I limiti del progressismo latinoamericano

5 / 5 / 2022

La scorsa settimana il continente latinoamericano è stato scosso da alcune mobilitazioni represse duramente dalle istituzioni, in larga parte a guida “progressista”. È il caso degli studenti secondari cileni, dei comuneros peruviani di Fuerabamba ma anche delle organizzazioni sociali, indigene e campesinas colombiane. Tra repressione e polemiche, i tre eventi appena descritti danno lo spunto per avviare un’analisi sui governi progressisti, per riflettere sul senso che ha, in questa fase storica, la conquista e la gestione del potere da parte di partiti, movimenti, leader che si definiscono di sinistra. 

 In Cile, grande speranza e aspettative aveva generato la vittoria alle elezioni presidenziali di Gabriel Boric, ex dirigente studentesco. Una vittoria ottenuta come parte di un processo di mobilitazioni storico iniziato dieci anni prima dal movimento studentesco, di cui proprio Boric era uno dei portavoce più importanti, ma soprattutto frutto dell’estallido social del 2019. Camila Vallejo, Izchia Siches, Maya Fernandez (nipote di Salvador Allende) sono stati dipinti come la faccia nuova, pulita e di sinistra della politica cilena, simboli del nuovo governo e del nuovo corso delle istituzioni cilene capaci, ancor prima di mettersi al lavoro, di spezzare il vincolo con gli anni della dittatura. 

Purtroppo però, i primi due mesi del nuovo governo hanno evidenziato dei limiti strutturali ma anche di volontà politica, di esercitare un reale cambiamento con il passato, gettando nubi scure sull’immagine dell’attuale governo. Qualche settimana fa era riesplosa la questione mapuche: l’invio di nuovi contingenti militari in Araucania, ha messo in chiaro che la risposta del nuovo governo alla questione mapuche non è tanto diversa da quella del precedente governo di Piñera, ovvero, militarizzazione del territorio. Mapuche che, per voce di Hector Llaitul della CAM (Coordinadora Arauco Malleco), hanno subito messo in chiaro l’indisponibilità al dialogo finché da parte delle istituzioni si continuerà con la linea della militarizzazione dei territori mapuche. 

Ma è proprio con la nuova ondata di proteste studentesche che i limiti e le contraddizioni del nuovo governo sono venuti alla luce in modo netto. Il nuovo ciclo di mobilitazioni è stato aperto dagli studenti delle scuole secondarie per migliorare le infrastrutture scolastiche che cadono a pezzi e in generale le condizioni educative, molto classiste. Sono quindi state organizzate delle occupazioni di licei ed istituti e delle mobilitazioni per dar voce alle rivendicazioni a cui lo Stato ha risposto con l’invio di carabineros che, come abbiamo avuto modo di osservare in questi anni, non intervengono quasi mai in modo democratico e in rispetto dei diritti umani.

La dura repressione dei carabineros subita dagli studenti secondari in questi giorni è una contraddizione difficilmente giustificabile per Gabriel Boric e per il quale il suo governo subisce un duro colpo d’immagine. Tanto più che mentre si inviano carabineros a picchiare selvaggiamente gli studenti minorenni, vengono trattati coi guanti i camionisti – storicamente un settore reazionario – in sciopero. Un duro colpo all’immagine in primo luogo perché lo stesso Boric proviene dal movimento studentesco, da quel ciclo di lotte del 2011 da cui molti analisti ritengano provenga il seme delle mobilitazioni degli anni successivi. In secondo luogo perché, se oggi Boric risiede nel palazzo che fu di Allende, è perché tre anni fa furono proprio gli studenti secondari ad accendere la miccia dell’estallido social con l’evasion masiva dei tornelli della metro per l’aumento indiscriminato del costo del biglietto. Fu quella goccia a far tracimare il bicchiere perché, come successivamente dissero gli stessi studenti, “no son 30 pesos, son 30 años”.

