Il sacrificio nel Medio Oriente

I curdi sono la spina nel fianco dell’accumulazione capitalista e dell’egemonia politica turco-occidentale

7 / 8 / 2015

Abbiamo ampiamente documentato l’esperienza della Rojava e della città resistente di Kobane. La nostra redazione di Global Project si è impegnata attraverso la produzione di editoriali e la corrispondenza dal fronte di molti compagni partiti dall’Italia a descrivere e raccontare, una volta visto con i propri occhi, quel meraviglioso esperimento sociale che è il confederalismo democratico. La capacità di riorganizzare un popolo a partire dal pragmatismo ideologico comunitarista di stampo libertario che ha messo al centro i bisogni delle persone, i diritti delle comunità e le ambizioni collettive, è stata uno degli aspetti più sensazionali ed emotivamente coinvolgenti che ci portiamo a casa dopo l’esperienza delle staffette. Ci si è trovati davanti ad una dimensione coinvolgente, capace di rimettere in discussione vecchie dottrine marxiste votate alla conquista del Palazzo d’Inverno - alla presa del potere - per rigenerarsi, attraverso importanti autocritiche, eretiche ed eterodosse, come prospettive autonomiste, progressiste e democratiche ma allo stesso tempo ancora determinate nella difesa, anche in armi, della società come bene comune. Abbiamo imparato a gioire e a rallegrarci ad ogni metro conquistato al nemico, ma anche a piangere per ogni compagno e ogni compagna che ha perso la vita.

L’esperienza della Rojava ci ha fornito gli strumenti necessari e la giusta chiave di lettura per comprendere un altro fenomeno, antico ma anche moderno: il fondamentalismo religioso.

Lo Stato Islamico ha generato caos e distruzione in un territorio già martoriato da lotte intestine e guerre fratricide e soltanto nella resistenza delle unità di protezione del popolo, vale a dire dell’YPG e dell’YPJ, ha trovato qualche difficoltà.

A Kobane, come a Stalingrado, il fascismo non è passato, anzi, questa città è diventata un simbolo contro ogni forma di fondamentalismo e razzismo. Patrimonio internazionale contro ogni tipo di discriminazione e dispotismo, per una nuova forma di umanità.

Purtroppo questa esperienza è continuamente messa a dura prova da un’escalation di azioni militari, escamotage diplomatici, complotti politici che mirano all’annientamento radicale del confederalismo democratico in Rojava (Siria) e del movimento popolare nel Kurdistan turco. Quello che sta avvenendo in queste ore, i bombardamenti alle postazioni dei guerriglieri del PKK, le persecuzioni e gli arresti dei militanti in Turchia (non solo curdi ma anche turchi socialisti, comunisti e anarchici) ha dell’assurdo e dello sconvolgente se non addirittura dell’incomprensibile. Perché perseguitare l’unico popolo, l’unica realtà esistente, capace di sconfiggere il terrore nero e di contrapporsi alla barbarie sanguinolenta dei torturatori dell’IS?

Obama e la “nuova” strategia geopolitica in Medio Oriente

La situazione medio-orientale non è mai stata facile da comprendere, soprattutto a partire dal periodo post-coloniale, precisamente quando fu pianificata la spartizione di tutta quella vasta area con l'accordo segreto di Sikes-Picot tra Francia e Inghilterra (16 maggio 1916) che divideva i territori che si estendevano tra la Siria e l'Iraq in differenti aree d'influenza. Di fatto le potenze occidentali tracciarono a tavolino dei confini fino ad allora mai esistiti: linee rette in un territorio antropologicamente difficile da sintetizzare.

Una volta definita l'istituzione dei nuovi Stati furono selezionati e spartiti tra i diversi territori despoti, dittatori, presidenti, governatori e sovrani illegittimi particolarmente propensi alla corruzione, imbrogli e inganni, a cui era stata promessa l’invulnerabilità in cambio di qualche concessione. Stiamo parlando ovviamente della possibilità di estrarre e commerciare petrolio, l’oro nero, il cuore pulsante della macchina capitalista occidentale.

A questo punto le regole del gioco sono semplici.

Per le potenze occidentali, guidate dagli interessi economici delle grosse imprese e multinazionali, ogni forma di governo in Medio Oriente poteva essere tollerata a partire non tanto dal grado di fedeltà ai valori democratici, come voleva farci credere Bush ai tempi dell’invasione dell’Iraq, quanto piuttosto attraverso concessioni e liberalizzazioni. Compaiono sulla scena due grandi alleati dell’Occidente, spesso complici e artefici di strategie eticamente discutibili, se non addirittura deplorevoli, seppur tra loro assolutamente lontani e storicamente nemici: Israele e la Turchia.

