La faccia di un uomo che uccide. Derek Chauvin riconosciuto colpevole di omicidio

21 / 4 / 2021

Martedì 20 aprile, Derek Chauvin, l'agente che il 25 maggio 2020 ha soffocato a morte George Floyd, è stato dichiarato dalla giuria colpevole di omicidio involontario di secondo grado, di omicidio di terzo grado e di omicidio colposo. Tra otto settimane il giudice che ha presieduto il processo si pronuncerà sulla durata della pena. Nelle stesse ore è giunta notizia dell'ennesimo omicidio di una ragazza afroamericana da parte della polizia: Makiah Bryant, 16 anni, colpita da 4 proiettili sparati dalla polizia in Ohio. Poco più di una settimana fa, sempre in Minnesota, la poliziotta Kim Potter uccideva a colpi di pistola Daunte Wright, ventenne afro-americano.

L'assassino di George Floyd è stato consegnato alla giustizia. La giuria ha riconosciuto all'unanimità la colpevolezza di Derek Chauvin. Dopo il verdetto, Nancy Pelosi – e con lei molte figure della politica americana – hanno dipinto George Floyd come un martire della giustizia razziale; una narrazione edulcorata che cela la necessità di riformare profonde falle strutturali insite nel sistema giuridico degli USA.

Troppo poco, troppo tardi. Di tutt’altro avviso sono infatti le dichiarazioni di movimenti come Black Lives Matter, secondo cui il riconoscimento di colpevolezza di Chauvin per un caso così eclatante sarebbe invece, per la prima volta, una presa di responsabilità da parte delle istituzioni nei confronti delle forze dell’ordine. Non giustizia dunque, ma “accountability”; primo caso di colpevolezza dopo le migliaia di vittime nere innocenti sacrificate nel dimenticatoio del sistema di giustizia statunitense. Perché, per parlare di giustizia, oggi George Floyd dovrebbe essere innanzitutto vivo e dovrebbe essere inammissibile per un poliziotto la possibilità di premere il ginocchio sul collo di un uomo per 9 minuti, con al petto un distintivo e protetto dai propri colleghi.

Per parlare davvero di giustizia, sarebbe necessario sciorinare la lista infinita di omicidi per mano della polizia rimasti senza colpevoli; nomi di vittime urlati ai cortei dalle proteste Black Lives Matter sin dal 2012, con Tryvon Martin, e rimaste inascoltate, addirittura criminalizzate dai media e dalla politica istituzionale.

Mentre giungeva notizia del verdetto, su Twitter diventava virale un nuovo hashtag: #MakiahBryant, il nome di una ragazza di 16 anni colpita da quattro proiettili e uccisa ieri dalla polizia che lei stessa aveva chiamato perché allontanassero alcune ragazze che stavano provando ad aggredirla fuori da casa sua a Columbus, in Ohio. Anche di questo omicidio è stato immediatamente diffuso un video che mostra come tra l'arrivo sul luogo della pattuglia e i colpi di pistola scorrano a malapena una manciata di secondi. Un altro video ritrae invece gli agenti, alcuni minuti dopo, mentre gridano rivolti a un gruppo di persone afroamericane giunte sul luogo "Blue lives matter". Quelle blue lives così drammaticamente messe “a repentaglio” da un gruppo di adolescenti.

Il processo di Floyd non risolve affatto l’annosa questione del razzismo e della violenza ingiustificata da parte delle forze dell’ordine, nonostante si sia concluso con un verdetto unanime di colpevolezza – un esito affatto scontato. La politica securitaria, iper-militarizzata e punitiva che caratterizza i rapporti della polizia con le comunità continua ad essere tratto ricorrente della società americana. La violenza ingiustificata esercitata dalle pattuglie e dai vigilantes nei quartieri ghettizzati è ancora asservita ad una logica di razzializzazione e gerarchizzazione dei corpi non-bianchi. La totale impunità garantita a chi esercita tale violenza omicida rimane pervasiva, ancora troppo poco scalfita, sicuramente non circoscrivibile alla narrazione mediatica di una "mela marcia".

Un anno fa l'uccisione di Floyd ha portato in piazza milioni di persone in tutto il mondo: la rabbia per un omicidio così brutale, gratuito, sotto gli occhi di tuttə, ha esposto per l’ennesima volta la violenza subita dalle comunità afro-americane; una condizione esacerbata dalle conseguenze della crisi pandemica ed economica. La rabbia è esplosa nelle strade di tutti gli Stati Uniti.

Tutto il mondo ha imparato a riconoscere il volto di George Floyd, ha scoperto la sua storia. Le sue ultime parole, "I can't breathe" -le medesime espresse da Eric Garner, altro afro-americano ucciso a sangue freddo nel 2014- sono diventate espressione viva della condizione esistenziale di milioni di afro-americanə e delle comunità razzializzate. Dopo la sua morte, le piazze si sono riempite di una rivendicazione molto chiara, molto semplice, "No justice, no peace": una promessa che è stata mantenuta e che verrà mantenuta fino a quando una riforma strutturale, radicale, del sistema legislativo, giuridico, e socio-economico delle istituzioni statunitensi non giungerà a compimento. L'insistenza della classe politica americana sulla giustizia di questo verdetto sembra cercare di rispondere proprio a quella promessa: ora giustizia è stata fatta, concedeteci la pace.

Nel 2015, Black Lives Matter lanciava la campagna #SayHerName contro le violenze e gli abusi della polizia nei confronti delle donne e delle soggettività queer afro-americane: dite i loro nomi, raccontate le loro storie, restituite dignità a quei corpi neri uccisi dalla polizia. Nasceva dalla necessità di inquadrare il problema in ottica intersezionale e dunque complessiva dello spettro sociale entro cui la violenza viene esercitata, e il modo in cui determinate vite vengono sempre lasciate ai margini, anche nella narrazione della violenza. Questa campagna ha avuto un grosso impatto nell'opinione pubblica, riuscendo soprattutto a concentrare l'attenzione sulle vittime e rovesciare la narrazione sui carnefici.

Di Derek Chauvin ricordiamo tuttə lo sguardo mentre sente George Floyd morire sotto il suo ginocchio, quel fotogramma è stato messo in prima pagina ed è rapidamente diventato il simbolo della violenza poliziesca più becera e gratuita, in quanto tale protetta per secoli dalle istituzioni. Quella è la faccia di un uomo che uccide convinto della propria impunità. È la faccia di un uomo che uccide circondato da colleghi che non intervengono. È la faccia di un uomo che uccide terrorizzando chi intorno prova a fermarlo.

E la faccia di Derek Chauvin ieri non è la faccia di un uomo giudicato colpevole da un sistema giusto ed equo, ma è quella di un uomo incastrato da un video di 9 minuti in alta risoluzione. Se non fosse stato per quel video di 9 minuti e 29 secondi, probabilmente l'omicidio di George Floyd non avrebbe mai avuto tale risonanza, ma sarebbe stato derubricato come le migliaia di altri casi di abusi della polizia contro la popolazione afroamericana e non-bianca. Parimenti, le milioni di persone scese in piazza hanno posto come centrale e improrogabile la necessità di riformare strutturalmente il sistema di giustizia, a partire proprio dal “accountability” degli agenti di polizia nei casi di violenza ingiustificata e di omicidio. La sentenza contro Chauvin si prefigura in questo senso come un primo fondamentale tassello, condizione necessaria ma non sufficiente all’adempimento di una piena giustizia negli USA.