Greenwashing di uno stato di polizia: la verità dietro la farsa della COP27 in Egitto

29 / 10 / 2022

L’Egitto di Al-Sisi sta sfoggiando pannelli solari e cannucce biodegradabili in vista del summit sul clima previsto per il prossimo mese. Ma in realtà il regime imprigiona attivist* e mette al bando la ricerca. Il movimento per il clima non deve stare al gioco. Originalmente pubblicato da The Guardian, traduzione di Miriam Viscusi e Fiorella Zenobio.

Nessuno sa che cosa sia successo alla sua lettera sul clima andata persa. Tutto quello che si sa è che Alaa Abd El-Fattah, uno dei prigionieri politici egiziani di più alto livello, l’ha scritta durante uno sciopero della fame nella sua cella al Cairo il mese scorso. La lettera, ha spiegato lui stesso poi, parlava “del cambiamento climatico a partire da quanto accaduto in Pakistan”. Abd El-Fattah era infatti preoccupato per le alluvioni che hanno sfollato 33 milioni di persone e per le implicazioni di tale cataclisma rispetto ai problemi climatici e alle misere risposte governative in arrivo.

Intellettuale e tecnico visionario, il nome di Abd El-Fattah – insieme all’hashtag #FreeAlaa – è diventato sinonimo della rivoluzione pro-democrazia del 2011 che trasformò piazza Tahrir al Cairo in un mare di giovani in rivolta e portò al capolinea il governo trentennale del dittatore Mubarak. Nell’ultimo decennio, Abd El-Fattah è stato quasi sempre dietro le sbarre, e può inviare e ricevere lettere una volta alla settimana. Quest’anno una raccolta di suoi scritti è stata pubblicata nel libro Non siete stati ancora sconfitti.

La sua famiglia e i suoi amici vivono per quelle lettere settimanali, soprattutto dal 2 aprile, quando Abd El-Fattah ha iniziato uno sciopero della fame, ingerendo inizialmente solo acqua e sale e poi 100 calorie al giorno (allorché il fabbisogno medio di una persona è di 2000 calorie). Il suo sciopero della fame è una protesta contro l’accusa di “diffondere notizie false”, presumibilmente perché ha condiviso un post sulla tortura inflitta a un altro prigioniero. Tutti sanno, però, che la sua detenzione è un chiaro messaggio a tutt* i futur* rivoluzionar* con sogni di democrazia in testa. Con lo sciopero, Abd El-Fattah cerca di mettere pressione ai suoi carcerieri per ottenere concessioni, tra cui l’accesso al consolato britannico (ha ottenuto la cittadinanza perché sua madre è nata in Inghilterra). I carcerieri rifiutano e lo sciopero continua. “È diventato uno scheletro con la mente lucida”, riporta la sorella Mona Seif.

Più continua il suo sciopero, più preziose diventano le sue lettere, che sono per la sua famiglia una prova del fatto che è in vita. Eppure, la lettera che parlava del clima non è mai arrivata alla madre Laila Soueif, intellettuale e attivista per i diritti umani. Potrebbero “averci versato del caffè sopra” o – più probabilmente – la lettera toccava temi proibiti di “alta politica”, anche se Abd El-Fattah non nominava esplicitamente il governo egiziano o la prossima conferenza sul clima.

Il 6 novembre inizierà a Sharm el-Sheikh l’annuale summit delle Nazioni Unite sul clima, la COP27. Decine di migliaia di delegati – leader mondiali, ministri, inviati, burocrati, attivisti, osservatori delle ONG e giornalisti piomberanno sulla città con i loro badge colorati. Per questo l’ultima lettera di Abd El-Fattah è così importante. L’attivista è in carcere da anni, sta morendo di fame, eppure la sua preoccupazione va alle inondazioni in Pakistan, all’estremismo in India, alla crisi della sterlina e alla candidatura di Lula in Brasile.

