La Libertà è tutto / Racconti della Rivoluzione Egiziana, parte prima

29 / 8 / 2011

Questa breve narrazione della Rivoluzione Egiziana è stata realizzata combinando varie interviste faccia a faccia raccolte durante il mio soggiorno al Cairo tra il 10 luglio e il 7 agosto 2011. Gli intervistati non sono attivisti, ma ragazzi ordinari che hanno partecipato alle manifestazioni e agli scontri durante la rivoluzione e nei mesi successivi. Gli intervistati sono stati contattati tramite passaparola e su internet, i nomi di alcuni sono stati modificati.

INTRO – TAHRIR OCCUPATA

Mostafa ferma la macchina, tira il freno a mano e abbassa il finestrino. “Un venerdì torneremo in centinaia di migliaia e ci riprenderemo la piazza pacificamente come abbiamo sempre fatto”. “E noi vi prenderemo a calci un culo”, risponde un agente in tenuta antisommossa. “La vedremo”. I poliziotti sono disposti lungo tutto il perimetro del prato interno alla rotonda di piazza Tahrir. Ci sono veicoli militari a ogni entrata della piazza, e in cima ai veicoli soldati con il mitragliatore spianato. La polizia è schierata in ogni punto strategico, e sotto al viadotto che va verso il Nilo è pieno dei furgoni da bestiame che qui usano come camionette. “Beh, un paio di molotov non contano come violenza” sussurra Mohamed mentre la macchina riparte.

È la mia ultima notte al Cairo, la piazza che lascio non è esattamente la stessa che avevo trovato il 10 luglio. Tahrir occupata era un ecosistema a parte, in pochi giorni la tendopoli aveva generato un proprio microcosmo fatto di attivisti, giovani manifestanti, famiglie in visita, ristoratori, venditori di gadget rivoluzionari, ragazzini di strada e accattoni.

Quando mi avvicinai la prima volta, un ragazzo mi rivolse la parola in arabo. Come si accorge che non capisco chiama un medico, il quale mi chiede, non senza una certa ironia, se voglio donare il sangue per la causa. Mi fanno un rapido test, mi mettono sull'ambulanza e quando il prelievo è finito mi passano un succo di mango. I ragazzini del checkpoint snocciolano qualche nome di calciatori italiani e mi domandano cosa penso della rivoluzione. Non riesco a resistere alla tentazione di alzare il pugno, che d'altra parte qui ha poco a che vedere con il socialismo ed è un generico simbolo di lotta. Vengo introdotto nella piazza a suon di strette di mano e pacche sulle spalle.

Ogni entrata è bloccata da transenne metalliche, le più larghe anche da un rotolo di filo spinato. Il servizio d'ordine rivoluzionario chiede il documento e perquisisce chiunque voglia entrare. In parole povere, piazza Tahrir non è altro che una gigantesca rotonda, quando era aperta al traffico era un perenne ingorgo di macchine. L'isola del traffico in mezzo alla rotonda strabocca di tende, come i vari spazi erbosi ai margini della piazza. Colpisce subito un enorme edificio completamente annerito, è la sede dell'ora defunto Partito Nazionale Democratico di Mubarak, data alle fiamme il 28 gennaio. Sulla piazza si affacciano anche la sede amministrativa dell'American University of Cairo, il Museo Egiziano e il famigerato Mogamma.

Il Mogamma è la sede centrale della burocrazia pubblica egiziana, quasi ogni documento ufficiale deve passare per di qua, ci lavorano 18.000 impiegati. L'edificio è un dono dell'Unione Sovietica e, non a caso, il suo monolitismo invadente ispira ancora oggi un kafkiano terrore da socialismo reale. Ma oggi il Mogamma è chiuso per ordine della rivoluzione, come dice uno striscione. Tra gli altri graffiti rivoluzionari, è persino comparsa una A cerchiata su una colonna dell'entrata. Ho chiesto a qualche amico cosa significhi quella A, visto che in Egitto non esiste nessun movimento anarchico. Hanno detto che non sono sicuri che chi l'ha fatta sapesse cosa voglia dire, qui la si legge come un simbolo di ribellione tra gli altri.

