Il “paradiso puzza di sangue”

30 / 3 / 2021

Victoria Esperanza Salazar era una migrante salvadoregna e da tre anni viveva assieme alle due figlie a Tulum, paradiso caraibico nello stato di Quintana Roo, Messico. Originaria di Sonsonate, cittadina di media grandezza del nord di El Salvador, era una delle tante donne che avevano deciso di conquistarsi il diritto alla felicità mettendosi in viaggio. Non si conosce ancora bene la sua storia, quel che è certo è che ha vissuto sulla propria pelle tutto il peso di essere donna e migrante, in un paese dove queste due “categorie” sono costantemente in pericolo.

Sabato scorso Victoria è stata fermata da una pattuglia della Policía Municipal alla periferia di Tulum. Testimoni raccontano che era ubriaca, altri che stava disturbando il traffico. Qualche solerte difensore della quiete cittadina chiama allora la polizia, forse disturbato da tanto fastidioso chiasso. La pattuglia arriva presto, scendono quattro agenti, tre uomini e una donna, e la fermano. Victoria forse è alterata e forse protesta per i modi poco gentili degli agenti, ma non è importante. In un lampo si ritrova sdraiata a terra, pancia in giù e mani dietro la schiena. Scattano le manette, immediatamente, ma non basta, è troppo “pericolosa”: la poliziotta gli mette anche il ginocchio sul collo, e comincia a premere verso il basso. A questo punto Victoria probabilmente ha paura, di storie di abusi ne ha viste e sentite molte, sa che per il solo fatto di essere donna e migrante è considerata pericolosa. La paura cresce, da togliergli il fiato. Grida che non riesce a respirare, rantola e in un attimo perde conoscenza senza che nessuno dei quattro agenti sia mosso a compassione, abbia un piccolo sussulto di umanità e decida di porre fine a quell’assurdo e inaccettabile abuso di potere.

Victoria è sola nelle mani dei suoi aguzzini ma forse potrebbe ancora farcela, se solo provassero a rianimarla, se solo chiamassero i soccorsi. Ma non succede, la guardano mentre esala l’ultimo respiro, la guardano come fosse una pesante seccatura di una comune e noiosa giornata di pandemia. Rottura delle prime due vertebre della colonna, dirà l’autopsia. Come niente fosse, una volta terminata l’esecuzione extragiudiziale, i quattro agenti caricano la sfortunata Victoria nel pick up e se ne vanno, portandosi via un’altra vita, come è successo tante, troppe volte, in Messico e nel mondo.

La scena è ripresa da più parti e subito diventa virale. Non c’è scampo, le immagini non lasciano dubbi e scatenano l’indignazione. In poche ore oltre un centinaio di attiviste della Red Feminista Quintanarroense si ritrova davanti alla caserma della Policía Municipal per protestare. Urlano di indignazione, lanciano sassi e rompono qualche vetrina, ancora una volta sono costrette a piangere una sorella e ad assumersi il peso della richiesta di giustizia. Come accaduto pochi mesi fa per Alexis, sempre qui a Tulum, “paradiso che puzza di sangue”. Anche per Victoria torneranno di nuovo in strada, “Victoria escucha, esta es tu lucha” grideranno nei giorni seguenti davanti al Palacio Municipal, pronte a tutto pur di farsi ascoltare, pur di far capire che il problema non solo le ‘mele narce” ma è un problema strutturale e si chiama patriarcato.

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Dagli ambienti istituzionali la condanna è unanime. Lo “strumento di dio” Nayib Bukele, presidente di El Salvador, promette sostegno incondizionato ai familiari ed esige che il Messico faccia giustizia. Qui il presidente López Obrador dichiara di vergognarsi e promette che non ci sarà impunità. Sulla stessa lunghezza d’onda anche il presidente municipale di Tulum Victor Mas Tah. Tutti si vergognano, tutti promettono giustizia, nessuno che ha agito preventivamente perché questo ennesimo abuso non avvenisse.

Lunedì, dopo l’autopsia della sfortunata Victoria “cadono teste”: i quattro poliziotti coinvolti, subito sospesi, sono rinviati a giudizio e accusati di femminicidio. Cade pure il capo della polizia di Tulum destituito dall’autorità locale. Sembrano tutti scioccati dal crimine, tutti inflessibili nel chiedere giustizia: «si applicherà tutto il rigore della legge perché il delitto non rimanga impunito e per ottenere giustizia», promettono i giudici del Quintana Roo che seguono il caso.

La giustizia, forse, questa volta arriverà. E sarebbe una novità in un paese assuefatto all’impunità. Ma il peso di essere donna e migrante non volerà via assieme a Victoria: il suo caso infatti ha rimesso sotto i riflettori dell’opinione pubblica il dramma della violenza che quotidianamente subiscono le donne e i migranti. Il Messico è quel paese dove ogni giorno vengono uccise dieci donne: nel 2020, 3723 donne sono state uccise con violenza, di queste 940 classificate come femminicidio dalla legge. Nel solo mese di gennaio del corrente anno sono già 307 gli omicidi di donne di cui 67 classificati come femminicidi. Dati drammatici e tuttavia parziali, non comprendendo, per esempio, le numerose vittime di sparizione forzata.

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Essere migrante non migliora di certo il proprio status in Messico: gli accordi imposti da Trump a López Obrador sono sostanzialmente stati riconfermati dal nuovo inquilino della Casa Bianca, riconoscendo al Messico il ruolo di gendarme cattivo dell’Impero. La differenza tra i due presidenti yankee “c’è e si vede”: se Trump minacciava ripercussioni economiche pesanti qualora il Messico non avesse fermato l’esodo centro americano verso la sua frontiera, con Biden, López Obrador è riuscito quanto meno a barattare le politiche anti migranti con l’invio di due milioni e mezzo di dosi di vaccino delle riserve statunitensi. La militarizzazione della frontiera sud, la repressione delle carovane migranti dei mesi scorsi, la deportazione, la detenzione e la criminalizzazione dei migranti sono le altre facce della risposta istituzionale al problema migratorio che la pandemia ha addirittura aumentato invece di contrarre: fino al 25 marzo, infatti, sono stati detenuti 34993 migranti irregolari, con un aumento annuale del 28%.

La violenza in Messico è strutturale ed è responsabilità non solo dei gruppi criminali ma anche delle forze armate, come dimostra il caso di Victoria. Forze armate che godono di appoggio politico anche da parte di López Obrador, il cui ultimo “regalo” è stato consegnare il mal chiamato Tren Maya proprio nelle mani dell’esercito. Ecco perché la vergogna di López Obrador di fronte al vigliacco assassinio di Victoria fa solo salire la rabbia: finché i fatti non saranno conseguenti alle parole il destino delle molte Victoria rimarrà in pericolo.

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Ora Victoria non c’è più. Restano il dolore di due bambine rimaste orfane a cui hanno rubato quel poco di felicità che la vita le aveva donato; resta la rabbia delle donne, costrette a piangere “una más” e a prendersi cura reciprocamente perché “no me cuida la policía”; resta poi il “muro” di López Obrador, a difesa del Palacio Nacional e di uno Stato che uccide e non ha nessuna intenzione di smettere.