La “ciliegina sulla torta” sono però le dichiarazioni dello stesso Boric a commento degli eventi che si stanno succedendo in questi giorni: pur rivendicando la provenienza dal movimento studentesco, il nuovo presidente ha rispolverato la vecchia e triste storia dei buoni e dei cattivi aggiungendo che le grandi conquiste del movimento sono state ottenute con manifestazioni pacifiche, dimenticandosi, o omettendo, che fu invece la grande radicalità espressa nelle piazze a far vacillare Piñera, salvato proprio da parlamentari come lui nell’ormai lontano novembre 2019 firmando l’Accordo per la Pace Sociale con la quale si è avviato il processo costituente alle spalle dei movimenti. 

Discorso diverso ma che si inserisce allo stesso modo nel solco tracciato dal progressismo, è quello del Perù dove il presidente-maestro Pedro Castillo è facile preda della lunga crisi istituzionale che imperversa nel paese da qualche anno. Il suo debole governo è alle prese con il tentativo di non capitolare sotto gli attacchi sempre più spietati dell’opposizione che dopo pochi mesi ha già tentato più volte di farlo deporre attraverso procedimenti di impeachment. In questo contesto si inseriscono le rivendicazioni popolari che, tra le altre cose, hanno determinato il successo elettorale di Castillo. Lo scorso fine settimana dunque anche il Perù è stato teatro di dure proteste, ad opera questa volta dei comuneros di Fuerabamba, che da oltre quindici giorni avevano occupato le terre comunitarie date in concessione all’impresa mineraria Las Bambas.  

Anche in questo caso, la risposta del governo è stata quella di abbandonare la base popolare per difendere gli interessi economici delle potenti imprese estrattiviste. Nella pratica, il governo di Castillo ha decretato lo stato d’eccezione per l’area interessata dal conflitto e inviato oltre 600 agenti per “riportare la legalità”, vale a dire per sgomberare con la forza il recupero territoriale messo in atto dai comuneros, con un saldo di una ventina di feriti, tra cui una donna ferita gravemente a un occhio da un proiettile.

Come detto precedentemente, dal governo di Castillo non è lecito aspettarsi quasi niente data la debolezza politica del suo mandato, tuttavia, il governo non han nemmeno abbozzato una strategia di dialogo tra le parti, preferendo una difesa senza mezzi termini dell’impresa mineraria e dei suoi interessi economici a discapito della popolazione. 

Infine, la Colombia. Può sembrare fuori luogo parlare di questo paese dal momento che storicamente è governato dalle destre conservatrici alleate di Washington, ma è utile parlarne lo stesso perché ci dà un quadro completo delle strategie dei movimenti politici progressisti in ottica elettorale. Tra poco meno di un mese infatti, il paese si recherà alle urne per eleggere il nuovo presidente e, secondo i recenti sondaggi, per la prima volta potrebbe vedere la vittoria storica del candidato progressista, l’ex guerrigliero Gustavo Petro.  

Un anno fa il paro nacional indetto dalle organizzazioni sindacali debordava oltre i limiti imposti dagli organizzatori trasformandosi in un nuovo estallido social, durato oltre tre mesi, contro il governo di Duque. Anche in questo caso la spinta proveniente dal basso è stata determinante nella crescita del Pacto Histórico, tanto che nelle recenti elezioni per il Congresso, ha ottenuto per la prima volta un risultato importante arrivando a conquistare numerosi parlamentari e l’attivista indigena Francia Marquez è stata tra i candidati più votati ottenendo di diventare la vice di Gustavo Petro alle presidenziali. 

È proprio in questo clima pre elettorale che nello scorso fine settimana in molte città del paese si sono svolte numerose manifestazioni per celebrare l’inizio della rivolta, avvenuta il 28 aprile 2021. A gettare acqua sul fuoco sulla partecipazione popolare a dette manifestazioni sono stati soprattutto due uomini simbolo del Pacto Histórico, i parlamentari Gustavo Bolivar e Wilson Arias che hanno più volte lanciato appelli a non scendere in piazza per non cadere nella “trappola uribista”. Ancora una volta il discorso è legato alla violenza nelle manifestazioni, in questo caso al pericolo che la radicalità della protesta o le infiltrazioni violente nelle manifestazioni potessero danneggiare la campagna elettorale di Petro.

