Il peggior crimine di Trump non può essere dimenticato

9 / 12 / 2020

In seguito alla vittoria di Joe Biden nelle ultime elezioni Usa, Patrick Cockburn, attraverso una testimonianza diretta da Afrin, mette nero su bianco quanto sta succedendo nel Nord Siria occupato dalla Turchia e dai miliziani jihadisti. In un raro esempio di accusa all’operato di Turchia e Usa in Siria, la speranza è che con il cambio di amministrazione negli Stati Uniti ci sia anche la possibilità di un cambio di linea nei confronti della Turchia. Traduzione Marco Sandi.

É senza dubbio il peggior crimine commesso da Donald Trump nei suoi anni di presidenza alla Casa Bianca. Egli, nell’ottobre 2019, ordinò alle truppe Usa di ritirarsi dalla Siria del Nord, di fatto dando il via libera all’invasione da parte della Turchia di quel pezzo di Siria, e rendendosi co-responsabile dell’assassinio, dello stupro e dell’espulsione di migliaia di curdi, che abitavano quella regione.

E 18 mesi prima, Trump non aveva fatto nulla quando l’esercito turco occupò l’enclave curda di Afrin e rimpiazzò la sua popolazione con jihadisti arabi siriani.

É, sfortunatamente, improbabile che Trump subirà mai un processo per queste sue decisioni, ma se mai dovesse farlo, la sua complicità nella pulizia etnica dei curdi siriani dovrebbe essere la prima nella lista delle accuse. Quella decisione fu di per se un atto diabolico ma fu anche un tradimento di un alleato affidabile come le Forze Democratiche Siriane che stavano chiudendo il cerchio contro il nemico comune Isis giusto quando venne invasa Afrin.

Il tradimento di Trump allora provocò troppo poca indignazione a livello internazionale, ma certamente quel gesto fu causa diretta di omicidi, rapimenti, sparizioni ed espulsioni di centinaia di migliaia di persone dalle loro terre.

Tragedie di questa scala si offuscano rapidamente nella mente delle persone perché non comprendono le atrocità che vanno al di fuori della propria esperienza personale e che possono devastare la vita di così tanti individui. I perpetratori di questa violenza estrema e i loro facilitatori, come Trump, cercano da sempre di confondere le acque con negazioni improbabili finché le notizie e i media non spostano l’attenzione su altro e rimangono solo le vittime dei crimini a ricordarli.

Ho scritto molto sulla pulizia etnica subita dai curdi nel Nord-Est della Siria ad opera dei turchi nelle due separate invasioni del 2018 e 2019, ma senza risultati tangibili. Infatti ben presto divenne impossibile per i reporter indipendenti visitare Afrin o le zone occupate intorno alle città di Tal Abyad e Ras al-Ain. Ma finalmente, la settimana scorsa, sono riuscito a contattare via internet una testimone ad Afrin la quale ci consegna una cupa, ma allo stesso avvincente, testimonianza della sua personale esperienza di pulizia etnica.

Il suo nome è Rohilat Hawar, ha 34 anni, è madre di 3 figli e lavorava come insegnante di matematica nella città di Afrin prima dell’attacco turco. Provò a fuggire nel febbraio 2018, perché “c’erano bombardamenti aerei turchi tutti i giorni”, ma le fu rifiutato l’ingresso nei territori controllati dal governo siriano che doveva attraversare per raggiungere le altre aree sotto il controllo dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord.

Tornò quindi ad Afrin dove la sua casa era stata già saccheggiata e dove ora si trovava intrappolata. Rohilat riporta che le bande degli jihadisti sostenute dalla Turchia sparano a chiunque provi a lasciare la città: “Una mia amica è stata uccisa insieme alla figlia di 10 anni mentre tentava la fuga”. Allo stesso tempo, i miliziani rendono impossibile la vita ai curdi rimasti.

Essendo una dei pochi curdi rimasti nel suo vecchio quartiere dove quasi tutte le abitazioni sono state occupate da jihadisti di lingua araba e dalle loro famiglie, Rohilat non osa parlare curdo per strada. Ha scoperto che i militari turchi considerano tutti i curdi dei “terroristi”, ma che i miliziani jihadisti sono ancora più pericolosi perché pensano che i “curdi siano pagani miscredenti che dovrebbero essere uccisi in nome di Dio”.

