C’è chi non vede l’ora di andare in pensione e chi invece farebbe di tutto pur di non farsi da parte. Il presidente yemenita Saleh, in carica dal 1978, evidentemente rientra in questa seconda categoria di persone. Il 3 giugno scorso, in seguito a un’esplosione che aveva colpito il palazzo presidenziale, era stato trasportato d’urgenza a Riyad per essere sottoposto alle cure mediche. Molti avevano sperato che la fuga del presidente ferito potesse rappresentare il primo vero passo verso un miglioramento della situazione del paese, dove le proteste anti-governative si erano rapidamente diffuse a partire dall’inizio del 2011 causando centinaia di morti e migliaia di feriti. Invece no: dopo mesi di convalescenza Saleh è tornato, e ciò non promette niente di buono. Limes ne ha parlato con il professor Fawaz Gerges, direttore del Middle East Centre della London School of Economics e autore di The Rise and Fall of Al-Qaeda: Debunking the Terrorism Narrative.
LIMES: Da mesi in Yemen si protrae una situazione gravissima;
i combattimenti sono all’ordine del giorno. Il ritorno Ali Abdullah
Saleh significa che siamo vicini a una svolta?
GERGES: Sulla
crisi in Yemen non c’è davvero una via d’uscita a breve termine. Sono
rimasto scioccato quando ho saputo che il presidente Saleh era tornato
in patria. E il motivo per cui sono rimasto sconvolto è che Washington e
Riyad gli avevano offerto la possibilità di una via d’uscita dignitosa e
lui avrebbe potuto usare la sua permanenza in Arabia Saudita come una
scusa per non tornare più; invece è tornato. Allora la questione non
riguarda solo il presidente Saleh, ma tutta la sua famiglia, il circolo
interno dei fedelissimi e tutte le loro ossessioni. Credo che Saleh e i
suoi non abbiano capito appieno la gravità della crisi che lo Yemen sta
attraversando. Siamo di fronte a una vera e propria guerra civile, si
combatte in tutto il paese, non stiamo parlando solo di Sana’a. Mi
sembra che la situazione peggiori di ora in ora.
LIMES: Al momento c’è una feroce lotta per il potere
all’interno delle élite del paese, in cui sembra che tutti siano contro
tutti. Il ritorno di Saleh in patria potrebbe portare alla fine dei
combattimenti?
GERGES: Il punto è che ci sono divisioni
multiple all’interno del paese. Per esempio l’esercito è diviso tra i
fedeli agli al Ahmar e e ai Saleh, ma esistono anche divisioni di natura
tribale e ideologica. Al momento la parola chiave per comprendere le
dinamiche del conflitto interno al paese è una sola: frammentazione.
Tutte le istituzioni sono divise al loro interno: polizia, esercito,
tribù... Le prossime settimane e i prossimi mesi saranno estremamente
pericolosi. È facile immaginare che a Sana’a ci sarà un vero e proprio
massacro, in cui ogni strada, ogni angolo della città, si trasformerà in
zona di guerra. Mi ricorda in un certo senso il Libano della guerra
civile, quando a Beirut ogni strada si trasformava improvvisamente in
campo di battaglia. La lotta per il potere in Yemen è intrinsecamente
connessa alla pericolosità della situazione, che facilmente potrebbe
sfuggire fuori controllo.
LIMES: Quindi non ci sono possibilità concrete che le varie parti possano giungere a un accordo a breve?
GERGES:
Non credo. O perlomeno sono molto remote. La situazione è talmente
grave che a partire da questa frammentazione io non mi stupirei di
ritrovarmi di fronte a uno Yemen diviso a metà, con la separazione tra
il Nord - dove da anni è in corso una forte insurrezione tribale - e il
Sud del paese. Non solo: se la violenza dovesse continuare, e per il
momento non c’è nessun elemento che possa far pensare il contrario, mi
aspetto di assistere a un progressivo irrobustimento di al Qaida, che è
sempre più diffusa al sud, in particolare nelle province di Shabwah e
Abyan. Credo che nelle prossime settimane potremmo assistere a forti
azioni di Aqap (al Qaida nella Penisola Arabica, ndr). Spero
tanto di sbagliarmi, aspetto di vedere cosa succederà. Ma non sarei
sorpreso di assistere ad attacchi fortissimi da parte di Aqap.
LIMES: Il 30 settembre un drone Usa ha ucciso due personaggi
legati ad Aqap: Samir Khan e Anwar al Awlaki, entrambi cittadini
statunitensi. Il primo era un editore del magazine in lingua inglese
Inspire, lanciato nel luglio 2010 e dai toni fortemente jihadisti. Il
secondo era un famoso predicatore, figura di riferimento per molti
ragazzi occidentali di seconda generazione. Pare che sia stato lui a
ispirare, tra gli altri: Nidal Hasan, il maggiore dell'esercito
statunitense che nel novembre 2009 ha ucciso tredici suoi commilitoni
nella base texana di Fort Hood; Omar Farouk Abdulmutallab, che il giorno
di Natale 2009 si è imbarcato sul volo Amsterdam-Detroit tentando di
farlo esplodere; la studentessa modello Roshonara Choudhry, che nel
novembre 2010 ha accoltellato Stephen Timms, membro del parlamento
inglese colpevole di aver votato a favore dell’intervento in Iraq. Il
presidente Usa Barack Obama ha definito l’operazione una “pietra miliare
nel nostro impegno per sconfiggere al Qaida”. Eppure, né al Awlaki né
Samir Khan facevano parte del ramo operativo dell’organizzazione
terroristica. Si tratta veramente quindi di “una grande sconfitta per Al
Qaida”?