Di giorno i numeri sono piuttosto contenuti, fa troppo caldo e la gente lavora. Ma di sera la piazza scoppia di vita. Ci sono moltissime famiglie, studenti, nonché sbandati di vario tipo. Su ogni palco si succedono i comizi e gli slogan, ogni tanto ci sono anche concerti. Decine di carretti e tavolini vendono succhi di mango, canna da zucchero e cocco, té, pannocchie e patate dolci alla brace oppure magliette e adesivi rivoluzionari. E ovviamente le onnipresenti bandiere egiziane. Scoppiano spesso litigi tra i venditori e gli attivisti, questi ultimi accusano i primi di essere troppi e sempre in mezzo al passaggio, di aver trasformato la piazza in un bazar e di commercializzare la rivoluzione.

La piazza è uno spaccato di tutto ciò che in Egitto è a sinistra degli islamisti, degli “amanti della stabilità” e dei nostalgici del regime. C'è una folta schiera di partiti neonati e al momento è difficile capire chi sarà davvero una forza politica negli anni a venire. I marxisti sono una piccola minoranza, ma i Socialisti Rivoluzionari sono molto attivi e ogni tanto montano un loro palco. Poi ci sono i nuovi sindacati indipendenti, qualche partito laburista e socialdemocratico e i molto controversi socialisti nasseristi. La maggioranza dei partiti sono liberali e ogni tanto la sinistra stessa finisce sotto l'etichetta di “liberale” in opposizione agli islamisti. E forse è vero quel che mi ha detto Aly: “Molti in Egitto sono di sinistra, ma non sanno di esserlo”. I liberali si distinguono tra i partiti storici come il Wafd, che nel vecchio regime costituivano la cosiddetta opposizione decorativa, e i gruppi giovanili che hanno dato inizio alla rivoluzione, riuniti nella Coalizione dei Giovani della Rivoluzione.

La Coalizione comprende il Movimento 6 Aprile, Kefaya [Basta], Siamo Tutti Khaled Said e altre associazioni. Tendono a rifuggire etichette ideologiche ma sono generalmente visti come liberali. Solo che da un punto di vista europeo, sono dei liberali molto particolari. Prima di tutto sono liberali in politica, ma non sono di certo liberisti in economia. Il 6 Aprile in particolare tende molto a sinistra ed è nato organizzando uno sciopero nazionale in solidarietà con gli operai di El-Mahalla El-Kubra. E poi sono tutti caratterizzati da pratiche e tratti culturali che fanno pensare ai centri sociali italiani: età media molto bassa, relazione privilegiata con la musica e le controculture, graffiti, pugni chiusi, scontri con la polizia, cordoni, occupazioni, ecc. Dall'altro lato sono quasi tutti musulmani piuttosto praticanti, e molti sostengono che la sharia dev'essere applicata ma che è possibile interpretare correttamente il Corano in termini liberali. Per questo il termine secolaristi, che sarebbe molto comodo per designare collettivamente gli occupanti, non è del tutto corretto.

Ogni tanto in piazza si fanno vedere anche i barbuti, ovvero gli islamisti, che però hanno ufficialmente boicottato il sit in. I principali gruppi islamisti sono tre. I Fratelli Musulmani hanno un'organizzazione formidabile e sono i più moderati, anche se a noi sembrerebbero i peggiori fanatici teocrati. Ma si sono dichiarati favorevoli alla democrazia, ai diritti civili, all'uguaglianza delle donne e alla tutela delle minoranze. Poi ci sono i salafiti, con qualche caveat sono un movimento parallelo ai wahabiti sauditi. Essendo un reticolo piuttosto informale è difficile individuarne chiaramente le posizioni, ma un loro imam si è detto contrario alla democrazia perché l'unica legge che conta è quella di dio, pensano che le donne non debbano lavorare e che debbano indossare il niqab e via discorrendo. Alla destra più estrema c'è il Gruppo Islamico (al-Gama'a al-Islamiyya). Si tratta dell'ex rete terrorista che tra gli altri attentati commise anche il famoso massacro di Luxor, in cui 58 turisti e quattro egiziani furono uccisi. Dal 1997 il gruppo ha rinunciato alla violenza, ma non alle sue bizzarre idee.