Tuttavia, c’è da vergognarsi del fatto che, mentre lui pensa ai drammi del mondo, non è chiaro che il mondo che si reca in Egitto per il summit stia pensando a lui. E nemmeno ai circa 60.000 altri prigionieri politici incarcerati dal regime. O agli attivisti per i diritti umani e per l’ambiente, o ai giornalisti e accademici troppo critici, che sono stati aggrediti, spiati o esclusi dalla possibilità di viaggiare, in quella che Human Rights Watch chiama “generale atmosfera di paura” e “implacabile repressione sulla società civile”. Il regime egiziano è pronto a esaltare i suoi giovani leader del clima ufficiali, presentandoli come simboli di speranza nella lotta al cambiamento climatico. Ma è difficile non pensare ai giovani leader della Primavera Araba, sottoposti a un decennio di aggressioni e violenza da parte di un sistema generosamente finanziato da altri Paesi come gli USA. È come se questi attivisti fossero stati sostituiti da altri meno problematici. “Sono il fantasma delle primavere passate” scriveva Abd El-Fattah nel 2019. Il fantasma che infesterà il prossimo summit.

Mohammed Rafi Arefin, professore di geografia alla University of British Columbia che ha svolto ricerche sulle politiche ambientali urbane in Egitto, segnala che “ogni summit delle Nazioni Unite presenta un preciso calcolo costi-benefici”. C’è il prezzo delle emissioni prodotte dai viaggi per raggiungere il summit, il costo di due settimane in hotel e la prosperità di cui gode il governo ospitante, che inevitabilmente si presenta come campione dell’ecologia, nonostante evidenti prove del contrario.  

Ma ci sono anche i benefici: il fatto che per due settimane si parla di crisi climatica nei notiziari, spesso dando la parola a voci sul terreno, provenienti per esempio dall’Amazzonia brasiliana o dalle isole Tuvalu. E si tessono reti di solidarietà internazionale, specialmente quando attivist* e organizzatori locali creano dei contro-summit e svolgono i “toxic tours” per mostrare la realtà dietro all’immagine verde del proprio governo. E, ovviamente, ci sono i patti che vengono negoziati e i fondi che vengono messi a disposizione dei Paesi più soggetti alla crisi. Ma tutto questo non è vincolante, come disse Greta Thunberg in modo memorabile, definendolo un “Bla bla bla”.

Arefin dice che “questa volta l’equilibrio si è inclinato”. Oltre alle emissioni e ai costi, il governo ospitante non è una democrazia liberale, “è il regime più repressivo nella storia dell’Egitto moderno”. Il regime guidato dal generale Abdel Fatah Al-Sisi, salito al potere con un colpo di stato militare nel 2013, è uno dei più brutali e repressivi del mondo secondo le organizzazioni per i diritti umani. In circa dieci anni, ha costruito oltre venti nuove prigioni. Ovviamente, nessuno lo direbbe, dal modo in cui l’Egitto fa marketing di sé stesso in vista del summit. Un video promozionale della COP27 invita i delegati nella “città verde” di Sharm El-Sheik e mostra giovani attori travestiti da attivisti climatici, che si godono la spiaggia con cannucce e confezioni di cibo biodegradabili, guidando veicoli elettrici verso il deserto.  Gli attori recitano la parte degli attivisti, così simili a quelli che sono imprigionati e sotto tortura nel diffuso arcipelago di prigioni egiziane. Questo summit non fa greenwashing di uno Stato che inquina ma va oltre: vuole fare greenwashing di uno Stato di polizia.

Le comunità e organizzazioni che in Egitto sono più colpite dal cambiamento climatico non saranno a Sharm El-Sheikh. E non ci saranno toxic tour o contro-summit in cui gli attivisti locali potranno mostrare la situazione reale al di là del marketing governativo. Organizzare eventi del genere potrebbe portare alla prigione. E i delegati internazionali non potranno nemmeno leggere report accademici o prodotti da ONG sull’inquinamento o la devastazione ambientale in Egitto, perché una legge del 2019 impone a chi fa ricerca di chiedere il permesso del governo prima di pubblicare informazioni ritenute “politiche”. L’intera nazione è imbavagliata, centinaia di pagine sono bloccate. Human Rights Watch riporta che alcuni gruppi di ricerca sono stati costretti a tenere a freno le proprie ricerche e addirittura “un importante gruppo ambientalista egiziano ha sciolto la propria unità di ricerca perché era diventato impossibile lavorare”. Nessun attivista vuole usare il proprio nome, perché la repressione è troppo dura.

