In Bolivia il rientro per “ragioni umanitarie” è un privilegio per pochi

16 / 4 / 2020

L’emergenza mondiale per il coronavirus che ha paralizzato il mondo intero ha costretto milioni di persone che sono stati sorpresi al di fuori del proprio paese di origine, a cercare di far ritorno alle proprie case. In Bolivia, la possibilità di rientrare nel proprio paese, è un privilegio per pochi e non un diritto per tutti. La settimana scorsa infatti, il “governo de facto” presieduto da Jeanine Añez mentre dava il consenso al rientro via aerea di una cinquantina di compatrioti da Santiago del Cile, dall’altra parte bloccava le vie d’accesso terrestri a altri 200 boliviani che stavano provando a rientrare da Colchane, piccolo valico di frontiera sulle Ande.

Era il 7 aprile quando il gruppo è arrivato alla frontiera con mezzi di fortuna o anche a piedi dato che anche i trasporti sono bloccati. Al valico hanno trovato ad accogliergli l’esercito che gli ha impedito il passaggio. Le trattative non hanno portato a niente, nonostante tutti i presenti si fossero dichiarati disposti a mettersi in isolamento una volta tornati alle proprie case. Ci sono stati anche momenti di tensione con l’esercito, a causa del tentativo di forzare lo sbarramento, che hanno causato tre feriti lievi tra i migranti. Nonostante il gruppo fosse composto in prevalenza da bambini, anziani e anche donne in gravidanza, le autorità boliviane hanno deciso di mantenere la linea dura, dichiarando che le frontiere sarebbero rimaste chiuse e annunciando denunce per chi aveva provato a passare forzando il blocco dei militari. A fronte di questa linea, il gruppo è stato costretto a rimanere a Colchane, improvvisando alloggi di fortuna.

Anche il sindaco cileno di Colchane, Javier García Choque, vista la situazione, ha cercato di mediare con le autorità boliviane ma il suo intervento non ha ottenuto il tanto sospirato passaggio della frontiera per il gruppo. Così lo stesso sindaco ha deciso di attivarsi in prima persona: con le ridotte risorse a disposizione, ha organizzato un campo provvisorio per i migranti boliviani e nel frattempo ha continuato a lanciare messaggi alla presidente Añez per aprire la frontiera per ragioni umanitarie. Dall’altra parte della frontiera invece sono partite soltanto le accuse del governo de facto, secondo cui il gruppo sarebbe composto da membri del MAS che vorrebbero rientrare nel paese per “sovvertire la quarantena”. Il ministro della giustizia boliviano, Alvaro Coimbra si è spinto addirittura oltre, accusando anche il sindaco cileno di Colchane, Javier García Choque, di essere del MAS salvo poi scusarsi per la “gaffe”.

Militanti o meno del MAS, i migranti boliviani che hanno deciso di rientrare in patria via terra di sicuro non hanno le possibilità economiche di prendere un aereo da Santiago del Cile. Intervistati, molti raccontano di essere andati in Cile a lavorare come stagionali ma con la chiusura di moltissime attività decretata anche in quel paese, si sono ritrovati senza lavoro e di conseguenza senza soldi per pagare l’affitto o comprare il cibo. Per questo motivo la decisione di intraprendere il viaggio di ritorno verso casa, con la speranza di poter passare per poter affrontare l’emergenza vicini alle proprie famiglie.

Con il passare dei giorni, ai primi duecento arrivati se ne  sono aggiunti altri e il gruppo alla fine arriva ad essere composto da oltre 800 persone. La capacità di ospitalità di Colchane, un piccolo “pueblito” aymara in cui scarseggiano l’energia elettrica e le infrastrutture per ospitare gli oltre 800 migranti boliviani, è insufficiente, non solo per la sua grandezza ma anche per le condizioni ambientali. Colchane infatti è situata nella regione di Tarapacá, sulla strada che collega la città cilena di Iquique alla città boliviana di Oruro. Siamo nel mezzo delle Ande, altezza 3650 metri sul livello del medio mare. A questa altitudine le temperature, soprattutto quelle notturne sono vicine allo zero, a volte anche qualche grado sotto. Senza possibilità di un alloggio decente e costretti quindi a resistere in campi improvvisati, il gruppo chiede ripetutamente a gran voce la possibilità di rientrare in patria per ragioni umanitarie. 

Intervengono anche l’Instituto Nacional de Derechos Humanos cileno e un delegato dell’ONU per verificare le denunce delle eventuali violazioni dei diritti umani subite dal gruppo dei boliviani, impossibilitati dal proprio governo a ritornare nelle proprie case. Dopo quasi una settimana di blocco, il sindaco di Colchane si è rivolto al suo collega di Iquique, il quale ha accettato di accogliere e ospitare il gruppo di oltre 800 persone in una struttura scolastica della città in attesa che il governo boliviano sblocchi le frontiere e permetta anche a loro di rientrare in patria. 

La vicenda ha creato una grande polemica sia in Cile sia soprattutto in Bolivia. Già a fine marzo un primo gruppo di circa 300 boliviani era stato bloccato con la stessa scusa alla frontiera e solo dopo alcuni giorni di trattativa era riuscito ad entrare, obbligato però a fermarsi nel primo villaggio al di là della frontiera, Pisiga, per la quarantena. Questo gruppo invece, si è scontrato col crescente razzismo e classismo del governo della Añez che gli ha negato il diritto al ritorno mentre dall’altra parte ha garantito il rientro assistito a 50 boliviani della classe media arrivati in aereo da Santiago e alloggiati in un hotel a 5 stelle per la quarantena obbligatoria. 

Una dimostrazione questa di come il virus non sia affatto “democratico” come in molti sostengono. Da qualsiasi punto o latitudine si guardi, questa emergenza sta mettendo in evidenza l’ampliarsi delle ingiustizie sociali e delle disuguaglianze: dall’accesso alle cure sanitarie, al rimpatrio assistito, al restare a casa “senza pensieri”, vivere in quarantena si sta dimostrando poco più di “una seccatura” per pochi e una difficilissima prova di sopravvivenza per molti. A rimetterci sempre i più poveri, i migranti, gli esclusi, gli emarginati.