La guerra in Ucraina: dialogo sulla resistenza russa e ucraina

Report del dibattito tenutosi nella facoltà di Scienze Politiche di Padova con Yurii Colombo, Giovanni Savino, Sandro Chignola e Gaia Righetto

3 / 11 / 2022

Lunedì 24 ottobre si è tenuto nell’aula B1 della facoltà di Scienze Politiche l’incontro “La guerra in Ucraina: dialogo sulla resistenza russa e ucraina” con Yurii Colombo, giornalista residente a Mosca ed esperto di società postsovietiche, Giovanni Savino, docente dell’Università di Parma e studioso dell’ideologia “grande russa”, Sandro Chignola, docente dell’Università di Padova ed autore di Euronomade e Gaia Righetto, attivista che ha partecipato alla seconda carovana internazionale di solidarietà verso i lavorat* ucrain*. L’incontro è stato moderato da Anna Baracchi, del Collettivo Universitario Spina di Padova.

Come prima domanda vorrei chiedervi di parlare delle basi storiche dell’ideologia di Putin, quale è la genesi e come si sviluppa oggi, e di illustrare il concetto di Russkij Mir. Collegandomi a ciò volevo chiedere inoltre a Yurii Colombo - visto che nel libro Il fronte della pace, voci russe e ucraine contro l’invasione in un passo si parla delle somiglianze e divergenze con Nikolai I - se prima vuoi approfondire questo aspetto e poi spiegare se e come è possibile questo paragone in un diverso paradigma mondiale.

Yurii Colombo: Il fronte della pace è un insieme di contributi che cercano di fornire delle coordinate e degli strumenti per andare oltre le letture semplificate che ci arrivano ogni giorno.

Questa estate c’è stata una news sulla guerra in Ucraina in cui in un incontro coi giovani imprenditori Putin si era paragonato a Pietro Il Grande, che è il terzo zar che imprime una svolta alla Russia verso l’occidentalismo. Il riferimento ha fatto sorridere, perché Pietro Il Grande riuscì a realizzare degli obiettivi che in 22 anni di governo Putin non è riuscito a realizzare né sul piano interno né su quello internazionale o militare. In questo saggio paragono invece la figura di Putin a quella di Nikolai I, zar che segna il primo passo in direzione della caduta dell’impero zarista quando, all’interno di una politica ondivaga, si getta dentro una guerra con la Turchia da cui la Russia esce molto male e alla quale seguono 40 anni di tentativi di riforma conclusisi con il crollo totale dello zarismo. Lo paragono a Putin proprio per questa concezione di lento declino, di cui la guerra in Ucraina è un passaggio significativo, ma che non prelude immediatamente a questo esito. Io non condivido in toto questo pensiero, perché è impensabile una completa decadenza dell’impero putiniano, ma a Putin non seguirà il putinismo: i dati ci dicono che non è possibile, la classe tecnocratica non è capace di azione politica autonoma, senza Putin non c’è Russia. La stella del putinismo è una stella cadente e va analizzata come tale.

Giovanni Savino: Mi concentro sulla seconda parte della domanda, il Russkij Mir è un vero e proprio brand, perché nasce proprio così: alla fine degli anni ‘90, nella confusione post elezioni, vi era la necessità di provare a far uscire il paese da una crisi profonda. La guerra in Cecenia era cominciata e le conseguenze sono visibili ancora oggi: un gruppo di specialisti in un articolo teorizzava l’idea di ribrandizzare la Russia per provare a renderla più attraente. Il concetto viene poi promosso dalla chiesa ortodossa in modo più severo, conservatore, verso una sorta di ‘movimento’ per la famiglia, e il mondo russo di fatto risponde alla ricostituzione di un’ideologia imperiale.

Putin torna al potere con il crollo dei prezzi delle materie prime e, in concomitanza all’esperienza delle primavere arabe, vuole evitare uno scenario simile e inizia a utilizzare questa ideologia conservatrice e imperialista, che si palesa immediatamente con leggi contro l’omosessualità. Poi l’annessione della Crimea incontrò il consenso della società russa, ma oggi la situazione con l’Ucraina è molto differente. Il Russkij Mir viene preso a pezzi, delle varie correnti intellettuali vengono oggi presi degli spunti. Ad esempio il fatto che l’Ucraina non esista e che non esista nessuna possibile identità nazionale diversa fuori da quella russa e chi pensa di sì vuole distruggere la Russia stessa.