Arefin, che ha condotto lunghe ricerche sui rifiuti e sulle inondazioni nelle città egiziane prima di queste leggi-censura, afferma che né lui né altr* accademic* o giornalist* critic* possono svolgere il loro lavoro. “I danni ambientali in Egitto adesso avvengono nell’oscurità”. E chi cerca di accendere la luce finisce in carcere – o peggio.

Mona Seif, la sorella di Abd El-Fattah, che ha trascorso anni battendosi per il rilascio del fratello e degli altri prigionieri, ha recentemente scritto in un tweet: “La realtà che molti partecipanti alla COP27 ignorano è che – in Paesi come l’Egitto – i veri alleati, chi davvero ha a cuore il futuro del pianeta, sono in carcere”.

A differenza di altri summit recenti, questo non avrà veri partner locali. Ci saranno alcuni egiziani che dichiareranno di rappresentare la società civile, in alcuni casi in modo fondato. Il problema è che, per quanto ben intenzionati, anche loro saranno partecipi del gioco di Al-Sisi. Con un’eccezione alle regole usuali dell’ONU, quasi tutte le presenze hanno dovuto ricevere l’approvazione del governo. E comunque, come spiega il report di Human Rights Watch, questi gruppi sono stati invitati solo a parlare di temi “accettati”.  Cos’è accettabile per il regime? Raccolta dei rifiuti, riciclaggio, energie rinnovabili, sicurezza alimentare, finanza sostenibile. E quali temi non sono benvenuti? Quelli che mostrano il fallimento del governo nel proteggere i diritti delle persone dai danni causati da interessi privati. Tra questi, la questione dell’acqua, l’inquinamento industriale e l’inquinamento ambientale derivante da infrastrutture, turismo e agribusiness. Ma sono anche sgraditi temi come l’impatto dei vasti – e opachi – affari dell’esercito egiziano e di infrastrutture pubbliche come la nuova capitale amministrativa. E di sicuro sarà vietato parlare dell’inquinamento da plastica e dello spreco d’acqua provocati da Coca Cola – uno dei principali sponsor del summit.

In sintesi, se volete istallare pannelli solari o raccogliere la spazzatura, otterrete un badge per il summit di Sharm El-Sheikh. Ma se volete parlare dell’impatto su ambiente e salute delle centrali a carbone in Egitto, o della pavimentazione di aree verdi al Cairo, potreste ricevere una visita della polizia segreta o del Ministero della Solidarietà Sociale. E se, come cittadini egiziani, mettete in dubbio la credibilità di Al-Sisi come portavoce delle popolazioni povere e vulnerabili dell’Africa, vista la crescente disperazione e miseria della sua stessa popolazione, farete meglio a parlarne dall’estero.

Finora, ospitare il summit ha portato soltanto prosperità per Al-Sisi, un uomo che Donald Trump ha definito “il mio dittatore preferito”. C’è una ripresa del turismo costiero, che negli ultimi anni era crollato. Ma è solo l’inizio di una nuova (verde) corsa all’oro. Lo scorso mese, la British International Investment (BII), sostenuta dal governo britannico, ha annunciato che investirà 100 milioni di dollari per sostenere le start up locali in Egitto. BII è anche l’azionista di maggioranza di Globeleq, che in vista della COP27 ha annunciato 11 miliardi di dollari per costruire una rete di idrogeno verde in Egitto. Al contempo, la BII ha sottolineato il suo impegno a “rafforzare la partnership con l’Egitto e aumentare la finanza sostenibile per sostenere la crescita verde del Paese”.

Quello britannico è lo stesso governo che ha fatto ben poco per il rilascio di Abd El-Fattah, nonostante la sua cittadinanza e lo sciopero della fame. Sfortunatamente per lui, il suo destino è ricaduto nelle mani di Liz Truss, che prima di essere una spietata e inetta Prima Ministra è stata una spietata e inetta Ministra degli Esteri. Avrebbe potuto usare alcuni dei miliardi di aiuti e investimenti per fare leva e ottenere il rilascio di un cittadino britannico.

