Il femminismo nella rivoluzione algerina

L'intervento di Daikha Dridi al Festival di Internazionale di Ferrara

16 / 10 / 2019

Algeria, Sudan, ma anche Iraq, Egitto, Tunisia, Marocco: una nuova ondata di proteste e mobilitazioni sta scuotendo il mondo arabo-musulmano. Ci troviamo di fronte a una nuova “Primavera araba”? Probabilmente è presto per dirlo, ma di sicuro c’è un fermento comune che si sta insediando in queste società, probabilmente come risposta ai processi controrivoluzionari che hanno avuto la meglio quasi ovunque in seguito agli eventi del 2011.

Su questo e altri temi è intervenuta la giornalista algerina Daikha Dridi al dibattito “Le armi della non violenza”, tenutosi durante “Internazionale a Ferrara”, che ha visto confrontarsi, oltre a lei, anche il vignettista sudane se Khalid Albaih eal reporter della BBC di origini marocchine Issandr El Amrani. Al di là del di un titolo del dibattito di certo assolutizzante, sono emersi elementi di estremo interesse che ci aiutano a comprendere l’origine e la possibile direzione di queste nuove ondate di rivolta, in particolare negli interventi di Daikha.

La giornalista ha raccontato quanto sta accadendo in Algeria partendo da una prospettiva di genere, che intreccia il vissuto personale con forme di emancipazione collettiva che si stanno affermando nel Paese. La scelta di tornare nel suo Paese d’origine, dopo anni di giornalismo condotti negli Stati Uniti, è coincisa con l’elezione di Trump, uno dei simboli mondiali del sessismo che diventa potere. Una scelta che ha fatto maturare in Daikha la profonda convinzione che non possano esserci, in nessun Paese del mondo, lotte democratiche e sociali che non contengano l’emancipazione femminile.

Il suo racconto della rivoluzione algerina parte da questa prospettiva, che l’ha condotta in piazza nelle prime mobilitazioni di febbraio. Una piazza convocata quasi in sordina, passata tramite i social, che ha visto radunarsi decine di migliaia di persone. Le mobilitazioni sono proseguite per settimane – ogni martedì e venerdì: una ripetitività quasi ossessiva che non è mai scaduta nel ritualismo, ma che ha consentito alla rivolta di aumentare di intensità ed efficacia nel tempo. A inizio aprile Abdelaziz Bouteflika si è dimesso, dopo 20 anni di guida del Paese, ed è stato costretto a non ricandidarsi più: una vittoria popolare ottenuta per lo più in maniera pacifica.

Nonostante le dimissioni di Bouteflika la mobilitazione sta continuando, con la stessa cadenza e intensità e non è detto che si fermeranno dopo il 15 dicembre, giorno in cui sono previste le elezioni presidenziali. Nelle ultime settimane il livello repressivo è aumentato e la componente militare, che nella prima fase ha appoggiato le proteste, sta assumendo maggiore protagonismo.

Ma il fermento è ancora molto vivo e le persone non si sentono scoraggiate. A dire di Daikha l’Algeria si sta liberando di un duplice tappo: da un lato quello di un dittatore, diventato negli ultimi anni sempre più insopportabile, dall’altro di una paura che attanagliava la popolazione ormai da tanti anni. La storia algerina si è sempre contraddistinta per cambi di fase violenti e traumatici, a partire dalla guerra di liberazione combattuta contro la Francia fino ad arrivare ai 13 anni di guerra civile iniziati nel 1991 Eventi che hanno traumatizzato la popolazione e che, ad esempio, hanno messo l’Algeria ai margini delle Primavere arabe.

Proprio in virtù di questo trauma prolungato, nessuno si aspettava l’esplosione di questo movimento che, secondo Daika, ha dato agli algerini e alle algerine soprattutto la forza di guardare dentro sé stessi. Da quando sono iniziate le rivolte, le persone non prendono più le barche per migrare in Europa, anzi stiamo assistendo a una sorta di esodo al contrario, come accaduto nel 2011 in tanti Paesi del mondo arabo.

Una delle caratteristiche di questo movimento è lo spazio che sta conquistando la componente femminile, di tutte le età. Si tratta di qualcosa di inedito nel contesto algerino, e non solo. La parità dei diritti si è imposta come claim delle proteste, anche se non è stato un passaggio scontato.

Durante le prime settimane di protesta, le donne che portavano in piazza i temi dell’uguaglianza di genere sono state apertamente osteggiate, anche da parte di gruppi cosiddetti “progressisti”: «prima abbattiamo il regime, poi parleremo dei diritti delle donne», racconta Daika.

Molte donne, soprattutto giovani, non si sono tirate indietro e hanno iniziato a scendere in piazza con cartelli femministi, ponendo la questione della parità come elemento strategico delle proteste. Nel corso delle settimane, le femministe hanno conquistato la scena, riuscendo a ottenere che la parità di genere diventasse patrimonio generale e non specifico di singoli gruppi. Una vittoria nella vittoria, per un futuro che è ancora tutto da scrivere.