Vengo in piazza quasi ogni sera con Aly, Mohamed e Mostafa, li ho conosciuti tramite amici di amici. Si vedono anche altri stranieri, ma davvero pochi. Anche perché qui, nonostante la cortesia non manchi mai, ogni occidentale è visto come una potenziale spia. In un paio di occasioni Mohamed ha litigato con tipi che volevano chiedermi i documenti anche dopo il checkpoint. Qui nessuno beve, quindi passiamo le ore a sigarette, pannocchie alla brace e grandi discussioni di politica. Ma non c'è il rischio di annoiarsi, oltre ai vari comizi si formano ovunque capannelli attorno ad oratori più o meno su di giri. E poi ogni tanto dei provocatori provano ad entrare in piazza con le lame oppure viene preso un infiltrato. In questi casi le mazze saltano fuori come piovessero dal cielo e i colpevoli, dopo un'iniziale ripassata, vengono portati in qualche tenda per essere interrogati. La polizia non c'è, non può nemmeno farsi vedere nelle strade vicine alla piazza altrimenti partirebbero gli scontri. Il fascino della piazza è che si tratta di una provvisoria e fragile eccezione alla normalità, uno spazio di libertà sospeso tra il vecchio regime e quello che verrà, un crocevia nella storia egiziana da cui, al momento, è possibile imboccare qualsiasi direzione.

1 - PRIMA DELLA RIVOLUZIONE

Hosni Mubarak, ex ufficiale militare e membro del Partito Nazionale Democratico, diventa presidente nel 1981 in seguito all'assassinio del suo predecessore Anwar El Sadat. La sua popolarità declina drasticamente nel corso degli anni, i principali motivi sono l'assenza di efficaci riforme economiche di lungo termine, l'enorme aumento delle disuguaglianze sociali, l'autoritarismo e la corruzione capillare del regime, la brutalità poliziesca, la tortura istituzionalizzata, i brogli elettorali, la politica estera arrendevole nei confronti degli Stati Uniti e di Israele e il timore che Gamal Mubarak succeda al padre.

RAMI: nel 1981 Mubarak dichiarò che sarebbe rimasto al potere per un solo mandato, sappiamo tutti come è andata a finire. Credo che i membri della sua cerchia clientelare si accorsero di poter proteggere ed espandere i propri interessi fintanto che lui fosse rimasto al potere, e fecero di tutto per tenerlo sulla poltrona a oltranza.

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da politiche di un neoliberismo estremo e mal concepito. L'economia egiziana è troppo dipendente dal cosiddetto “rentier capitalism”, si basa sulla proprietà di risorse che danno una rendita senza bisogno di essere lavorate: il canale di Suez, il Nilo, le attrazioni turistiche, il petrolio, i gas naturali... La domanda di materie prime grezze nei mercati internazionali sta diminuendo, se un paese basa la propria economia su di esse non andrà da nessuna parte.

Un progetto economico di lungo termine dovrebbe basarsi sulla produzione, sulla manifattura. Ma in Egitto non c'era nessuna volontà politica in grado di creare le condizioni e dare una direzione. Il sistema educativo è pessimo e la percentuale di analfabeti viaggia attorno al 35%, solo chi può permettersi un'istruzione privata impara qualcosa. L'unica preoccupazione del governo era quella di fare soldi veloci, nel breve periodo. Per far questo hanno svenduto, a prezzo di favore e senza alcuna trasparenza, tutte le aziende pubbliche a uomini d'affari vicini al regime. Questa frode è stata perpetrata da, e ha alimentato, una ristretta cricca di uomini d'affari e politici corrotti. E in assenza di un parlamento autenticamente rappresentativo il sistema di corruzione si è rafforzato ed esteso.

RAAFAT: la corruzione era capillarmente istituzionalizzata dal vertice massimo fino alle piccolezze della vita quotidiana. Prendiamo la polizia. Molti ti direbbero che la polizia era per lo più corrotta, ma che c'erano alcuni agenti che facevano del loro meglio per svolgere onestamente il loro lavoro. Non sono d'accordo. Ogni poliziotto era in qualche misura corrotto perché non era un problema di comportamenti individuali, era ed è corrotto il sistema. Ci sono solo due modi per entrare nella polizia: sganciare una mazzetta o avere un parente o un amico in qualche posizione di potere. A ogni poliziotto viene insegnato a sentirsi al di sopra del comune cittadino e a trattare la gente come fosse merda senza bisogno di dare spiegazioni. Perché la polizia muova un dito per qualsiasi banalità, un rinnovo della patente o la denuncia per un portafoglio rubato, è necessario allungargli una mazzetta..