GERGES: Purtroppo gli americani credono che,
fondamentalmente, la cosa più importante sia vincere in maniera tattica.
Si stanno adoperando per vincere tatticamente in posti come il
Pakistan, l’Afghanistan o lo Yemen, ma così facendo non si rendono conto
che stanno perdendo la battaglia strategica. Al Awlaki non era il capo
operativo di al Qaida ma una guida spirituale e ucciderlo nel modo in
cui l’hanno ucciso darà ad Aqap la possibilità di allearsi con
l’opposizione yemenita, in particolare con gli islamisti. Non credo che
da questa uccisione possa venire nulla di buono, né per gli americani,
né per gli yemeniti. E sono convinto che sotto tanti punti di vista al
Qaida sia davvero l’ultimo dei problemi per gli Usa in Yemen.
Washington
continua a essere ossessionata dalla guerra al terrore, ma non si rende
conto che il futuro dello Yemen è a rischio e che se il paese precipita
in una vera e propria guerra civile ci saranno migliaia di al Awlaki, e
anzi di persone più influenti di lui perché alla fine non è che al
Awlaki avesse un gran seguito in Yemen. La sua audience, come si diceva,
era più che altro composta dalla gioventù disillusa proveniente da
paesi arabi ma abituata a vivere nelle società occidentali. In Yemen
adesso il panorama è estremamente nebuloso, la situazione è pericolosa,
il paese si avvia verso la guerra e il ritorno di Saleh rappresenta una
grave sconfitta per tutte quelle forze che invece auspicano una rapida
uscita da questa situazione di stallo.
LIMES: Eppure in teoria gli interessi strategici di
Washington e Riyad convergono nel desiderio di stabilizzare lo Yemen.
Addirittura agli inizi di giugno girava la voce che dietro all’attentato
a Saleh ci fosse la mano dell’Arabia Saudita, indispettita dal fatto
che il presidente avesse portato al fallimento il negoziato condotto dal
Consiglio di Cooperazione del Golfo. Ma allora perché hanno permesso a
Saleh di tornare?
GERGES: Anch'io pensavo che non avrebbero
mai accettato un ritorno di Saleh. Eppure, i sauditi credono che questo
aiuterà il paese a ritrovare una sua stabilità. Sono più preoccupati
dell’Iran, degli sciiti; dal punto di vista saudita il ritorno del
presidente è una bella occasione per mantenere lo Yemen sotto controllo.
Alla fine si tratta pur sempre di un paese debole, diviso, che non
rappresenta una minaccia reale e il ragionamento è stato più o meno
questo: “se a Saleh va bene, gli Usa si prendono cura di al Qaida e noi
ci prendiamo cura di tutte le divisioni interne al paese”. Non capisco
come sia venuto in mente ai sauditi di far tornare Saleh in Yemen, come
possano considerare questa la soluzione più adatta.
LIMES: E per quanto riguarda gli Usa? Cosa dice Washington?
GERGES:
È quasi ironico il modo in cui gli americani hanno completamente
cambiato il tono con cui si rivolgono allo Yemen. All’inizio volevano
che Saleh si ritirasse, ce lo ricordiamo vero? John Brennan (a capo
dell’antiterrorismo americano, ndr) a luglio si era recato in
ospedale per far visita a Saleh e premere per l’inizio di una fase di
transizione del potere in Yemen. Adesso cosa dicono? “Chiediamo al
presidente Saleh di tenere elezioni il prima possibile”: sembra quindi
che abbiano accettato almeno una delle principali richieste del capo di
Stato yemenita: rimanere in carica al massimo concedendo di tenere le
elezioni. Questo è un cambiamento fondamentale. E so che in molti
penseranno che l’uccisione di al Awlaki è un buon risultato per Saleh,
un modo per sottolineare la sua disponibilità a stare dalla parte degli
Usa nella guerra al terrorismo.
LIMES: Infatti. Esattamente cinque giorni dopo il rientro di
Saleh in Yemen viene ucciso al Awlaki, uno dei “most wanted terrorists”
sulla lista dei servizi Usa. La tempistica di questa uccisione è un po’
sospetta.
GERGES: Nelle ultime settimane Saleh ha dato agli
americani carta bianca. Per quanto riguarda la presenza di membri di al
Qaida in Yemen possono fare quello che vogliono, i droni possono colpire
ovunque, soprattutto nel sud. L'uccisione di al Awlaki è l’ulteriore
riprova che il presidente sta utilizzando la lotta al terrorismo come un
elemento chiave per poter rimanere al potere.