Rohilat non ha avuto altre alternative che indossare un hijab, indumento che solitamente le donne curde non portano, per evitare le continue vessazioni dei suoi vicini jihadisti arrivati da altre parti della Siria. Ha presentato anche un ricorso alle autorità turche ma la risposta è stata, come è possibile immaginare, di rispettare le norme sociali del quartiere e quindi di indossare sempre l’hijab. “I miei figli all’inizio mi prendevano in giro, ma ora si sono abituati.”

I pochi curdi che continuano a sopravvivere ad Afrin sono senza difese e continuamente vessati dai miliziani. Di episodi in cui le donne curde vengono molestate dai jihadisti armati se ne possono raccontare a centinaia.

Nelle due zone curde occupate nel nord della Siria la punta dell’iceberg dell’occupazione è rappresentata da miliziani arabi, i quali sonore la maggior parte jihadisti provenienti da altre parti della Siria. I curdi di Afrin erano per la maggior parte contadini, coltivavano frutta e verdura ma, più di tutto, coltivavano olive. Dalla testimonianza di Rohilat si evince che gli occupanti tagliano sistematicamente gli ulivi per farne legna da ardere, distruggendo così l’economia locale. Il risultato di questa pratica è che la maggior parte dei beni deve essere importato e quindi venduto ad un prezzo maggiore.

Lasciando il controllo del territorio a maggioranza curda ai miliziani jihadisti, il governo turco si assicura così la pulizia etnica della zona senza però risultarne direttamente l’esecutore e, allo stesso tempo, il mandante. Fino a poco tempo fa, i miliziani venivano pagati circo 100 dollari al mese dalla Turchia per le loro attività, ma spesso essi integrano la loro paga con furti e saccheggi nelle proprietà curde mentre l’esercito turco che dovrebbe controllare il territorio spesso chiude un occhio.

Da agosto la paga dei miliziani è stata ridotta e le pattuglie di militari turchi sono più attive nel controllo sui saccheggi e sui furti. Lo scopo di tale livello di controllo dopo anni di occhi chiusi è quello di persuadere i miliziani ad arruolarsi volontariamente per combattere come proxy in Libia oppure contro gli armeni in Nagorno-Karabakh. E molti di essi sono stati uccisi nei combattimenti. Rohilat ha visto con i suoi occhi numerosissime tende tradizionali allestite per il lutto degli uomini caduti sui vari fronti, nonostante i corpi non rientrino per il funerale.

A parte l’insicurezza cronica, Rohilat deve far fronte alla rapida diffusione del  coronavirus ad Afrin. Essa stessa ha contratto il virus, essendo risultata positiva dopo un controllo in una struttura medica turca ma, a causa dell’insicurezza, lei e molte altre persone si rifiutano di farsi curare negli ospedali militari turchi dai quali pochissime persone ritornano vive. Essi rimangono quindi in casa e si curano con paracetamolo e mangiando lenticchie e zuppe di cipolla. Lei stessa non può permettersi l’acquisto di mascherine e altro cibo al di fuori del pane, con i pochi soldi che i figli riescono a racimolare al mercato oppure attraverso piccole somme di denaro inviatele dai parenti in Turchia ogni tot di mesi.

Un cupo futuro pende sulla vita di Rohilat, la quale si considera una sopravvissuta mentre altri curdi sono dovuti scappare, oppure vivono in campi profughi, altri invece sono stati uccisi, alcuni tenuti come ostaggi per il riscatto o alcuni sono semplicemente scomparsi.E la campagna del governo contro i curdi siriani sembra proprio non trovare fine, al contrario il Presidente turco Erdogan continua a minacciare di lanciare una nuova operazione militare che potrebbe terminare con le definitiva pulizia etnica della popolazione curda.

Forse l’unica buona notizia per queste popolazioni può essere la vittoria nelle elezioni Usa di Joe Biden che, in linea teorica, riduce sensibilmente le possibilità di un lasciapassare americano per una nuova operazione turca nel Nord Siria. Quando Trump e la sua velenosa squadra avranno lasciato il potere, sarà doveroso ricordare e non perdonare i responsabili di quelle politiche che in Siria hanno inflitto un’inestimabile miseria su un numero altissimo di persone che prima vivevano delle vite serene.

Patrick Cockburn è un opinionista del quotidiano inglese The Independent. Esperto di Siria, Iraq e Medio Oriente ha per anni scritto reportage sulla situazione siriana, avendo coperto anche l’ascesa di Isis nel 2014. Insieme al compianto Robert Fisk formavano una coppia di penne di eccellenza nell’analisi politica e sociale delle difficili dinamiche medio-orientali.