Alla corruzione della polizia si accompagnava la brutalità e la repressione del dissenso. Quando avevo sedici anni mio zio morì e io ero a casa da solo con mio cugino. Prendemmo la macchina per andare ad avvertire mio padre. Lungo la strada, la polizia ci fermò a bordo di un finto minibus. La polizia andava sempre in giro in borghese e quando ti fermavano era impossibile capire se si trattava di rapinatori o poliziotti. Perquisirono la macchina ma non trovarono niente. Mio cugino stava facendo il servizio militare obbligatorio, si permise di dargli questa informazione visto che la polizia non è autorizzata a perquisire i militari. Per il solo fatto che aveva aperto bocca, lo presero a schiaffi e ci coprirono di insulti. Ci caricarono sul microbus per portarci in questura, lasciando la nostra macchina nel bel mezzo della strada. Tentai di spiegargli in ogni modo che mio zio era appena morto, e che stavamo solo cercando di raggiungere mio padre. Ottenni solo insulti. A quel punto ricordai di avere nel portafogli un documento che provava che un altro zio lavorava per il Ministero degli Interni. Appena glielo mostrai si profusero in scuse e ci rilasciarono immediatamente.

Anni dopo, all'università, mi misi a dire a dei miei colleghi quel che pensavo di Mubarak e del suo regime. Mi resi conto che sempre più gente mi stava ascoltando, tipo una ventina di persone. Quando la conversazione finì si avvicinarono due tipi, erano della Sicurezza Statale, la polizia politica. Dissero che se fosse successo di nuovo mi avrebbero sbattuto dentro. Poco dopo mi arrivò la comunicazione che ero sospeso dall'università per due anni, e per due anni non ho potuto studiare.

ALY: prima della rivoluzione non ero un attivista in senso stretto, ma facevo rap politico1. Non era semplice parlare pubblicamente di politica in Egitto, anche solo per strada o nei café. Poliziotti in borghese e informatori erano ovunque, e all'università pullulavano. Le discussioni di gruppo nel campus universitario erano semplicemente proibite. Eravamo attivi soprattutto su internet, in rete c'era un po' più di libertà. Ma facemmo un paio di concerti all'università. Le autorità accademiche vollero visionare tutti i testi prima dell'evento. Mi toccò cambiare tutte le parole delle canzoni. Ma quando salii sul palco cantai i testi originali. La security dell'università ci staccò i cavi, ma tutti i ragazzi del pubblico si misero a scandire slogan come forsennati. Così la security non se la sentì di sospendere il concerto.

MOHAMED: non mi aspettavo che il regime sarebbe crollato così presto sotto i colpi di una rivoluzione popolare, ma negli ultimi cinque anni ci sono state molte spinte verso il cambiamento. Prima, islamisti a parte, l'opposizione al regime si sfogava solo nelle barzellette e nel sarcasmo. Il primo significativo movimento per i diritti è stato Kefaya, che ebbe molta visibilità nelle proteste sotto le elezioni parlamentari del 2005. Poco dopo emerse il Movimento 6 Aprile, molto attivo nelle proteste relative al conflitto di Gaza del 2008-2009.

Il 2010 è stato un anno carico di eventi. A maggio ci fu un grandioso sit in di lavoratori con le loro famiglie di fronte al parlamento. Per la prima volta vedevo le masse dimostrare la loro rabbia. Le richieste erano più economiche che politiche, ma era comunque notevole considerando che in Egitto non esisteva un sindacato reale, tutti i dirigenti erano pupazzetti nominati dal regime.