Un’altra idea è quella di passionarietà, ovvero che ogni civiltà abbia un inizio, un’ascesa e una fine, una traiettoria ben definita in cui di importanza fondamentale è la memoria storica. Già diversi anni fa Putin disse che la Russia si trovava al picco delle proprie possibilità: si tratta di un’idea organicista della nazione che ha un suo proprio sviluppo. È molto importante anche il concetto di “scontro di civiltà” che arriva in Russia attraverso la mediazione americana: idea di un’alternativa geopolitica al mondo esistente dominato dagli anglosassoni, un mondo definito «spaventoso e dominato da forze sataniche», a-religioso, che utilizza lo sfruttamento dei paesi del “Terzo mondo” strizzando l’occhio ai pensatori della nuova destra europea. Spesso nella narrazione di Putin si dice che paesi come Francia, Spagna o Italia si trovano di fronte a una crisi dell’identità nazionale, portata dai flussi migratori che in qualche modo vengono organizzati oltre oceano. Putin sembra quasi un dj che seleziona varie cose e, in un contesto postmoderno, ne pesca qualcuna che possa essere efficace, aderente alla narrazione della destra di riuscire ad adattare il contenuto al contenitore. Il problema è che vederlo fatto in Russia, in questa guerra sanguinosa fa pensare, e il fatto che tutto questo occhieggi in tutta Europa deve preoccupare e suscitare un dibattito.

Sandro Chignola: Mi riallaccio alle ultime questioni: innanzitutto la pappa reazionaria descritta è la stessa che ha permesso di realizzare il passaggio che ha portato il salvinismo in Italia. Il ponte tra il neofascismo degli anni 70 e l’odierno pensiero reazionario è stata rivistala la rivista Orion, con la Lega che man mano usciva dalla rivendicazione dell’autonomia territoriale per essere vettore di politiche di destra nazionaliste.

C’è poi un altro aspetto importante se si analizza il “dughinismo” e il “putinismo” e attiene al modo in cui è concepita la “logica imperiale”, perché non si tratta solo di una genealogia storica, ma riguarda la riconfigurazione centrifuga degli spazi imperiali ai quali apparteniamo. Non si può pensare alla situazione tra Russia e Ucraina senza pensare alla crisi dello spazio europeo come area geopolitica autonoma. Il grande sconfitto di questa guerra è l’Europa: ormai la stessa NATO viene ripensata e dislocata in base ai nuovi equilibri imperiali nel Pacifico.

L’Europa non solo è subordinata alle logiche della NATO, ma l’idea stessa di Europa è compromessa e risignificata: dall’integrazione europea funzionale stiamo passando a una logica confederale e sposta il baricentro a un traino polacco che lo rende un terreno fertile per i nuovi imperialismi e anche soggetto a logiche estrattiviste legate a questo.

La fase che stiamo vivendo è un sintomo della fragilità degli equilibri geopolitici mondiali, di logiche infraimperiali e centrifughe che vedono una mobilità pericolosa e che hanno come protagonisti la Cine, gli Usa e in parte la Russia. Per questo le radici ideologiche del putinismo sono tutto e niente, la guerra in Ucraina è una tappa fondamentale, è una guerra destinata a durare a lungo perché centrale nella riorganizzazione degli equilibri europei nella competizione globale.

Dopo questa parentesi più storica, vorrei portare l’attenzione sui due popoli che si sono trovati travolti dalla guerra: Come si stanno organizzando le persone in Ucraina? Quale è lo spazio di azione per i movimenti per arrivare ad una pace?

Gaia Righetto: La carovana in Ucraina è stata organizzata da una rete di sindacati indipendenti transnazionale, per dare solidarietà a quelli presenti sul territorio ucraino.

Quello che emerge in maniera chiara è che chi si sta organizzando per resistere è soggetto a due tipi di pressione: un lato a un’invasione che viene definita apertamente fascista da parte della Russia, dall’altro deve resistere su un fronte interno, perché il governo neoliberista di Zelensky non tutela la popolazione. Ha infatti provato più volte a riformare le politiche lavorative, si è passati dalle 40 alle 60 ore settimanali e sono state eliminate le tutele sui licenziamenti nelle piccole aziende; i lavoratori e le lavoratrici resistenti sono ovviamente contrari a queste leggi e spesso lavorano in condizioni di miseria.