Due importanti alleati, difficili da trattare, ma essenziali al tatticismo messo in atto dal potere capitalistico. Si può semplificare così: in cambio dell’uso delle basi militari, elargizioni di finanziamenti, alleanze strategiche e giochi diplomatici, inganni e spionaggio, la NATO e gli USA, rappresentanti del potere economico capitalistico, hanno semplicemente chiuso un occhio sugli affari interni dei rispettivi alleati. Ecco allora che il dittatore Saddam Hussein diventa un pericoloso criminale da fermare, mentre in Israele si uccidono bambini innocenti, si bruciano le case, si sequestrano i terreni dei contadini palestinesi, si occupano le moschee e si limitano le libertà essenziali sancite e riconosciute dagli stessi Stati occidentali. Ecco ancora che l’Iran di Khomeini è un luogo pauroso, oscuro, antidemocratico, una minaccia a tutto il mondo, un nemico da temere e da fermare ad ogni costo, mentre, contemporaneamente, si difende l’alleato turco che uccide oppositori politici, attivisti per i diritti umani, militanti democratici e si tende a minimizzare importanti questioni irrisolte come quella dei curdi. Per non parlare del negazionismo verso uno dei più grandi e terribili genocidi che la storia abbia mai conosciuto, quello degli armeni.

Da diverse settimane stiamo assistendo ad avvenimenti inediti che ri-definiscono un nuovo, seppur medesimo nella forma del tatticismo, assetto strategico in Medio Oriente da parte delle forze alleate ad amministrazione democratica. Il progressivo avvicinamento degli Stati Uniti al governo iraniano, nelle concessioni e negli accordi sul nucleare, nell’annullamento graduale dell’embargo e delle sanzioni economiche, si contrappone ad un affievolimento dei rapporti con Israele, grande alleato storico. La progressiva avanzata dello Stato Islamico in Mesopotamia ha imposto un cambio di strategia, una ridefinizione delle alleanze che, però, conserva al suo interno il fiore malato dell’ignavia e dell’infamia tipiche del neo-liberalismo post-coloniale.

I sacrificabili

Il fine giustifica i mezzi dunque, dove il fine si traduce nel mantenimento degli accordi economici, dello status quo che vuole preservare la leadership dell’Occidente sugli affari interni degli Stati-nazione, e i mezzi rimangono l’inganno, la complicità e il complottismo. Nelle stanze dei bottoni si è stretto un nuovo patto tra i poteri forti e gli Stati-nazione, siglato con il sangue del popolo curdo. La promessa strappata alla Turchia, forte di uno dei più grandi eserciti al mondo, di combattere lo Stato Islamico ha il prezzo del sacrificio dei curdi, vero nemico di Erdogan e impedimento storico al progetto nazionalistico della Grande Turchia. Se poi vogliamo indagare a fondo i verbali segreti, possiamo scoprire che il contributo della Turchia alla guerra al califfato islamico consiste semplicemente nella cessazione dell’appoggio che fino a ieri aveva permesso a diverse unità di fondamentalisti di attraversare le linee turche per attaccare alle spalle la città di Kobane. Un appoggio che spesso si è palesato con una vera e propria complicità, se non addirittura con un’alleanza non scritta. Del resto, se non fosse così non si capirebbe come mai Erdogan abbia bombardato soprattutto postazioni del PKK mentre mantiene la pace con molti avamposti dell’IS che distano poche centinaia di metri dal confine turco. È evidente che la posta in gioco è e rimane l’annientamento dell’esperimento del confederalismo democratico e la definitiva eliminazione di ogni tentativo di democratizzazione della società turca; un processo di cui il movimento curdo è uno dei motori più propulsivi.

La soluzione possibile

Dietro il tradimento di Erdogan e la rettifica degli accordi di pace tra il PKK e il governo turco esiste, quindi, la volontà di far ritornare la questione curda indietro di trent’anni, quando, attraverso l’uso della guerriglia e degli attentati dinamitardi, l’allora governo turco era riuscito a criminalizzare il PKK ed inserirlo nella black list delle organizzazioni terroristiche mondiali. Uno degli aspetti più temuti da Erdogan, e dal nazionalismo a lui vicino, è l’intuizione che sta alla base del confederalismo democratico e cioè che, nel pieno rispetto dell’autonomia e quindi della specificità di ogni stato, nazione e popolo, la lotta per l’emancipazione dei curdi debba prendere strade diverse. Cosa vuol dire? Vuol dire che se in Siria la guerra civile ha obbligato i curdi a ricorrere alle unità di protezione del popolo (non all’esercito, ma a cittadini in armi), in Turchia, formalmente una repubblica democratica, il modello dell’agire politico deve essere quello democratico. Dice A. Ocalan: “le curde e i curdi otterranno il loro diritti sociali proprio nel momento in cui diverranno padroni della politica e del diritto in uno stato di diritto. Pertanto, ora più che mai, è primario risolvere con successo la problematica curda con metodi democratici e giuridici (…) Quindi è dovere di tutti quei settori della società che sentono il bisogno di democrazia formulare le loro richieste in un contesto democratico, laddove questo esista, o altrimenti combattere per la democrazia” (Scritti dal carcere II, Il PKK e la questione curda del XXI secolo – Punto Rosso ed. – 2013).