C'era una limitata libertà di espressione per i media dell'opposizione, ma tanto il governo non si sentiva in dovere di rispondere all'opinione pubblica. I social network stavano diventando sempre più efficaci nel ridicolizzare le bugie del regime. Ad esempio quando a dicembre degli squali attaccarono dei turisti a Sharm El Sheik, alcune autorità sostennero che molto probabilmente gli squali erano stati “manipolati” dal Mossad israeliano, scatenando l'ilarità generale su internet.

E a novembre e dicembre la farsa delle elezioni parlamentari. I brogli erano sotto gli occhi di tutti e tutti ne parlavano apertamente. Dal canto suo il PND pensava di cavarsela con una scrollata di spalle. Alcuni membri del partito fecero persino delle dichiarazioni in tv che sottintendevano senza alcun imbarazzo che i brogli c'erano stati. Il voto non era segreto, quindi c'erano scagnozzi fuori da ogni seggio che minacciavano e molestavano chiunque votasse contro il PND. Ci sono video su internet in cui si vedono dei funzionari compilare decine di schede elettorali in favore del PND, o riempire le urne di voti truccati2. Io non sono andato a votare perché sapevo che era una barzelletta.

ALY: le proteste per Khaled Said sono state uno dei precedenti più significativi. Khaled Said è morto a 28 anni il 6 giugno 2010 dopo essere stato arrestato da due agenti in borghese in un internet café. Pare che stesse caricando su internet un video compromettente per la polizia. Diversi testimoni hanno visto i due agenti picchiarlo e sbattergli ripetutamente la testa contro oggetti come un tavolo di marmo e una porta d'acciaio. Due medici provarono a intervenire ma gli agenti continuarono a pestarlo anche dopo che era morto. Secondo l'autopsia, il decesso sarebbe dovuto al fatto che Khaled ingoiò dell'erba nel vedere gli agenti avvicinarsi e soffocò. Fortunatamente non sono l'unico a sospettare con forza che si tratti di una stronzata. Nell'obitorio suo fratello riuscì a fotografarlo con il cellulare, la foto diventò virale su internet. L'omicidio scatenò proteste in tutto il paese e la pagina Facebook We Are All Khaled Said diventò popolarissima3.

La polizia ha fatto un numero non quantificabile di vittime negli ultimi anni, può sembrare sorprendente come proprio Khaled Said sia diventato un simbolo così forte. Parte della spiegazione sta nella gratuità e nell'estrema brutalità del gesto. Inoltre Khaled Said era istruito, appassionato di musica e ci sapeva fare con internet, era molto simile all'attivista egiziano medio, era uno di noi. Pensavi d'istinto: “Potrebbe essere stato un mio amico. Come è successo a lui, potrebbe succedere a me o ai miei amici”. Lo slogan Siamo Tutti Khaled Said voleva dire proprio questo. Purtroppo i più poveri non hanno voce, e quando uno di loro viene ammazzato o torturato non fa notizia, perché i suoi amici spesso non possiedono il capitale umano e sociale per farsi sentire.

MAYA: le manifestazioni prima della rivoluzione erano sempre la stessa storia. Si presentavano quasi solo gli attivisti stessi, cento persone erano un successo. La polizia circondava il presidio con cordoni multipli e non ci si poteva muovere di un passo. Di norma a un certo punto caricavano, riempivano di botte chi gli capitava a tiro, facevano qualche arresto e la cosa si concludeva così. Alcune proteste per Khaled Said furono piuttosto intelligenti. Lo stato d'emergenza permetteva alla polizia di arrestare chiunque stesse per strada in gruppi da più di tre persone. I dimostranti si vestirono di nero e si disposero in gruppetti sparsi a circa tre metri di distanza, non urlarono slogan e non parlarono. Così evitarono l'arresto4.

RAMI: Gamal Mubarak non aveva nessun carisma ed era profondamente odiato da quasi tutta la popolazione. Ma era il rampollo della cerchia di Mubarak, era vicino a tutti quelli che contavano, tutto faceva pensare che l'erede sarebbe stato lui. La costituzione non lo permetteva, ma il regime poteva cambiarla tranquillamente da un giorno all'altro, come d'altra parte era già successo in Siria. Studiosi e opinionisti scrissero una moltitudine di articoli sui possibili scenari della successione, domandandosi come il popolo e i giovani avrebbero reagito a una monarchia de facto. Hanno avuto la risposta.