Le Unità di difesa territoriali sono realtà indipendenti che poi si sono affiliate all’esercito, si sono organizzate per difendere quartieri e città dall’attacco russo. Noi siamo andati in Ucraina cercando di non osservare la situazione con uno sguardo giudicante, per evitare di filtrare quello che succede con la lente deformante di chi arriva da un paese completamente diverso a livello politico e sociale. Queste unità sono gruppi che aiutano la gente comune, al fronte sono per lo più uomini quindi non possono sostenere le famiglie e adesso è tutto sulle spalle delle donne, spesso di mezza età perché le giovani vanno a combattere. C’è quindi un grande peso del lavoro di riproduzione e di cura che queste unità sostengono attraverso reti che si costruiscono sui territori – ad esempio cura per la popolazione anziana, cura dei bambini e ragazzi, malati, disabili che non si sono potute muovere.

Qui in Italia abbiamo conosciuto l’arrivo di migliaia di rifugiati, ma dobbiamo ricordarci che la maggioranza è rimasta in Ucraina e coloro che non si sono mossi sono le persone più povere e vulnerabili. Su un piano di emergenza sociale vediamo che l’affitto delle case è aumentato del 90% a Kiev, altrove anche del 200%. Sin dall’inizio della guerra in Donbass centinaia di persone sono migrate verso la parte occidentale del paese, ma da parte del governo non c’è stata nessuna politica per dare strutture a queste persone, e ora l’emergenza sfratti è ad esempio un problema enorme, senza alcuna forma di tutela nei confronti di persone che vengono sfrattate.

È chiaro quindi che la popolazione si deve muovere su più fronti. Quando si pone il concetto di guerra tra imperi dobbiamo pensare che lì questo aspetto viene percepito fino a un certo punto: si trovano a dover resistere anche internamente perché le condizioni di vita stanno rapidamente peggiorando. Bisogna poi aggiungere che in Occidente la narrazione mediatica è distorta: non esiste solo il battaglione Azov, questa è una visione semplificata e polarizzata, ma c’è un’opposizione sociale molto fertile

Yurii Colombo: Gaia ha colto la dimensione interna del conflitto, le riviste di geopolitica forniscono un’idea della guerra in Ucraina come uno scontro tra potenze imperiali senza dare grande peso agli aspetti politici e sociali interni. Io ritengo che una delle motivazioni che ha mosso Putin sia una grande crisi interna al Putinismo stesso, in un paese sempre di più senza prospettive. In questa logica geopolitica la guerra ci viene presentata come una “guerra per procura”, mossa da interessi imperiali e irredentisti della Russia, mentre dall’altra parte gli Stati Uniti agiscono per condizionare gli equilibri europei e per giungere a un indebolimento russo: sono tutte cose vere, ma non dobbiamo perdere di vista la dinamica interna che ha prodotto la guerra.

Questa Ucraina di cui Putin delegittima l’esistenza, in realtà ha iniziato ad avere espressioni culturali ed etniche proprie sin dal 18esimo secolo: già allora esisteva una cultura, un’aspirazione propriamente ucraina. Quando si parla di questo conflitto dobbiamo coglierlo dentro questa dinamica, questo ci fa capire in parte perché la resistenza è stata così forte nel 2022, perché sicuramente questo spirito nel popolo ucraino ha portato a una formazione di una vera e propria identità culturale e la motivazione che ha mosso gran parte della resistenza ha anche queste radici storiche.

Giovanni Savino: Putin stesso è un importante elemento della costruzione identitaria ucraina, perché le ha dato la possibilità di consolidarsi come unità nazionale. Il saggio di Putin del 2021 sull’unità storica dei russi e degli ucraini accusava l’Ucraina di essere una nazione ‘costruita’, ma - ricollegandoci al pensiero di Benedict Handerson - ricordiamo che la costruzione di tutte le nazioni è in primo luogo immaginata, sono tutte comunità immaginate e costruite, e questo è importante per capire la reazione all’interno della Russia, ovvero come questa guerra viene vista dai russi.

Non è una guerra di facile accettazione, proprio perché si tratta di due popoli così compenetrati che spesso in molte famiglie russe ci sono parenti in Ucraina: andare a combattere in Ucraina è andare a combattere i propri parenti, e questo tipo di percezione sta cambiando ora con la “mobilitazione parziale”, perché se prima solo alcuni combattevano, ora la maggioranza viene richiamata alle armi, è una partecipazione diversa.

Una domanda che sorge spontanea è perché non ci siano quindi delle manifestazioni di massa in Russia rispetto a questa guerra. Non è vero, ce ne sono state. Ma dobbiamo pensare al contesto in cui si trovano: non vengono autorizzate, si viene fermati e si rischia di cadere nel vilipendio alle forze armate e diffusione di fake news, significa essere coinvolti in questa storia a livello familiare, molti sono costretti a scappare anche solo per condivisione di opinioni riguardo a questa guerra. 

