanto o più dei progressisti. Un'ampia coalizione di centro sinistra e centro destra ha agito come al solito in difesa del militarismo statunitense sostenendo alcune mosse di Trump (ad esempio il ritiro delle truppe) nel contesto di una presidenza enormemente militarista.

Allo stesso modo, uno degli sviluppi più interessanti è stato che alcuni liberal, nel momento in cui è stato lo stesso Trump a ereditarla, hanno messo gli occhi sulla bilancia dei pagamenti che loro stessi avevano contribuito a creare nel corso dei decenni. Al culmine del primo impeachment di Trump, con i partiti ai ferri corti, è stato sospeso il rituale annuale bipartisan dell'approvazione del National Defense Authorization Act – la legge di autorizzazione della difesa nazionale, nel momento in cui il suo ammontare era senza precedenti. C'è bisogno di aggiungere altro?

SC | Cosa spiega l'incapacità delle amministrazioni liberali di agire in modo sensibilmente diverso? È il fatto che alla fine devono vincere le elezioni in un paese con una popolazione relativamente conservatrice? È questo fatto combinato con l'ulteriore fatto che semplicemente non c'è un movimento popolare significativo che cerchi di cambiare l'opinione pubblica?

SM | In parte, ma è importante non sottovalutare la legittimazione elettorale che gli ultimi tre candidati presidenziali di successo hanno ottenuto opponendosi deliberatamente alla guerra. Barack Obama ha battuto Hillary Clinton in parte su questa base; scioccamente all'epoca, Trump si è scontrato contro i repubblicani su questo (e poi ha battuto di nuovo la Clinton); e Joe Biden si è battuto contro l’idea della "guerra eterna". A mio parere, le forze a favore della guerra non sono popolari, ma sono potenti. Eppure, fino a poco tempo fa, non godevano di molto interesse per loro, al di fuori dei circoli di estrema sinistra e destra. Il timore è che l'intervento di Putin ritardi questo confronto di qualche altro decennio.

SC | Quali, o chi, sono le forze potenti che si celano dietro il perpetuarsi della guerra? Che ruolo giocano gli avvocati, gli "umanizzatori" che lei critica per applicare la legge della guerra piuttosto che cercare di fermarla? Che ruolo hanno gli attori non governativi?

SM | Non credo che gli “umanizzatori” giochino un ruolo decisivo – a parte qualcuno che potrebbe esserci sfuggito - perché a parità di condizioni il loro è un buon progetto con costi inattesi. Come in un romanzo, a volte vale la pena esaminare qualcosa di apparentemente periferico perché "la porta massiccia di una volta si basa su un piccolo portante fatto di gioielli". Ma proprio come c'è stata una recente legittimazione elettorale nel disincentivare la guerra, c'è una legittimazione compensativa anche nel sostenerla: Obama, per esempio, ha capito che gli elettori lo avrebbero punito se fosse stato visto come troppo critico nei confronti dell’interventismo americano.

Il finanziamento dell’esercito ha anche delle funzioni keynesiane e assistenziali. Queste funzioni sono eccezionali, in un'epoca neoliberale, nel finanziare un settore corporativo e fornire benefici ai "volontari". E, naturalmente, c'è una rete di lobby e di approvvigionamento, oltre al fattore altrettanto importante delle consulenze della Beltway che perpetua le sue ortodossie e ideologie di militarismo che si presentano con i nomi di neoconservatori nel centro-destra e dell’internazionalismo liberale nel centro-sinistra. La spinta a umanizzare la guerra impallidisce in confronto a queste altre spinte. D'altra parte, quando Obama ha tenuto il suo discorso per il premio Nobel per la pace nel 2009 e il suo discorso sulla governance delle uccisioni mirate nel 2013, non ha sottolineato nessuno di questi aspetti, perché non fanno sembrare buono il militarismo americano. Al contrario ha sottolineato la cura per le comunità vittime delle nostre guerre.

SC | Lei distingue tra due mali della guerra: la violenza fisica e la violenza non fisica. Entrambi possono costituire una dominazione, nei suoi termini. Cos'è esattamente la dominazione, e cosa la rende sbagliata?

SM | Direi che la violenza fisica è la forma più palese di dominazione, che è meglio definita in termini di relazioni gerarchiche di potere di alcune persone su altre per determinare il corso delle loro vite in e attraverso relazioni strumentali di agenti e soggetti. Ridurre la crudeltà, specialmente quella fisica, può ridurre tale dominazione in modi ovvi. Ma può anche reinventarla o addirittura peggiorarla.

Dopo George Floyd c'è stato un dibattito sull'opportunità di umanizzare o ridurre le forze di polizia. È del tutto comprensibile concentrarsi sugli aspetti più macabri e visibili delle relazioni umane, specialmente perché a volte può portare a riforme che critiche più strutturali non fanno altrettanto facilmente. Ma a livello locale o globale, l’errore principale sembrerebbe essere la dominazione di alcuni popoli su altri, e ridurre la violenza intrinseca a questo rapporto rappresenta solo un aspetto del cambiamento.

** Pic Credit: La bandiera degli Stati Uniti viene issata a bordo della USS Mount Whitney della US Navy durante un'esercitazione militare guidata dalla NATO a Trondheim, Norvegia. (Jonathan Nackstrand / AFP via Getty Images)