2 - 25 GENNAIO – REVOLUTION DAY

Incoraggiati dalla Rivoluzione Tunisina, i gruppi di attivisti proclamano una manifestazione rivoluzionaria per il 25 gennaio, festa nazionale della polizia5. La manifestazione è promossa tramite passaparola e su internet, soprattutto Facebook, Twitter e YouTube. I vari cortei si radunano in piazza Tahrir dopo violenti scontri con la polizia. Dopo mezzanotte le forze dell'ordine riescono a sgomberare la piazza. Nei due giorni seguenti vengono tagliate o limitate le comunicazioni su internet e sui cellulari, e la polizia arresta a tappeto sospetti rivoluzionari.

MOHAMED: la Rivoluzione Tunisina ebbe un impatto enorme, semplicemente perché tutti realizzarono che era concretamente possibile far crollare un dittatore. Alcuni egiziani si diedero fuoco seguendo l'esempio di Mohamed Bouazizi, il venditore ambulante tunisino che accese la scintilla della Primavera Araba. I gruppi più attivi erano il 6 Aprile, Kefaya, il movimento Siamo Tutti Khaled Said e l'Associazione Nazionale per il Cambiamento di El Baradei. Ma nessuno aveva l'egemonia, nessuno aveva un piano preciso, è stata davvero una rivoluzione senza leader. Nella storia egiziana non è mai successo nulla di simile. Si sente spesso dire che il 1952 è stato un colpo di stato dell'esercito sostenuto dal popolo, il 2011 è stato una rivoluzione del popolo sostenuta dall'esercito.

ALY: erano stati stabiliti diversi punti di raccolta in modo da tenere impegnati più agenti contemporaneamente. L'idea era che nel caso un corteo venisse disperso, altri avrebbero potuto farcela. Il mattino del 25 io e un amico prendemmo un taxi per la moschea Mostafa Mahmoud. Tutti stavano andando a lavoro e aprendo i negozi come fosse un giorno qualsiasi, sembrava che non sarebbe successo nulla. Mi veniva da urlare: “Eeeeh, gente, a dire il vero oggi dovrebbe scoppiare una rivoluzione...” L'avessi detto a un normale passante, mi avrebbe riso in faccia. Qualcosa di inusuale c'era: polizia a ogni incrocio e in ogni piazza, soprattutto nei ghetti. Sapevano che se la rivolta avesse raggiunto gli slum, allora sarebbero stati guai seri.

Arrivammo a Mostafa Mahmoud alle undici, al concentramento si erano presentati sì e no cento ragazzi, soprattutto studenti. Eravamo circondati da centinaia, forse migliaia, di agenti in tenuta antisommossa. Nessuno aveva un vero piano, non sapevamo cosa fare e dove andare, ci muovemmo come ci sembrava meglio sul momento. Quando prendevamo controllo di una strada eravamo tutti lì a chiederci: “Ok, qual è la prossima?”

Rimanemmo in Mostafa Mahmoud per circa un'ora, gli slogan più comuni erano “Pane, libertà e giustizia sociale”, “Pacifici, pacifici” e “Il popolo vuole la fine del regime”. Gli slogan diventavano sempre più forti, ma non si può dire che il nostro numero stesse crescendo altrettanto. Così decidemmo di buttarci in strada e sfondammo un cordone di polizia. Ci mettemmo a urlare alla gente nelle case di scendere e di unirsi a noi, e la gente scendeva davvero. Arrivammo alla fine della strada e tornammo indietro, quando rientrammo nella piazza eravamo migliaia. E non eravamo più solo studenti, c'erano persone di tutti i tipi e di tutte le età.

La strada era nostra, era piena di manifestanti fino alla fine. Alcuni marciarono fino all'università per raccogliere più manifestanti, io restai nello spezzone principale che si buttò in via Tahrir e si diresse verso la piazza. Le cose stavano diventando davvero serie, il nostro numero era cresciuto esponenzialmente, non si riusciva a vedere la fine del corteo nemmeno salendo sui muretti. Lungo la strada trovammo numerosi cordoni di polizia. Di solito cercavamo di parlare con l'ufficiale in carica, del tipo: “Dai bello, facci passare, siamo troppi per voi”. In alcuni casi si fecero da parte, in altri tentarono di resistere ma furono spazzati via.