Ma anche la Germania ha fallito moralmente. Quando Annalena Baerbock, dei Verdi, è diventata Ministra degli Esteri lo scorso dicembre, ha annunciato una “nuova politica estera basata sui valori” – una politica che avrebbe dato priorità ai diritti umani e all’ambiente. La Germania è uno dei maggiori donatori e partner commerciali dell’Egitto ma, invece di fare pressione su questi temi, Baerbock ha fornito ad Al-Sisi numerose occasioni di propaganda, come il Petersburg Climate Dialogue che si è tenuto a Berlino a luglio, in cui Al-Sisi ha potuto presentarsi come un leader green. Date le recenti difficoltà della Germania dovute all’approvvigionamento di gas dalla Russia, l’Egitto si può ben posizionare come fornitore di gas e idrogeno. Nel frattempo, il gigante tedesco Siemens ha annunciato uno storico contratto multimiliardario per costruire treni elettrici ad alta velocità in Egitto.

Le immissioni internazionali di liquidità verde arrivano con il giusto tempismo per il regime in difficoltà. In uno tsunami di crisi globali (pandemia, inflazione, carenza di cibo, aumento dei prezzi dei combustibili, siccità, debito) che si sommano a malagestione e corruzione sistemiche, l’Egitto rischia il default sul debito pubblico – situazione che potrebbe destabilizzare il regime politico.  In questo contesto il summit per il clima non è soltanto un’occasione di PR: è un’ancora di salvezza.

Gli attivist* per il clima ammettono che questi summit producono ben poco, in termini di azioni basate sull’evidenza scientifica. Anno dopo anno, da quando sono iniziati, le emissioni non hanno mai smesso di aumentare. Qual è, dunque, la ragione di appoggiare questo summit, quando l’unica cosa che produrrà sarà l’arricchimento di un regime che dovrebbe essere escluso sotto ogni standard etico?

Come si chiede Arefin: “A che punto diremo Basta?”

È da mesi che gli egiziani esiliati in Europa e negli Stati Uniti supplicano le ONG per inserire i prigionieri politici del loro paese nell’agenda delle negoziazioni che si terranno al vertice. Ma a questo tema non è stata data alcuna priorità. Gli è stato detto che questa è l’“Africa’s COP” (COP sta per Conferenza delle parti, o dei firmatari del Framework delle Nazioni Unite sulla Convenzione sul Cambio Climatico) e che, nonostante tutti i fallimenti precedenti, la COP27  avrebbe finalmente preso sul serio la “implementation” e il “loss and damage”- le Nazioni Unite parlano dalla speranza che i paesi ricchi altamente inquinanti paghino finalmente ciò che devono alle nazioni povere, come il Pakistan, che hanno responsabilità quasi nulle per le emissioni globali di carbone ma stanno subendo buona parte del costo crescente.

La chiara allusione è che il vertice è troppo serio e importante per essere distratto dalla presunta piccola questione della situazione dei diritti umani dei paesi ospitanti. Ma la COP27 difenderà veramente la giustizia climatica? Porterà energia verde, mobilità pulita e sovranità alimentare ai poveri? Il raduno affronterà veramente il debito climatico e le riparazioni come affermano in molti?

Che le riparazioni climatiche siano dovute è cosa ovvia, scrive il giornalista, regista e romanziere egiziano Omar Robert Hamilton in un saggio magistrale. La domanda più difficile è come progettare un sistema di riparazioni che non rafforzi i regimi autoritari – un sistema che garantisca che i fondi contribuiscano effettivamente a una vera decarbonizzazione. “Questo dovrebbe essere al centro delle negoziazioni della COP tra i paesi del Sud e i paesi del Nord - ma coloro che fanno le negoziazioni per il Sud tendono ad essere esponenti di regimi autoritari i cui interessi a breve termine sono ancora più evidentemente compromessi di quelli dei dirigenti petroliferi”.

In sintesi, nonostante nei circoli della politica climatica ci si riferisca a questa COP come quella della “implementation”, probabilmente il raduno egiziano raggiungerà poco in termini di vera azione climatica, al pari dei precedenti. Ma questo non significa che non otterrà niente: quando si tratta di sostenere un regime di torture, riempiendolo di denaro e di foto per ripulire la propria immagine, la COP27 è un regalo generoso. 