Ha stupito e creato forti polemiche in Colombia che questo appello venisse da due parlamentari da sempre vicini alla base popolare e strenui difensori del diritto a manifestare. Chi ha seguito le vicende del paro nacional dello scorso anno ricorderà che Arias e Bolivar erano nelle strade a sostenere i manifestanti utilizzando la loro posizione di parlamentari per denunciare gli abusi commessi dalla ESMAD. Ancora oggi, entrambi sostengono ideologicamente i manifestanti e rivendicano come un percorso legittimo la rivolta popolare. Tuttavia, in nome di una futura possibilità di governare non hanno avuto nessun dubbio nel cercare di “governare” chi in strada manifesta non per calcoli politici ma per necessità di conquistarsi il futuro. 

Come dice Raúl Zibechi, «ciò che sta accadendo con il progressismo è patetico. Ha rinunciato anche a cambiamenti minori o cosmetici e tutto è in gioco nel presentarsi come alternativa all’ultradestra, che si tratti di Bolsonaro, uribismo in Colombia o Kast in Cile». Partendo da questo presupposto sorgono quesiti significativi. Innanzitutto, alla luce di quanto visto negli ultimi vent’anni, ha ancora senso sacrificare il seme della ribellione, della resistenza, dell’autonomia e dell’organizzazione popolare per progetti politici che a malapena riusciranno a dare un sollievo temporaneo alle masse più in difficoltà? Infatti, nonostante gli indubbi miglioramenti delle condizioni di vita della popolazione, coi governi progressisti le condizioni strutturali che determinano sfruttamento, disuguaglianza, violenza non vengono intaccate e anzi a seguito di un breve periodo di miglioramento, vi è poi il pericolo concreto di un peggioramento in senso reazionario dal momento che le destre acquistano forza e potere dall’annacquamento delle istanze popolari. 

Il secondo quesito è il solito vecchio nodo dell’utilizzo di quella che viene definita violenza politica. Come possono i movimenti, le comunità in resistenza, le organizzazioni sociali legittimare percorsi radicali di lotta senza che rappresentanti della sinistra istituzionale rinneghino quei percorsi? Un aiuto in questo senso è venuto paradossalmente dalla pandemia, che ha mostrato al mondo intero tutta la spietata violenza del sistema capitalista che ha fatto letteralmente morire milioni di persone per salvaguardare i profitti dei potenti. Arias e Bolivar hanno trascinato Petro e tutto il Pacto Histórico a dichiarare di non cadere nella trappola uribista della violenza nelle manifestazioni chiedendo di non scendere in piazza, ma la vera trappola di chi difende il sistema è quella di chi dice che la radicalità non è necessaria per ottenere i diritti o per arrivare a cambiamenti profondi nella società. E nonostante ciò che dice Boric, gli studenti cileni, lo hanno dimostrato ampiamente tre anni fa e lo stanno dimostrando ancora oggi. 

L’impressione è che i limiti del progressismo latinoamericano più che strutturali siano di volontà, di scelta politica, di comodo. Perché è ormai evidente che l’opzione moderata può essere favorevole a chi sta in basso nel breve periodo, ma nel medio-lungo periodo va a peggiorare le condizioni di sfruttamento, di miseria, di violenza. Per chi vorrà ancora provare a cambiare il mondo conquistando il potere capitalista, la vera sfida è come riuscire a rovesciare i ruoli e costringere le opzioni elettorali progressiste a difendere le istanze provenienti dalla base costi quel che costi, senza tentennamenti e senza tradimenti. Un cammino lungo e irto di difficoltà perché non solo ci sarà da lottare contro il nemico capitalista ma anche contro chi pensa di poter domare l’idra senza l’appoggio del popolo.