La crisi vista dalla Cina

Recensione del libro di Paolo Do Il tallone del drago. Lavoro cognitivo, capitale globalizzato e conflitti in Cina (ed. Derive Approdi)

9 / 2 / 2011

Il blog di Paolo Do, Il tallone del drago, si è ora trasformato, con densa riscrittura, in un libro per DeriveApprodi dallo stesso titolo e con il sottotitolo Lavoro cognitivo, capitale globalizzato e conflitti in Cina, che ben ne riassume le linee conduttrici. In un contesto che non è quello di un sia pure sterminato Stato-nazione, di uno spazio-tempo liscio e unitario, tanto meno del regno dell’armonia volentieri evocato dai suoi governanti, piuttosto di una dimensione essenzialmente striata ed eterogenea, rimodellata dal potere ma sempre più dalle resistenze e dalle lotte aperte. Se all’inizio tale spazio-tempo discontinuo era il prodotto di un decentramento di stampo federalista, cioè di una mediazione centrale fra centri di potere distribuito e fra leadership partitica e industriale, nonché sul piano economico di disinvolti processi di unbundling, di cui le zone speciali costiere erano i simboli evidenti (pensiamo a Shenzhen, passata dai circa settantamila abitanti del 1970 agli oltre dieci milioni di oggi), se all’inizio giocavano un ruolo trainante le delocalizzazioni delle multinazionali e il trasferimento delle tecniche e dei flussi finanziari, oggi la geografia e gli equilibri interni cinesi sono stati sconvolti e ridefiniti dalle migrazioni interne e dai regimi di lotta che vi si sono innestati, in corrispondenza a una conseguita autonomia tecnologica e finanziaria che nei grattacieli di Shanghai-Pudong ha la sua grafica rappresentazione.

Negli ultimi mesi l’ampiezza delle rivendicazioni in termini di diritti e di salario e il fatto sorprendente che, dopo drammatiche forme di protesta, siano state soddisfatte a un ritmo ignoto nel resto del mondo hanno destato grande impressione, così come in controtendenza a Usa ed Europa sembrano colmarsi le vistosissime lacune tuttora esistenti in termini di garanzie sociali e assistenziali. Ci troviamo forse –si domanda l’autore– di fronte al tentativo di riequilibrare il surplus commerciale che la Cina detiene nei confronti dell’economia USA attraverso l’aumento dei salari?

La risposta punta più a segnalare la paura e fragilità di un paese in cui il livello delle diseguaglianze sociali è cresciuto senza sosta, fino a toccare nel 2010 il coefficiente di Giniallo 0.47%. Certo, la crescita economica cinese tende ad essere sempre più alimentata dal consumo interno anziché dipendere, come oggi, dalle esportazioni, configurando un allargamento del mercato interno, la cui espansione potrebbe essere usata per ridurre il divario tra città e campagna. Ci troveremmo così a scivolare sul filo di un’armonia gestita dalla dittatura del proletariato secondo un’ideologia confuciana –un sogno cinese e di tutti gli autoritarismi benevoli che emergono dalla crisi della democrazia occidentale. La realtà è più complessa.