Abd El-Fattah è da tempo un simbolo della rivoluzione egiziana violentemente repressa. Ma con l’avvicinarsi del vertice sta diventando un simbolo anche di qualcos’altro: la mentalità “zona di sacrificio” al cuore della crisi climatica, l’idea che alcuni luoghi e alcune persone possono essere resi invisibili, deprezzati e cancellati - tutto nel nome del progresso. Vediamo questa mentalità al lavoro quando i territori vengono avvelenati per estrarre e raffinare combustibili fossili e minerali. La vediamo quando quegli stessi territori vengono sacrificati per riuscire a far approvare una legge climatica che non li protegge. E adesso la vediamo nel contesto di un meeting climatico internazionale, nelle negoziazioni in cui i diritti delle persone che vivono nel paese ospitante vengono sacrificati e resi invisibili nel nome del miraggio del “vero progresso”.

Se il vertice dell’anno scorso a Glasgow riguardava il “bla, bla, bla”, il significato di questo, ancora prima di iniziare, è più nefasto. Questa conferenza parla di sangue, sangue, sangue. Il sangue dei circa 1.000 manifestanti massacrati dalle forze egiziane per garantire il potere dell’attuale governante. Il sangue di coloro che continuano ad essere assassinati. Il sangue di quelli picchiati nelle strade e torturati nelle prigioni. Il sangue di persone come Abd El-Fattah.

Può essere che ci sia ancora tempo per cambiare il copione affinché il meeting diventi un faro che illumini le connessioni tra l’aumento dell’autoritarismo e il caos climatico nel mondo – come accade quando i leader di estrema destra come l’italiana Giorgia Meloni alimentano la paura dei rifugiati, compresi quelli che scappano dal degrado ambientale, per favorire la propria ascesa, o quando l’Unione Europea riempie di soldi leader brutali come Al-Sisi di modo che continui a prevenire l’arrivo degli africani sulle sue coste. C’è ancora tempo per portare avanti l’idea che la giustizia climatica sia impossibile senza libertà politiche.

“Al contrario di me, voi non siete ancora stati sconfitti”. Alaa Abd El-Fattah ha scritto queste parole nel 2017. È stato invitato a tenere un discorso alla RightsCon, l’incontro annuale sul tema dei diritti umani nell’era digitale sponsorizzato dalle grandi aziende tecnologiche. La conferenza si è tenuta negli Stati Uniti ma siccome Abd El-Fattah era dietro le sbarre nella famosa prigione di Tora (in quel momento era dentro da quattro anni) ha mandato una lettera. È un testo brillante, che parla dell’imperativo di proteggere internet come uno spazio di creatività, sperimentazione e libertà. Ed è anche una sfida per coloro che non sono (ancora) dietro alle sbarre, che hanno la libertà di fare cose come andare a conferenze per parlare di giustizia, democrazia e diritti umani. In quella libertà ci sono delle responsabilità. La responsabilità non solo di essere liberi ma anche di agire come tali, usando la libertà al suo massimo potenziale trasformatore, prima che sia troppo tardi. 

Mentre decine di migliaia di delegati della COP27 relativamente liberi si preparano per viaggiare a Sharm El-Sheikh, controllando la temperatura media di novembre (28C), facendo appropriatamente le valigie (magliette leggere, sandali, un costume da bagno - perché non si sa mai), le parole di Abd El-Fattah riguardo alle responsabilità che derivano dal non essere sconfitti assumono una nuova urgenza. Data l’intensa sorveglianza e le minacce che affronteranno gli egiziani che parteciperanno al meeting, come useranno la loro libertà gli stranieri presenti? La loro condizione di non essere ancora degli sconfitti?

Si comporteranno come se l’Egitto fosse un mero sfondo e non un paese dove persone come loro hanno lottato e sono morte per la stessa libertà che loro hanno e contro gli stessi interessi economici che stanno destabilizzando il nostro clima planetario e politico? O troveranno modi per portare le raccapriccianti verità delle prigioni egiziane al centro della conferenza che sbrilluccica di verde? Diranno alcuni dei nomi dei prigionieri? Cercheranno quelle poche organizzazioni della società civile rimaste al Cairo - come quelle raggruppate in copcivicspace.net - e cercheranno di aiutarle?

Abd El-Fattah sarebbe il primo a dire che ciò di cui c’è bisogno non è né pietà né carità. Piuttosto, in quanto internazionalista solidale con diverse lotte, dal Chiapas alla Palestina, ha chiamato i compagni a una battaglia che abbia fronti in ogni nazione. “Ci rivolgiamo a voi”, è ciò che ha scritto dalla prigione nella lettera per RightsCon, “non in cerca di alleati potenti ma perché affrontiamo gli stessi problemi globali e condividiamo valori universali con la forte convinzione del potere della solidarietà”.

