La corsa alla Casa Bianca dopo il "Super Tuesday"

9 / 3 / 2020

In quanto campo del possibile e non del certo, la politica segue da sempre le regole dell’imprevisto. Sondaggi e inchieste, dunque, hanno da sempre fatto i conti con un margine di errore più o meno ampio. Nell’era dei social e della comunicazione politica istantanea, sembrava che la raccolta di dati, affinata dal rilevamento delle parole-chiave circolanti in rete e dalle emozioni a esse associate, potesse consegnare una fotografia ad alta qualità degli umori politici con soltanto qualche piccolo pixel poco sgranato. Di qui, facendo proprio un modello matematico di deduzione causa-effetto, le previsioni elettorali si approssimerebbero quanto più alla realtà, cioè all’effettivo risultato delle votazioni prese in esame.

Questo preambolo include già un “ma”, che potrebbe benissimo introdurre un’argomentazione contraria a questo assunto della politologia e della statistica sociologica in linea generale. Non avendo né modo né le competenze specialistiche per farlo, è bene limitarci al caso che ci è più vicino: lo sviluppo delle primarie democratiche fino al Super Tuesday (3 marzo). Quello che dai giornali statunitensi e dagli utenti social è stato definito il “Joementum” – l’impeto di Joe (Biden) – ha effettivamente messo in scacco molte delle anticipazioni che davano in testa il senatore del Vermont Bernie Sanders, appassionato socialista di 78 anni, da decenni impegnato nelle istituzioni per favorire i diritti sociali e l’eguaglianza, e in dialogo con alcuni movimenti degli Stati Uniti. Biden, ex vice-presidente di Obama dalle posizioni molte moderate, in questo momento detiene il maggior numero di delegati che andranno a eleggere il futuro sfidante dei repubblicani – i quali, da parte loro, quasi sicuramente eleggeranno Donald Trump per un secondo mandato. Parliamoci chiaro: chi scrive non sta adottando la stessa logica delle previsioni elettorali, questa volta usata per suffragare la tesi opposta secondo cui, al di là delle simpatie politiche personali, sarà Biden a essere nominato per le presidenziali. Gli imprevisti, e la particolarità di ogni Stato in cui devono ancora avvenire le primarie, aprono il futuro a deviazioni interessanti che potrebbero giovare alla candidatura di Sanders, considerando che in alcuni Stati centrali per le primarie si devono ancora svolgere le votazioni.

Ciò detto, cosa è successo durante il Super Tuesday? In quel giorno più di 13 milioni di americani si sono recati alle urne per esprimere la loro preferenza rispetto al/alla candidato/a che, secondo loro, meglio incarnasse i valori democratici, la miglior soluzione ai problemi della società statunitense e l’avversario con più possibilità di vittoria contro Trump. Dopo le defezioni di Pete Buttigieg e di Amy Klobuchar, entrambi usciti dalla competizione in sostegno di Biden, gli sfidanti in lizza per un totale di 14 Stati sono stati Elizabeth Warren, Michael Bloomberg e Tulsi Gabbard. A conteggio finito, Sanders si aggiudica il primato in California, Utah, Vermont e Colorado, andando a irrobustire i risultati strappati in Iowa e New Hampshire delle scorse settimane. Biden, invece, conferma il trend iniziato con la vittoria in South Carolina qualche giorno prima scalando la classifica in Texas, Massachusetts, Arkansas, Minnesota, Tennessee, Oklahoma, Alabama, North Carolina, Virginia. Il Super Tuesday ha così ridotto le primarie democratiche a una sfida tra due uomini (bianchi e ultrasettantenni), con l’unica novità dell’impeto di Biden in sostituzione dell’inizio rampante di “Mayor Pete”, il moderato che ha registrato ottimi consensi in Iowa e New Hampshire catalizzando i voti delle aree rurali e suburbane. L’ammontare dei delegati accumulati da Biden e Sanders è rispettivamente di 627 e 551; oltre a questi, si contano i due dell’ultima candidata rimasta Gabbard.  