Alcuni cortei erano già arrivati in piazza, sentimmo l'odore dei lacrimogeni quando eravamo ancora distanti. Molti studenti conoscevano bene i lacrimogeni, avevamo fatto molte manifestazioni antisioniste negli anni precedenti. All'entrata della piazza trovammo migliaia di poliziotti ad aspettarci. Riuscimmo a entrare piuttosto velocemente, il grosso della polizia era concentrata sulla strada per il Ministero degli Interni e attaccava da quella direzione. Le ambulanze venivano usate per portare rinforzi e munizioni alle forze dell'ordine, e se qualcuno andava a farsi medicare, era preso.

Iniziammo gli scontri mentre altri cortei arrivavano da ogni entrata. Quasi subito arrivò un furgone con un cannone ad acqua. Per qualche secondo un ragazzo riuscì addirittura a deviarne il getto a mani nude6. Poi arrivò la voce che dei provocatori stavano entrando nel Museo Egiziano per danneggiarlo, così iniziammo a fare cordoni per proteggere il museo.

Ma presto mi staccai dal cordone per vedere cosa succedeva in giro. Non potevo credere ai miei occhi, mi venne addirittura da piangere. La gente caricava la polizia da ogni lato, e ogni carica veniva sostituita da un'altra. Alcuni lanciavano pietre, altri gli dicevano di fermarsi, che dovevamo prendere la piazza senza usare la violenza. Forse i primi che lanciarono pietre erano infiltrati, ma poi la cosa diventò più generalizzata. Mi misi davanti a un ufficiale e gli urlai contro di tutto, lui mi tirò uno schiaffo e iniziammo a darcele. Solo che lui era molto più grosso di me, mi prese per le gambe e mi trascinò verso le linee della polizia. Se fosse riuscito a tirarmi là dietro, ero finito. Ma immediatamente cinque tipi che neanche conoscevo lo buttarono per terra e mi liberarono. Questa è solidarietà.

Un lacrimogeno atterrò proprio davanti a me, lo respirai in pieno. Provai a correre, ma dopo pochi passi svenni. Mi svegliai al sesto piano di uno dei palazzi che danno sulla piazza, con una signora che si stava prendendo cura di me. Non ho idea di chi e come mi abbia portato là in cima. La signora mi disse: “Ragazzo mio, state facendo la storia, è ora di tornare in strada e vincere la battaglia”.

Dopo le sette le cose iniziarono a calmarsi, la polizia smise di attaccare. Fu deciso di rimanere in piazza tutta la notte. Le cose sembravano tranquille, così me ne andai sulle undici perché il giorno dopo avevo un esame. Beh, all'esame mi segarono, ma come si suol dire la libertà ha un prezzo.

RUTH: la notte del 24 io e degli amici riempimmo dei palloncini di vernice e li lanciammo contro una gigantografia di Mubarak vicino al nostro quartiere. Il 25 arrivammo direttamente a Tahrir con la metro, erano le quattro del pomeriggio. La battaglia era già cominciata, il corteo proveniente da Mohandesin stava cercando di sfondare il blocco della polizia per entrare in piazza. Io mi tenni lontana dagli scontri, che terminarono poche ore dopo. Poco prima di mezzanotte un uomo si avvicinò e ci suggerì di spostarci sul prato davanti al Mogamma, perché probabilmente la polizia avrebbe attaccato di nuovo. Si respirava un gran senso di solidarietà, c'era chi distribuiva cibo, chi bevande, chi coperte...

Dopo mezz'ora vedemmo un casino di gente che scappava. Un uomo ci distribuì delle mascherine intrise di aceto per alleviare gli effetti dei lacrimogeni. Era la mia prima esperienza con i lacrimogeni e non fu piacevole. Mi misi a vomitare mentre scappavamo. Da un lato arrivavano decine di lacrimogeni, dall'altro i poliziotti sparavano pallottole di gomma come forsennati.