Forze antidemocratiche e fasciste stanno sorgendo nel mondo. Di paese in paese, le libertà sono precarie e stanno svanendo. E tutto questo è collegato. Le tendenze politiche si diffondono a ondate attraverso le frontiere, nel bene e nel male - motivo per cui la solidarietà internazionale non può mai essere sacrificata in nome dell’opportunismo per un obiettivo superiore di “progresso”. La Rivoluzione Egiziana è stata ispirata dalla Rivoluzione Tunisina e lo “Spirito di Tahrir” si è diffuso a sua volta in tutto il mondo. Ha contribuito a ispirare altri movimenti guidati da giovani in Europa e in America del Nord, tra cui “Occupy Wall Street”, che a loro volta hanno contribuito alla nascita di nuove politiche anticapitaliste ed eco-socialiste. Infatti, si può tracciare un collegamento piuttosto lineare da Tahrir a Occupy, fino alla campagna presidenziale del 2016 per Bernie Sanders negli Stati Uniti, fino all’elezione al Congresso di Alexandria Ocasio-Cortez e la sua difesa del Green New Deal.

Dove i diritti umani sono sotto attacco, lo è anche il mondo naturale. Dopotutto, le comunità e le organizzazioni del mondo che stanno affrontando le repressioni e le violenze di stato più dure - che vivano nelle Filippine, in Canada, in Brasile o negli Stati Uniti - sono prevalentemente costituite da persone indigene che tentano di proteggere i loro territori da progetti inquinanti ed estrattivisti, molti dei quali stanno anche producendo la crisi climatica. Difendere i diritti umani, ovunque viviamo, è pertanto inestricabile dal difendere un pianeta abitabile.

Inoltre, la misura con cui alcuni governi stanno finalmente introducendo una legislazione climatica significativa è vincolata alle libertà politiche. Il Senato statunitense e l’amministrazione Biden sono stati finalmente indotti ad approvare l’“Inflation Reduction Act” – anche se è imperfetto così com’è. Questa è stata una conseguenza diretta della pressione pubblica, del giornalismo investigativo, della disobbedienza civile, delle occupazioni di uffici legislativi, delle denunce e di qualsiasi altro strumento dell’arsenale nonviolento. Alla fine, i legislatori si sono messi d’accordo per approvare la legge per paura di affrontare gli elettori a novembre arrivando da loro a mani vuote. Se i politici statunitensi non avessero dovuto temere il popolo per una paura maggiore da parte di quest’ultimo nei loro confronti, nulla di tutto ciò sarebbe successo.

Una cosa è certa: non otterremo i cambiamenti resi necessari dalla crisi climatica senza la libertà di protestare, occupare, far vergognare i leader politici e dire la verità in pubblico. Se le manifestazioni vengono vietate e i fatti sconvenienti vengono criminalizzati come “informazione falsa”, come accade nell’Egitto di Al-Sisi, allora è una partita persa. Senza gli scioperi, le proteste e la ricerca investigativa, saremmo presi peggio di quanto lo siamo adesso. E qualsiasi di queste attività sarebbe sufficiente per mandare in una cella buia affianco ad Abd El-Fattah gli attivisti o i giornalisti egiziani.

Quando sono arrivate notizie del fatto che la prossima conferenza climatica delle Nazioni Unite avrebbe avuto luogo a Sharm El-Sheikh, gli attivisti egiziani avrebbero potuto fare un appello al movimento climatico per boicottarla. Hanno deciso di non farlo, per una varietà di motivi. Ma hanno chiesto solidarietà. Il Cairo Institute for Human Rights Studies, ad esempio, ha chiesto alla comunità internazionale di avvalersi del vertice per “fare luce sui crimini che vengono commessi in Egitto e sull’urgenza di un cambio di rotta da parte delle autorità egiziane”. C’erano speranze sul fatto che gli attivisti europei e statunitensi spingessero i loro governi a rendere la loro presenza e partecipazione condizionale al rispetto da parte dell’Egitto dei diritti umani basilari - compresa un’amnistia per i prigionieri obiettori di coscienza che si trovano in carcere per “crimini” come organizzare una manifestazione, postare una dichiarazione poco lusinghiera riguardo al regime o ricevere un finanziamento estero.

