I libici sono soli?

10 / 3 / 2011

Il mio amico e compagno Gigi Sullo ha scritto qualche giorno fa una lettera sulla situazione della Libia. Si concentra, come molti in queste ore, sul fatto che difronte a quello che sta accadendo, i movimenti sono silenti, o perlomeno parlano a bassa voce, troppo bassa. E’ un fatto, concordo con Gigi, ma vorrei provare ad utilizzarlo per ragionare un po’ più in profondità, anche senza tanti giri di parole, esattamente come ha fatto Rossanda in quel bellissimo editoriale del 9 marzo scorso sul Manifesto.

Innanzitutto: i libici sono soli? Non direi. Anzi mi pare, a differenza dei tunisini e degli egiziani, che i libici siano un po’ troppo in compagnia. La sacrosanta lotta contro un dittatore come Gheddafi, espressione di un clan in una società ancora dominata dai clan, rischia di soffocare rapidamente per l’affollamento di “aiuti” di stato, della Nato, dell’Unione Europea, delle Banche, della Lega Araba, delle teste di cuoio britanniche o dei consiglieri militari israeliani, che le tolgono aria. Abbiamo già visto che cosa è stato ed è diventato il Kosovo, anche se all’epoca, quando organizzammo la nave per Tirana, con quattrocento compagni e compagne, discutevamo quotidianamente con Edi Rama, l’attuale capo dell’opposizione in quel paese e tra i protagonisti di quella stagione, che poi fu quello che richiese ed ottenne i bombardamenti sui serbi da parte della Nato. Noi allora non avevamo alcun dubbio che bisognasse appoggiare la lotta contro la pulizia etnica in Kosovo operata dalle bande di assassini di Arkan, e abbiamo cercato in ogni modo di appoggiarla. Quando chi si ribellava ha consegnato nelle mani degli altri stati, dell’Europa e della Nato la questione, io credo che l’opinione pubblica e i movimenti mondiali, siano stati messi da parte. Non sono spariti, anzi. Messi da parte perché la loro parola e azione è stata compressa nella sua indipendenza, presa in ostaggio dalla “guerra”, allora nella sua versione umanitaria. Abbiamo dovuto allora concentrarci sui bombardamenti che partivano da casa nostra. Siamo stati a Belgrado sotto le bombe, e il Kosovo è stato ridotto, oltre che a una terra inquinata per sempre dall’uranio impoverito dei proiettili occidentali, ad una pedina della politica internazionale. Ricordo che anche allora dovemmo fare i conti con il passato: la “gloriosa” bandiera yugoslava divenne ben presto quella serba, in qualche parte di movimento, la pulizia etnica era solo una operazione mediatica, chi era bombardato dai nemici americani, era per forza nostro amico, e via così. Tutte cose assurde, come dice anche Rossanda, ma reali, e soprattutto aiutate dalle operazioni della Nato e dalle posizioni delle leadership kosovare. Cosa voglio dire: la lotta per la democrazia e contro Gheddafi in Libia è contenuta in qualcosa che è più complesso, di cui bisogna tenere conto e che spiega, se vogliamo, quanto in realtà siamo all’inizio di un nuovo mondo, e il “popolo” di questo nuovo mondo, di cui anche noi vogliamo fare parte, deve ancora formarsi. Vi è un modo per accelerare questo processo? Di certo io non mi permetto di chiederlo ai libici, o agli egiziani o ai tunisini: sono loro lì che hanno a che fare, con tutto il carico di terrore e tragedie che questo significa, con la mano assassina del potere, degli eserciti, dei clan. Noi dobbiamo contribuire dando del nostro, e non abbiamo nulla da insegnare: siamo alla pari, e in molti casi “sottoposti” a coloro che comunque i cambiamenti li costruiscono e li vivono. Tornando al Kosovo ricordo che il modo che ci era sembrato il più giusto per fare qualche cosa all’inizio, prima che tutto fosse riassorbito nella guerra della Nato, fu quello di batterci per impedire i respingimenti dei profughi che arrivavano sulle nostre coste dall’Albania. L’iniziativa dei quattrocento si concretizzò in un’andata di massa a Valona, facendo il tragitto al contrario sul canale d’Otranto, rivendicando il diritto per tutti di passare senza documenti ( e così facemmo alla frontiera di Brindisi, passando il confine in corteo e imbarcandoci tutti