Una caratteristica del putinismo è quella di colpire non solo gli oppositori, ma colpire chiunque può essere colpito, è una repressione ancora prima che preventiva. Ci troviamo di fronte a una riduzione degli spazi di informazione e organizzazione, c’è una situazione peggiore anche rispetto alla Russia zarista o della fine dell’Unione Sovietica, non esistono possibili centri di opposizione al potere.

Ci sono una serie di sabotaggi sporadici, ad esempio il movimento femminista contro la guerra, azioni nei supermercati, incendi o sabotaggi delle linee ferroviarie, ma azioni di massa sono difficili in un contesto del genere. Si pretende dai rifugiati russi di mobilitarsi quando noi non diamo permessi di soggiorno, non diamo possibilità d lavorare o studiare, la possibilità di un cambiamento in Russia dipende anche dalla capacità delle sinistre in Europa di costruire ponti con i movimenti degli attivisti in Russia: dobbiamo superare l’orientalismo, far capire che un’altra Russia esiste e sta crescendo.

Il putinismo è un sistema che non è in grado di perpetuarsi perché è interamente costruito sulla figura di Putin stesso, come uomo arrivato per salvare la Russia dalla crisi, e poi si è proposta la narrazione imperialista e nazionalista per giustificare le sue scelte. Lo zarismo si perpetuava perché non c’era un culto personale: nasceva come sistema legittimato, come autocrazia che provava a essere pervasiva. Nel caso del putinismo è diverso e questa incapacità di riuscire a costruire consenso è una delle ragioni che ha scatenato la guerra in Ucraina: era il momento giusto, perché l’Ucraina non è ancora all’interno dei sistemi di sicurezza occidentali, e lui credeva alla sua stessa propaganda, credeva davvero che in Ucraina lo avrebbero accolto. Dobbiamo quindi costruire ponti, mantenere il dialogo attivo.

Sandro Chignola: L’unica prospettiva possibile è stare con i disertori da entrambe le parti, il nostro problema è dover disertare dal gioco degli schieramenti. L’Europa esce già sconfitta da questa guerra perché banalmente non siamo usciti dalla logica tecnocratica neoliberale che sembrava si stesse allentando dopo la pandemia. Tutto questo, in un regime di economia di guerra, ridefinisce completamente gli obiettivi e le politiche: investiamo sulle armi invece che sulla conversione energetica, e sono i cittadini a pagarne le conseguenze.

Dobbiamo disertare dalla logica complessiva intorno a questo conflitto, aprire una piattaforma per la pace che vada oltre l’orizzonte del pacifismo, ma che apra ponti con attivisti e sabotatori, che tenga conto delle resistenze interne, per portare la resistenza qui. Anche in Italia ci aspettiamo un autunno duro, dobbiamo pensare a una prospettiva di pace subito, che sia un attacco alle potenze che utilizzano questo conflitto per ricalibrare gli equilibri geopolitici europei in loro favore. Dobbiamo usare la pace come una piattaforma per arrivare molto più in là, come contropotere per combattere le logiche di sfruttamento e miseria.

Vorrei discutere anche del ruolo della guerra nel campo dell’approvvigionamento energetico. Considerando che l'approvvigionamento energetico è sia parte della causa, sia ciò che alimenta la guerra e anche un punto fondamentale della ricostruzione, come si può uscire da un circolo vizioso di questo tipo?

Yurii Colombo: la Russia è un paese rimasto legato all’esportazione di materie prime e di idrocarburi. Il ruolo della Russia su scala internazionale è, però, quello di una periferia dell’impero, perché opera come una grande semicolonia militarizzata, esporta materie prime e riceve tecnologia e beni finiti: l’economia russa ha queste caratteristiche. Lo scontro iniziato sulle sanzioni gira intorno a questa opposizione tra chi resiste di più: gli occidentali che subiscono prezzi alti sul gas o la Russia che non ha più pezzi di ricambio per far volare gli aerei. La questione ecologica in Russia è particolarmente interessante: ha aderito a tutti gli accordi internazionali, ma si è sempre lasciata dei margini di azione.

Giovanni Colombo: Il cambiamento climatico per la Russia può essere un disastro vero e proprio, a partire dall’utilizzo del passaggio a nordest a causa dello scioglimento dei ghiacciai. C’è poi il problema del permafrost che, scongelando, libera tantissimo gas e crea questioni problematiche in città anche abbastanza grandi.