La vera minaccia che rappresenta il modello confederato curdo potrebbe non risiedere soltanto nel progetto dell’alternativa sociale in Siria, quanto piuttosto nella possibilità di un processo lento e inesorabile, di tipo movimentista, capace di rovesciare la leadership autoritaria dell’AKP e di instaurare definitivamente una vera e reale, unica e ambita, democrazia orientale. La lotta al PKK, alla Rojava, al confederalismo democratico, ai diritti delle minoranze religiose e tribali può intendersi come la lotta contro la democrazia, l’uguaglianza e la laicità in tutta la Turchia.

Solo in questa prospettiva si può vedere nell’attentato di Suruç la complicità dei servizi segreti turchi e la volontà di criminalizzare, in mancanza di una vera strategia, un movimento democratico reale e forte che è emerso dopo la vittoria dell’HDP alle ultime elezioni, partendo appunto dall’offensiva contro la frangia più radicale del movimento curdo, l’anello più difficile da difendere in quanto il più esposto a critiche: Il PKK.

Obbligando di fatto la formazione politica combattente curda a dissotterrare l’ascia di guerra, a riprendere la via dello scontro armato, Erdogan mira a riportare la questione curda in un terreno difficile e ambiguo, pieno di ostacoli. Di fronte all’oppressione reazionaria militaresca è difficile immaginare un’alternativa che non si serva della resistenza armata. Ma la difficoltà maggiore sta appunto nel reggere il peso di questo gioco: riuscire a resistere alle persecuzioni fisiche dei fascisti turchi, agli arresti e agli attentati, agli inganni e alle trappole mediatiche (perché è di questo che stiamo parlando) e contemporaneamente rilanciare l’offensiva movimentista, democratica, radicale, cercando di creare consenso, allargare la lotta su più fronti e resistendo all’appiattimento mediatico che vorrebbe far passare tutti i curdi per pericolosi terroristi da sconfiggere e criminali da fermare.

Che fare?

Dall’esperienza della Rojava, dai nostri incontri con i compagni e le compagne curdi, con i e le comandanti dell’YPJ e YPG, dai e dalle combattenti per la libertà, abbiamo imparato l’importanza di perseverare nella lotta, di resistere ad ogni costo, di non smettere mai di sognare e pretendere con sempre più forza un mondo migliore. Il popolo curdo ha il merito di aver usufruito da sempre di uno spazio dell’agire politico ampio e diffuso, capace di andare oltre i confini regionali o nazionali e capace soprattutto di parlare al mondo utilizzando un linguaggio sincero, semplice e comprensibile.

Ocalan ha definito un progetto, degli uomini e delle donne libere l’hanno messo in pratica, l’hanno realizzato e hanno avuto il merito di farlo conoscere a tutti. Adesso spetta a noi, in Italia e nel mondo, capire cosa è possibile riportare a casa dalla Rojava, se provare a riproporre nei nostri territori le pratiche attraverso cui i curdi sono riusciti a Confederare le lotte territoriali nel pieno rispetto dell’autonomia, della libertà e delle particolarità di ogni situazione, e così tentare di esperire questo valore del dialogo e l’ambizione, alta e nobile, di cambiare veramente la realtà.

D'altronde non possiamo neanche ignorare che l’Italia è uno dei membri di quell’organizzazione denominata NATO che ha benedetto i raid contro il PKK. Non possiamo permettere di essere complici di questo massacro, di tale imbarbarimento senza scrupoli. Ci preme quindi ribadire che Erdogan è un assassino e la NATO e gli USA hanno le mani sporche di sangue. L’Italia ha la coscienza sporca ed il governo Renzi deve rispondere di complicità al fascio-islamismo turco.

La nostra Rojava ha tanti nomi, si chiama Europa, Italia, Veneto, Campania, Emilia-Romagna ecc. Il nostro nemico ha tante facce ma ormai abbiamo imparato a riconoscerlo ovunque. La nostra soluzione è il dialogo tra realtà di movimento, l’organizzazione delle lotte, la mobilitazione, la democrazia diretta e partecipata.

Ci aspetta un autunno intenso e pieno di appuntamenti, mobilitazioni cittadine, territoriali, nazionali ed eventi internazionali. Affronteremo tutte queste battaglie con la Rojava nel cuore, lottando per un confederalismo democratico dei territori in lotta e progettando la nostra rivoluzione.

La Rojava è Ovunque!