insieme in una carretta di nave che avevamo noleggiato ). Al ritorno, portammo con noi e introducemmo illegalmente in Italia una bimba albanese che aveva bisogno di cure, con i suoi genitori. Facemmo a botte al porto di Valona con il comandante della nave e l’equipaggio, che non volevano saperne di imbarcare clandestini, ma alla fine la spuntammo. Tornando a Gheddafi invece, quando venne con tutti gli onori all’università la Sapienza, i compagni e le compagne con tanto di scudi, tentarono di sfondare il cordone di polizia per impedire la vergognosa parata diu quello che per noi, anche allora, era un dittatore da cacciare. Lo era non in funzione di chissà quale analisi sullo stato della democrazia in quel paese, troppo difficile da fare per noi, attorniati da tanti esperti a sinistra del “libretto verde”, delle rivoluzioni antimonarchiche arabe, delle lotte postcoloniali. Ci venne spontaneo sintonizzarci, nonostante fossimo pressochè soli, con i migranti sicuramente, libretto verde o no, torturati ed ammazzati nei lager libici, costruiti con i soldi dei vari governi italiani, prima con quelli di Prodi e poi con quelli di Berlusconi attraverso il programma europeo “frontex”. Può un uomo che tortura, ammazza, incarcera le persone essere un riferimento per la democrazia di cui parliamo? I libici stanno meglio di altri cittadini del Maghreb, ma a che prezzo per tutti gli altri? Queste domande, e la presa di parola di allora, erano e sono semplici, proprio perché la situazione è complicata nel mondo. Voglio dire dunque che noi dovremmo cercare di ragionare su cosa significhi ciò che sta accadendo, ma anche tentando di non cascare nel giochetto “bianco o nero”, appoggio o condanna, così, tanto per salvarci la coscienza. La rivolta tunisina oggi continua, ad esempio, con le lotte dei lavoratori per aumenti di salari e condizioni dignitose. Questi sono i nostri interlocutori. Le donne egiziane, cacciate da Piazza Tahir a suon di botte da uomini islamici che pure prima hanno contribuito a cacciare Mubarak, l’otto marzo, sono coloro con cui dobbiamo parlare, costruire discorso comune. Le università, centrali più di twitter e facebook nella rivolta, sono i luoghi da conoscere. In Libia è tutto diverso. Per ora io credo che dobbiamo cercare di batterci contro l’uso che l’Europa e l’Italia hanno fatto del dittatore, prima di scaricarlo. E contro l’uso che si vuol fare di una rivolta per imporre una nuova guerra umanitaria, per il controllo dei pozzi di petrolio e delle migrazioni. Credo che l’azione più giusta in questo momento, per cercare l’indipendenza delle nostre posizioni dentro un gioco macabro, quello degli stati e degli eserciti, dei “consigli rivoluzionari” troppo in buona compagnia internazionale, sarebbe quella di prenderci i profughi ammassati in Sicilia che vogliono raggiungere l’europa, le loro famiglie, e portarli fuori dai Cie, dai campi o villaggi in cui li concentrano. E anche occuparci delle centrali d’affari che gestiscono i prezzi del petrolio, e che a furia di aumenti sono capaci di imporre altro che guerre. L’atteggiamento che io trovo possa essere utile è comunque quello di chi è parte di un processo che coinvolge il mediterraneo e il mondo. I nostri limiti sono questi: dobbiamo crederci che tutto sta cambiando, che nulla è scontato, e allo stesso tempo dobbiamo fidarci che è solo dal basso, con mille contraddizioni ma anche con la semplicità delle questioni concrete, che potremo aiutare. Veltroni non c’era quando contestavamo Gheddafi. Anche questa è una cosa semplice, che non significa facile come è l’indignazione di circostanza. Tu caro Gigi invece, che non hai mai smesso di interrogarti sul senso delle cose, e continui ad osservare i percorsi, come quello del Forum Mondiale di cui ci hai scritto, potresti aiutarci a convincere altre persone che anche quel modo lineare, progressivo e “storico” di vedere le alternative al capitalismo e alla sua ferocia, è un po’ comodo e molto sbagliato quando prende a modello Stati, Guide rivoluzionarie che cambiano la costituzione per rimanere in carica per l’eternità.