A meno di un mese dall’inizio del raduno, la risposta del movimento climatico globale è stata messa a tacere. Molti gruppi hanno aggiunto i loro nominativi alle petizioni; è apparsa una manciata di articoli riguardo alla situazione dei diritti umani durante il meeting; attivisti climatici in Germania, molti dei quali sono egiziani in esilio, hanno tenuto piccole proteste con cartelli con scritto “Niente COP27 finché Alaa non sarà libero” e “No greenwashing nelle prigioni egiziane”. Ma non abbiamo visto niente che si avvicini al tipo di pressione internazionale che preoccuperebbe i leader egiziani. 

È difficile esagerare la natura totalizzante della guerra di Al-Sisi contro la società civile. Human Rights Watch ha riferito che “Nel 2014 Al-Sisi ha emendato, attraverso un decreto, il Codice Penale per punire con il carcere a vita o con la pena di morte chiunque richiedesse, ricevesse o prendesse parte al trasferimento di fondi, che fossero da fonti straniere o da organizzazioni locali, con l’obiettivo di fare un lavoro che minasse l’interesse nazionale, l’indipendenza del paese o la sicurezza pubblica”. La pena di morte per chi riceve un finanziamento. Nonostante ciò, le più grandi fondazioni europee e statunitensi saranno a Sharm El-Sheikh a incontrare gruppi che hanno finanziato e altri che potrebbero pensare di finanziare, in un paese dove prendere quel denaro per dire la verità riguardo al saccheggio ambientale in Egitto ti potrebbe costare la vita.

Tutto questo è un po’ incomprensibile. Perché invitare finanziatori e gruppi verdi in Egitto quando il regime prova un’ostilità così ovvia verso queste attività nel suo territorio? La verità - scomoda per tutti coloro che saranno presenti - è che niente sarebbe di maggiore utilità per Al-Sisi di trasformare Sharm El-Sheikh in una sorta di zoo no profit, dove attivisti climatici internazionali e finanziatori possono impiegare due settimane a urlare riguardo all’ingiustizia Nord-Sud prima che arrivino delle videocamere, con pochi gruppi locali approvati dallo stato buttati lì per l’interesse dell’autenticità. Perché? Perché allora l’Egitto apparirebbe come qualcosa che chiaramente non è: una società libera e democratica. Una buona fonte del tuo gas naturale. O un paese adatto a cui affidare un nuovo prestito del FMI.

A detta di tutti, il governo egiziano sta freneticamente costruendo una bolla a Sharm El-Sheikh, dove metterà in scena qualcosa che assomiglia a una sorta di democrazia. La domanda che affrontano i gruppi della società civile è: “Starai al gioco - o farai ciò che puoi per fermare questa messa in scena?”.

In tutti i piani per la conferenza del prossimo mese sponsorizzata dalla Coca Cola, il dettaglio più agghiacciante è sicuramente l’annuncio che questo sarà il primo incontro del genere ad avere un Padiglione Bambini e Giovani all’interno della sede ufficiale: uno spazio a sé che “provvederà luoghi di discussione, formazione, creatività, briefing politici, riposo e relax, unendo le voci delle persone giovani del mondo”. Questo permetterà alla gioventù di - indovinate - “dire la verità al potere”.

Non ho dubbi che molte persone giovani di quel padiglione terranno discorsi potenti, come hanno fatto a Glasgow e ai vertici climatici precedenti. I giovani sono diventati dei veri leader climatici e hanno disperatamente inoculato l’urgenza necessaria e la chiarezza morale in molti spazi climatici ufficiali. Quella stessa moralità è necessaria adesso.

Un decennio fa, i giovani egiziani non avevano un padiglione creato dallo stato. Avevano una rivoluzione. Hanno riempito Piazza Tahrir richiedendo un tipo diverso di Stato, uno stato senza paura costante, uno stato dove gli adolescenti non spariscono nelle celle della polizia per riapparire morti, o con la faccia gonfia e insanguinata. Quella rivoluzione ha deposto un dittatore che governava da prima che fossero nati. Ma dopo i loro sogni sono stati infranti dal tradimento politico e dalla violenza. In una delle sue lettere recenti, Abd El-Fattah scrive su quanto sia doloroso condividere la cella con adolescenti che sono stati arrestati quando erano bambini: “Erano minorenni quando sono stati mandati in prigione e stanno lottando per uscire prima di raggiungere la maggiore età”.