Il cambiamento climatico pone una questione alla natura estrattiva della Russia: la Russia è stato un fornitore considerato affidabile rispetto a Medioriente o Venezuela, questo ha consentito di alimentare le illusioni per cui l’Europa non avrebbe mai potuto fare a meno di queste materie prime russe, senza considerare l’espansione del mercato orientale e le reali capacità delle infrastrutture. L’idea del modello di sviluppo si pone in modo feroce in un paese che finora è stato dipendente dal petrolio: la Russia è una periferia particolare perché centro di una propria prospettiva imperiale; i tentativi di industrializzazione sono falliti, porsi questo problema pone numerose questioni fondamentali.

Sandro Chignola: Per posizionare queste questioni dobbiamo parlare tanto di transizione quanto di egemonia e noi assistiamo a un declino degli Stati Uniti da questo punto di vista. Il capitalismo è permanentemente in crisi, perché valorizza ciò che distrugge e per valorizzare ha bisogno di distruggere. Questa crisi del capitalismo si alimenta di punti di rottura come le guerre, perché permettono di distruggere e poi ri-immaginare. In tutto questo quadro anche le questioni climatiche purtroppo dobbiamo pensarle in un ordine di ragionamento molto più complesso di come abbiamo fatto finora, anche per sottrarre le economie alla logica dell’economia di guerra.

La guerra in Ucraina ha messo in luce anche alcune tematiche “di genere”: il lavoro di cura in clima di guerra, lo stupro come meccanismo di subordinazione dei corpi, eccetera. In questo contesto, come si organizza il movimento femminista?

Yurii Colombo: Esiste una struttura fragile che però si sta sviluppando in buona parte della Russia, il movimento antimilitarista femminista russo, che cerca di analizzare la guerra dalla prospettiva della condizione della donna, in particolare in un contesto che è post-sovietico. L’Unione Sovietica ha potuto esistere grazie alle donne e questo movimento femminista, che ha delle differenze rispetto al movimento femminista occidentale, ha un ruolo fondamentale.

Questa estate Putin ha firmato un decreto sulla ‘mamma eroina’, che stabilisce che una donna riceverà un (molto esiguo) compenso se avrà partorito almeno 10 figli: è la riproposizione di un decreto di Stalin in una situazione molto diversa e più drammatica, ma che rende bene l’idea del ruolo che dovrebbe avere la donna nell’immaginario e nel regime putiniano. L’ideologia putiniana in fieri racconta che il problema della demografia è causato dalle Ong occidentali che diffondono ideologie omosessuali e l’antifemminismo di Putin è basato proprio su questo. A breve sarà completamente vietata la “propaganda omosessuale” anche se non si sa cosa sia, moltissime delle case editrici stanno pensando di togliere libri dal loro catalogo. È in questo quadro che la lotta del movimento femminista cerca di farsi spazio.

Gaia Righetto: Ne parlo sul fronte Ucraino: c’è una mobilitazione anche militare nelle unità di difesa territoriale che si caratterizzano come battaglioni femministi e Lgbt, eterogenei, a sostegno del lavoro riproduttivo, insieme alla lotta per le condizioni delle lavoratrici che va avanti da tempo e si è intersecata con la mobilitazione contro la guerra.

Anche in Russia in moltissime persone hanno utilizzato dei simboli per sostenere la resistenza ucraina: c’è stato un forte collegamento tra realtà femministe russe e ucraine, anche se le storiche relazioni tra realtà indipendenti sono state fortemente ostacolate, quelle che avevano qualche forma di visibilità sono state incarcerate e represse subito, il che ha reso più difficile la connessione. La forte propaganda di contrasto alla ‘teoria gender’ ha rafforzato e potenziato la costruzione di realtà che in Ucraina si battevano chiaramente su quel fronte, quando il nemico viene dichiarato “non conforme” questo comporta una forte ribellione ad un diktat che avviene dall’altra parte.

È una mobilitazione che sta avvenendo su tutti i piani, anche su quello giuridico: al momento molte donne si trovano senza risorse per mantenere i figli, dato che i contributi spettanti ai mariti ora dovrebbero giungere dall’esercito, ma non succede. Nella lotta e dibattito sul diritto alla casa, donne e persone queer hanno un ruolo centrale, non trovano uno spazio in cui potersi radicare. C’è un grande protagonismo dei soggetti femminili in queste lotte, con conseguenze sulle riforme sociali.

Infine, guardando la realtà dei fatti capiamo che il concetto di famiglia tradizionale in Ucraina è fallace: su 17 milioni di famiglie 5 milioni sono solo madri e figli.