Nelle ore successive al calcolo dei voti, molti candidati e candidate si sono ritirati dalla corsa in nome del comune obiettivo di sconfiggere il Tycoon: così hanno deciso il multimiliardario Bloomberg e, in seconda battuta, la senatrice Warren. Bloomberg, dopo aver speso un’esorbitante cifra in pubblicità e cartelloni elettorali in molti Stati (la sua onnipresenza mediatica è costata più di 400 milioni di dollari, spesa irrisoria se confrontata con il valore del suo patrimonio), ha scelto di ritirarsi e di appoggiare Biden, forte della sua unica vittoria nel territorio delle Samoa americane. Inoltre, l’ex sindaco repubblicano di New York, trasmigrato ora all’ala democratica nonostante un passato condito di battute razziste e sessiste, ha fatto sapere di aver distribuito la sua squadra di pubblicitari, spin doctors e operatori di campagne politiche nei cosiddetti swing states, ovvero quegli Stati decisivi per le presidenziali in cui storicamente democratici e repubblicani si contendono l’egemonia elettorale, per porli al servizio del futuro sfidante democratico del prossimo novembre (leggasi Biden). Warren, dal canto suo, giovedì (5 marzo) ha comunicato che avrebbe rinunciato alla competizione dopo i pessimi, anche se non del tutto irrisori, risultati. Una decisione, questa, che apre a nuove possibilità per il campo progressista, in quanto da novembre scorso la senatrice ha unito attorno alla sua figura le coscienze che si collocano tra l’area progressista e quella moderata dell’elettorato democratico, sottraendo di fatto un terreno di consenso al collega Sanders. Basti pensare che, come giustamente hanno notato gli elettori di Sanders, in almeno tre Stati (Maine, Massachusetts, Minnesota) la somma dei consensi dei due senatori avrebbe portato un unico candidato progressista a primeggiare su Biden. È altrettanto vero, però, che la base di Warren è composta da una buona fetta di moderati che potrebbe vedere nell’ex vice-presidente il proprio punto di riferimento. D’altronde, la stessa scelta di Warren di non appoggiare nessuno pubblicamente, se da un lato nasconde una probabile trattativa in corso rispetto al suo ruolo in un eventuale governo democratico, dall’altro rispecchia la consapevolezza dell’eterogeneità del proprio capitale politico.

Vista che il divario tra Biden e Sanders in termini di delegati non è ampio, molti analisti parlano già di una verosimile “contested convention” – l’ultima risale al 1952 – nella città di Milwaukee (Ohio), quando a luglio i delegati dovranno eleggere il candidato per le presidenziali. Se nessuno tra Biden e Sanders dovesse ottenere la maggioranza alla prima votazione, la quale obbliga i delegati a votare il candidato per cui sono stati eletti durante le primarie, nella seconda si passerebbe ad un voto sulla coscienza, cioè ad un vero e proprio “mercato delle vacche”. Tuttavia, anche in questo caso è troppo presto per suggerire previsioni politiche, dati gli eventi inattesi che potrebbero verificarsi di qui all’estate.

Spostando di nuovo lo sguardo sull’andamento delle primarie, soffermiamoci sulla differente composizione del bacino degli elettori dei due principali sfidanti. I democratici più moderati e conservatori, che non contestano la natura strutturale delle diseguaglianze sociali e propongono una versione più mitigata del neoliberalismo, propendono per Biden, considerato come una figura in grado di accaparrare consensi anche dai repubblicani moderati. La cartina di tornasole delle posizioni degli elettori può essere data sulla base delle bozze di piano per la riforma della sanità, divenuto, secondo Pew Researcher, il principale tema di interesse delle primarie democratiche. In linea con l’Affordable Care Act (ACA) varato da Obama, Biden non intende garantire a tutti i cittadini e cittadine l’accesso alla sanità pubblica, ma in buona sostanza vuole preservare il mercato delle assicurazioni private estendendo l’indennità per alcuni degli individui a bassissimo reddito negli Stati dove l’ACA non è ancora stato applicato. A livello di età, è possibile stimare che le persone con più di 45 anni tendono a preferire un’opzione moderata, per quanto il voto si sia disperso tra i vari e le varie candidate non progressiste. Interessante è l’apprezzamento della popolazione afroamericana per Biden: il “Joementum” ha avuto il suo avvio sulla spinta del voto nero in South Carolina – ma anche in tutti gli Stati del sud del Super Tuesday – dove l’ex vice presidente ha ottenuto il 60% dei consensi tra tutti gli afroamericani. Considerando la storica compattezza elettorale della popolazione nera negli Stati Uniti, agli occhi di un’elettrice o elettore afroamericano Biden rappresenta la continuità con l’amministrazione Obama, estremamente sostenuta, almeno durante il primo mandato, dagli afrodiscendenti.