Tra gli adolescenti che hanno contribuito a occupare la piazza nel 2011 c’era Sanaa Seif, sorella molto giovane di Abd El-Fattah. In quel momento, a soli 17 anni, Sanaa ha co-fondato  un giornale rivoluzionario, Al Gornal, che ha stampato decine di migliaia di copie diventando una sorta di voce per Tahrir. È stata anche tecnica di montaggio e operatrice di ripresa nel documentario “The Square” [“La Piazza”] del 2013, nominato agli Oscar. Lei stessa è stata imprigionata diverse volte per aver fatto sentire la sua voce contro le violazioni dei diritti umani e per chiedere il rilascio di suo fratello. In un’intervista, mi ha detto che ha un messaggio indirizzato ai giovani attivisti diretti a quel padiglione: “Ci abbiamo provato. Abbiamo detto la verità al potere”. Adesso, dice, molti attivisti stanno trascorrendo i loro vent’anni in prigione. “Quando sarete lì, ricordate che potete essere la voce di altre persone giovani… Per favore, teniamo quell’eredità. Per favore, dite effettivamente la verità al potere. Avrà impatto, tutti gli occhi sono su di voi”.

Ma mentre la conferenza sul clima si avvicina e lo sciopero della fame di Abd El-Fattah continua, Sanaa sta perdendo la pazienza con i tanti gruppi ambientalisti che finora sono rimasti silenziosi, apparentemente per paura di perdere i loro distintivi o di essere fermati alla frontiera. “Onestamente non ne posso più dell’ipocrisia del movimento climatico”, ha scritto la settimana scorsa su Twitter. “Da mesi risuonano urla dall’Egitto che avvertono che questa #COP27 andrà molto oltre il greenwashing, che le conseguenze su di noi saranno orribili. Eppure, la maggioranza sta scegliendo di ignorare la situazione dei diritti umani”.

Ha fatto notare che questo è il motivo per cui spesso l’attivismo climatico viene visto come un’attività di élite, sconnessa dalle urgenti preoccupazioni quotidiane delle persone - come ottenere la scarcerazione dei loro famigliari. “State garantendo che #ClimateAction resti una nozione aliena, appannaggio esclusivo di quei pochi che oggi hanno il lusso di pensare oltre”, ha precisato. “Mitigare i cambiamenti climatici e lottare per i diritti umani sono lotte interconnesse, non dovrebbero essere separate. Specialmente dal momento in cui abbiamo a che fare con un regime che è appoggiato da aziende come BP ed ENI. E in realtà, quanto è difficile mettere in risalto entrambe le questioni? #FreeThemAll #FreeAlaa”.

Non è difficile - ma richiede coraggio. Il messaggio che gli attivisti dovrebbero portare al vertice climatico, sia che viaggino in Egitto o che si impegnino da lontano, è semplice: senza difesa delle libertà politiche, non ci sarà un’azione climatica efficace. Né in Egitto, né da qualsiasi altra parte. Queste problematiche sono intrecciate, così come i nostri destini. 

È tardi, ma c’è ancora abbastanza tempo per fare le cose bene. Human Rights Watch argomenta che il segretariato del Framework delle Nazioni Unite sulla Convenzione sul Cambiamento Climatico, che stabilisce le regole per questi vertici, dovrebbe “sviluppare criteri di diritti umani come parte dell’accordo ospitante e rispetto ai quali i paesi ospitanti delle future COP dovrebbero impegnarsi”. È troppo tardi per farlo in questo meeting, ma tutti coloro che sono preoccupati per la giustizia climatica sono ancora in tempo per esprimere solidarietà con i rivoluzionari che hanno ispirato milioni di persone nel mondo un decennio fa, quando hanno rovesciato un tiranno. Ci potrebbe essere addirittura tempo per spaventare abbastanza Al-Sisi con la prospettiva di un “PR Verde” da incubo sul Mar Rosso da fargli decidere di aprire le porte di alcune celle prima che tutte quelle videocamere arrivino. Perché, come ci ricorda Alaa Abd El-Fattah dalla disperazione della sua cella, noi non siamo ancora stati sconfitti.