Innanzi tutto, a parte le diseguaglianze e l’intollerabile ed esplosiva situazione dei lavoratori migranti, la Cina comincia a conoscere, dentro un impetuoso sviluppo industriale, i primi fenomeni di bolla immobiliare e di debito nascosto (i prestiti garantiti dall’edificabilità di terreni ceduti dalle amministrazioni locali alle agenzie di costruzione), a un passo dal destabilizzare la finora tranquillizzante contabilità nazionale. L’enorme incremento del costo delle abitazioni deriva in parte da quelle distorsioni del federalismo fiscale, in parte risponde (strozzandolo) al desiderio dei mingong di trasferirsi stabilmente dalle campagne alle città, spezzando le forme di neo-schiavismo su cui si era edificato il “miracolo” cinese. Il sistema hukou, che fissava i permessi di residenza individuali e familiari, nonché i diritti di cittadinanza come l’accesso alla educazione, salute pubblica e pensione, era uno strumento legale per impedire ai residenti delle campagne di raggiungere le città, controllando la crescita della popolazione urbana tramite l’erogazione locale del welfare state (mille volte i fenomeni di migrazione e urbanesimo clandestino che abbiano conosciuto in Italia ai tempi del boom anni ’50-60), si è allentato sotto la spinta di un’emigrazione illegale, che però ha conseguito il diritto alla mobilità ma non ai benefici dello Stato sociale. D’altra parte, la formazione di un ceto medio urbano mediante parziale legalizzazione di migranti stabilizzati costruisce un argine più avanzato per mantenere un qualche grado di controllo sulla forza lavoro non più contenibile nei termini del primo regime di accumulazione selvaggia. Proprio sulla linea di confine fra città e campagna, fra i contadini e i lavoratori migranti (donde la parola composta mingong) erano iniziate le prime forme di lotta salariale fuori controllo sindacale.

Particolare attenzione, come i lettori di Global hanno letto in anteprima, è dedicata alla dinamica della società della conoscenza: al vertice un dispositivo iperselettivo di eccellenza, dotato addirittura di un proprio ranking globale, il Jiao Tong global index dell’università di Shanghai, mirante a costruire una sorta di zone universitarie speciali intensivamente finanziate dallo stato a scapito di tutte le altre, alla base una rete di istituzioni educative subalterne cui lo Stato comincia ad attingere, nell’attuale rarefazione di manodopera disponibile, per una sorta di «cognitivizzazione dello sfruttamento» in grado di offrire, nel lungo periodo, una forza lavoro non solo abbondante ma assai economica. Il meccanismo degli stages (che da noi si limita all’utilizzo gratuito di giovani nelle strutture educative e mediatico-culturali), in Cina opera direttamente in campo industriale, mediante il ricorso agli stagisti come esercito interno di riserva composto da giovani che hanno appreso la disciplina al college e ora entrano in fabbrica per supplire alla mancanza di forza lavoro nel settore della manifattura. Le istituzioni della formazione si trasformano in agenzie di collocamento, cercando di attrarre in nuovi bacini le impresi cinesi e multinazionali e ridisegnando la geografia delle aree interne più arretrate. Lo xuegong, ovvero un mix tra xuesheng, studenti, e gongren, lavoratori, è però una figura a doppio taglio: professionalmente già formato, ma ricco di aspettative e combattivo, assai meno paziente e disciplinato del contadino. Sono proprio costoro i protagonisti dell’ultima e vincente stagione rivendicativa, che sta rimettendo in discussione la pace sociale e addirittura inducendo alcuni studiosi locali a riscoprire la lotta di classe finora confinata nei manuali di marxismo. La logica, ben nota anche in Europa e in Italia, della dequalificazione, oltre a far toccare con mano i limiti della proiezione utopica del capitalismo cognitivo, produce in un’economia in sviluppo tensioni inedite sul mercato del lavoro e forse un’incipiente politicizzazione ben poco favorevole alla grande He, all’armonia confuciana che il pagliaccio di Arcore scimmiotta con i suoi appelli al partito dell’amore e del fare.

Il libro documenta molto bene le contraddizioni della società cinese ma soprattutto mostra la loro somiglianza a quelle che fendono il mondo occidentale. Al contrario di quanti agitano lo spauracchio dei salari cinesi per comprimere quelli europei, l’autore mostra il livello crescente delle lotte come una minaccia per la pax occidentalis e un modello da seguire per gli oppressi in Occidente. Una ricercatrice cinese osserva che gli stipendi dei ricercatori sono bassi perché i salari operai sono bassi. Non dice nulla questo ai lavoratori, ai ricercatori e agli studenti italiani?

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