Dall’altra parte, Sanders propone un programma radicale che affascina soprattutto i giovani (29-40 anni) e i giovanissimi (18-29 anni), la comunità latinoamericana (nonostante i suoi membri più ricchi in South Carolina e Texas appoggino Biden), la popolazione queer e LGBTQIA+, così come una parte della classe lavoratrice bianca; non sembra, invece, attrarre la maggioranza delle donne democratiche, le quali finora hanno preferito Warren. A Sanders va il merito di aver fatto diventare priorità politica la sanità grazie alla proposta del Medicare for All: accesso universale al sistema sanitario finanziato dallo Stato federale che porterebbe all’eliminazione dei costi aggiuntivi per le visite mediche e ad attaccare i monopoli delle assicurazioni private. Non sorprende che i soggetti più vulnerabili diano il proprio sostegno a Sanders: la maggioranza dei e delle latine, delle persone trans e buona parte della classe lavoratrice bianca, essendo incidentalmente più esposta a salari bassi e disoccupazione, vedono nel senatore del Vermont la doppia possibilità di migliorare le proprie condizioni materiali di vita e di opporsi alla discriminazione sociale dovuta alla loro identità. La vicinanza dei giovani, oltre a essere un’ulteriore prova dell’attitudine generazionale più radicale, può essere spiegata, tra gli altri fattori, dall’importanza che il problema del cambiamento climatico assume per gli elettori democratici, tema secondo a pari merito con l’economia e il lavoro dopo la sanità. I movimenti per la giustizia climatica, infatti, sono composti perlopiù dalle fasce giovani della popolazione.

A colpo d’occhio, sembrerebbe che Sanders riesca a coagulare quei gruppi sociali che non hanno alcuna nostalgia, dato che la maggioranza non l’ha mai vissuta sulla sua pelle, per lo sviluppo capitalista sfrenato, giustificato dall’idea che una naturale attenuazione delle diseguaglianze si darà grazie alla distribuzione differenziale dei prodotti e della ricchezza. In altre parole, questi soggetti provano molta più disillusione che fedeltà nei confronti del neoliberalismo, consapevoli che, per quanto una persona possa dedicare anima e corpo al lavoro, le sue condizioni di partenza continueranno a determinarne il benessere futuro. Gli effetti nefasti del capitalismo, strutturalmente legato al sessismo e al razzismo, sono evidenti a queste nuove sensibilità del campo democratico, per le quali un ritorno a un glorioso passato è un non-senso in quanto tale passato non c’è mai stato. Tuttavia, per Sanders rimane il problema della classe media e medio-alto, composta soprattutto dagli elettori più anziani, e del suo “realismo capitalista”. Per costoro, il neoliberalismo mitigato, cioè un sistema in cui non viene perso del tutto il privilegio dell’uomo bianco lavoratore e eterosessuale, è un’opzione da cui non sono disposti ad allontanarsi facilmente. Di qui la propensione per un Biden, che può contare anche sulla classe lavoratrice nera. Non bisogna dimenticare, inoltre, che nel 2016 a fare la differenza tra Trump e Clinton fu proprio questo pezzo di società statunitense, cosa che rende Biden un candidato su cui convergere per strappare consensi al Tycoon e, allo stesso tempo, difendere il mantra liberale tanto caro alla dirigenza e alle lobby democratiche. Per controbilanciare un simile afflusso di forze sull’alternativa moderata, e superarne il peso numerico, Sanders dovrebbe mobilitare il voto di chi normalmente si astiene, facendo in modo che il suo messaggio tocchi quella parte di cittadinanza sfiduciata che non vede alcun tipo di futuro, se non la perpetuazione della propria subalternità.

L’alternativa tra Sanders e Biden, dunque, corrisponde a una scelta tra un radicale cambiamento e la conservazione con qualche aggiustamento del sistema economico-sociale. Le emozioni e il coinvolgimento di moltissime e moltissimi attivisti e elettori sono particolarmente intensi, soprattutto se consideriamo che Sanders ha raccolto le rivendicazioni di lunga data dei movimenti sociali in cui partecipano tante persone andate alle urne in queste settimane. Non per niente, nei suoi interventi e nei suoi slogan ricorre l’antagonismo di Occupy Wall Street tra l’1% e il 99%, coloro che lucrano sullo sfruttamento altrui e gli/le sfruttati/e. Magari saranno proprio questi ultimi a creare quell’imprevisto contagioso che darà speranza a un futuro senza nostalgie nelle prossime settimane.