La "diplomazia" del drone

Il bombardamento americano di questa notte rischia di gettare il Medio Oriente in un nuovo conflitto regionale perché l’uccisione di Suleimani e al-Muhandis a Baghdad questa notte lascerà conseguenze ben peggiori dei benefici.

3 / 1 / 2020

Il copione è più o meno lo stesso da circa quindici anni: una capitale del Medio Oriente scossa da proteste e violenza, leader politici che faticano ad arginare le folle, leader religiosi che aizzano le folle contro il nemico di sempre; e infine l’ambasciata Usa che viene assaltata da una folla inferocita.

Potrebbe sembrare il racconto dell’assalto da parte degli studenti iraniani dell’ambasciata di Teheran nel 1979, uno dei primi eventi della Rivoluzione guidata dall’Ayattolah Khomeini e invece stiamo parlando di quanto successo nei giorni scorsi nella capitale irachena Baghdad

Solo l’epilogo è diverso. Non ci sono ostaggi da salvare, ma una probabile escalation militare da arginare e fermare. Infatti il seguito alle proteste e all’assalto all’ambasciata americana ha avuto uno strascico ben peggiore del previsto: per ordine diretto del Presidente Trump un drone ha colpito nella notte un convoglio di diversi veicoli all’interno dell’aeroporto internazionale di Baghdad uccidendo due figure di spicco della scena politica mediorientale.

Ai più i nomi di Qassem Suleimani e Abu Mahdi al-Muhandis non diranno niente, ma essi sono stati negli ultimi anni i veri registi di buona parte degli eventi accaduti negli ultimi anni tra Iraq, Iran e Siria. Se il secondo, ovvero al-Muhandis, è saltato agli onori della cronaca solo recentemente - perché al comando della milizia PMU (Forze di Mobilitazione Popolare), attore fondamentale nella lotta all’Isis nelle province centrali dell’Iraq e partner indiretto della coalizione capitanata dagli Usa -, il primo invece merita un capitolo a parte, in quanto burattinaio occulto della politica mediorientale.

Il Generale Suleimani è sostanzialmente stato l’architetto, o uomo-ombra, di qualsiasi operazione militare o operazione sotto copertura iraniana negli ultimi vent’anni, essendo a capo delle Brigate Quds, branca d’élite dei Guardiani della Rivoluzione. Questa forza d’élite nacque nel 1979 con il chiaro obiettivo di colpire i nemici della Rivoluzione Islamica nel mondo e di estendere l’influenza iraniana in tutto il Medio Oriente. I metodi delle Brigate Quds e l’evoluzione delle tattiche seguono a pari passo l’andamento degli eventi negli ultimi vent’anni nella regione: la guerriglia anti-americana in Iraq in seguito alla seconda invasione ne è forse la prova maggiore di forza, senza dimenticare la riorganizzazione, l’addestramento e l’armamento di Hezbollah nel sud del Libano trasformando questa milizia in un vero e proprio esercito capace di spostare gli equilibri nella guerra civile siriana.

Suleimani è stato fondamentale anche nel sostegno al regime di Assad, nella fase più difficile che esso ha attraversato negli anni del conflitto: l’invio di migliaia di combattenti sciiti e di armamenti leggeri e pesanti, con il supporto di istruttori capaci di riorganizzare l’esercito siriano ormai in rotta. Ma è stato anche capace di svoltare l’esito della guerra civile siriana in favore dell’alleato Assad.

Soleimani

Non si può negare che la politica americana verso l’Iran abbia subito una brusca sterzata a destra durante l’amministrazione Trump. Se è vero che con l’accordo sul nucleare voluto da Obama e ratificato, con riserva, dal governo degli Ayattolah aveva gettato le basi per una generale distensione delle relazioni e consegnato un orizzonte non di guerra al Medio Oriente, le scelte di Trump e della sua amministrazione conducono da tutt’altra parte. L’establishment militare americano giustifica l’azione di questa notte come un’azione volta a salvaguardare gli interessi americani nella regione e a proteggere i paesi dell’area da ulteriori attacchi terroristici.

Dall’altra parte l’Iran, per bocca dei suoi ministri e delle sue più alte cariche religiose, non ha mai fatto mancare accuse agli Stati Uniti e Israele, colpevoli di voler cospirare contro la Rivoluzione Islamica e i suoi interessi, dichiarando inoltre che si sarebbero non solo difesi ma che avrebbero protetto i loro interessi ovunque fossero stati minacciati nel mondo, arrivando ad accusare i mandanti dell’attacco di terrorismo internazionale, mettendoli in guardia dalla possibili conseguenze a cui dovranno rispondere.

L’uccisione del Generale Suleimani e di al-Muhandis rappresentano un punto di non ritorno per un paese come l’Iraq scosso da mesi di proteste popolari represse nel sangue dalle forze di polizia, dove le PMU e le fazioni e movimenti politici a loro vicini sono attori fondamentali e capaci di mobilitare anche le parti più estremiste, come hanno fatto per l’assalto all’ambasciata americana di Baghdad. Questa morte avrà altresì cattive conseguenze per l’Iran, in un momento di pesantissime proteste anti-governative, dove verrà a mancare l’uomo forte da spedire all’estero, capace di risollevare governi e cambiare le sorti di conflitti armati e ufficiale di collegamento tra l’élite militare e i gli Ayattolah.

Ma è altrettanto vero che l’attacco di questa notte segna, molto probabilmente, l’inizio di un nuovo conflitto nel Golfo Persico. Non sarà più un conflitto a bassa intensità fatto di sanzioni economiche e ritorsioni, di appoggio ad alleati regionali per destabilizzare gli interessi altrui, non ci sarà più l’utilizzo di forze terze (proxy) per combattere piccole battaglie. A rigor di logica si assisterà ad un escalation militare senza precedenti, che vedrà non solo Stati Uniti e Repubblica Islamica dell’Iran come protagonisti ma che coinvolgerà anche paesi vicini, amici e non, che sentiranno di dover dire la loro in una questione che rischia di deflagrare in un’area già bollente.

Non c’è da sperare nella diplomazia internazionale, muta e sorda, incapace di interporsi con forza nel Medio Oriente, in un contesto dove la pace e le vite umane contano meno di un missile sganciato da un drone.