Il mio amico conosceva bene la zona perché abita da quelle parti, così riuscimmo a infilarci in una stradina buia. Lui era stato colpito a una gamba da una pallottola di gomma, io mi sentivo malissimo. Nella stradina c'era già una ventina di persone. Per circa un quarto d'ora le cose si calmarono, poi sentimmo di nuovo urla e colpi. Entrammo in un condominio e ci nascondemmo in un corridoio del terzo piano. Restammo lì due d'ore, due ore da incubo. Dalla finestra si vedeva la polizia che manganellava la gente e la caricava nelle camionette, si sentivano urla fortissime e donne che piangevano. Quando tutto finì, il mio amico mi accompagnò a prendere un taxi. Il giorno dopo venni a sapere che era stato preso. Stava camminando verso casa e doveva attraversare un blocco di polizia, gli chiesero cosa stesse facendo in giro a quell'ora. Rispose che era stato alla manifestazione, non era la risposta più opportuna. Lo buttarono per terra, lo pestarono e lo portarono in un posto pieno di altri prigionieri. Le condizioni erano pessime, nessuno poteva andare al bagno e la gente era costretta a pisciare sul pavimento. Lo tennero dentro per due giorni.

ALY: il 26, mentre andavo all'università, vidi che tutto era di nuovo normale per strada. Pensavo: “Beh? Abbiamo fatto tutto il casino di ieri per niente?” Dopo l'esame, degli amici mi raccontarono che la piazza era stata brutalmente sgomberata. Eravamo incazzati neri, decidemmo di andare a Tahrir per vedere se si stava muovendo qualcosa. Sul posto non c'era neanche un manifestante ed era pieno da far paura di Sicurezza Statale. Io avevo la kefiah e un'afro piuttosto esuberante, temo che il mio look fosse un po' troppo rivoluzionario per l'occasione. Ci fermarono, ci chiesero i documenti e iniziarono a farci domande. Alla fine ci lasciarono passare e andammo a un café vicino alla piazza molto frequentato da gente come noi. Al café diversi gruppi di ragazzi ci raccontarono I fatti della sera prima e ci dissero che il grande giorno sarebbe stato il 28.

Per tornare a casa dovevo attraversare di nuovo la piazza e passare attraverso dei cordoni di polizia. Un agente mi chiese: “Cosa stai facendo?” “Sto solo tornando a casa”. Ma lui mi afferrò e mi buttò giù per una porta di fianco a uno dei fast food che danno sulla piazza. Dietro la porta c'era una stanzetta piena di altri ragazzi, saremo stati una cinquantina. Mi presero il documento e il telefono e cominciarono a urlarmi insulti e minacce di morte. Provai a far notare che quel che stavano facendo era illegale, ma ottenni solo altre minacce.

Ci caricarono su una camionetta e ci portarono a Nasser City in una base di addestramento trasformata in galera per l'occasione. In teoria era una camionetta da tipo dieci persone, ma eravamo quaranta tutti schiacciati dentro. Ci mettemmo a urlare tutti assieme: “Il popolo vuole la fine del regime!”, ma non durò a lungo, eravamo tutti spaventati. Dissi a un poliziotto che stavamo protestando anche per lui, e gli chiesi perché proteggeva dei bastardi che ci trattavano tutti come schiavi. Lui rispose che se non obbediva agli ordini non ci sarebbe stato nessuno a proteggere lui mentre gli rovinavano la vita.

Ho letto su internet che quel giorno furono arrestate in modo simile seimila persone solo al Cairo. In quel posto c'erano molte stanzone adibite a cella, ed eravamo circa trecento per ciascuna. Ci portarono del cibo ma decidemmo di rifiutarlo. Arrivò un ufficiale e spiegò cortesemente: “Non c'è bisogno di nessuno sciopero della fame, tanto vi rilasceremo tutti a fine giornata. Stiamo solo finendo degli interrogatori. Siete nei guai solo se fate parte del 6 Aprile, di Kefaya, dei gruppi islamisti o organizzazioni del genere”. Poi la porta rimase chiusa per un po'. All'improvviso si riversarono nella cella un casino di poliziotti in tenuta antisommossa e iniziarono a urlare minacce e sbattere gli scarponi sul pavimento. Dopo qualche minuto comparve un altro ufficiale e si mise a urlare ai poliziotti di andarsene. Tutti trucchetti psicologici.

Ci rilasciarono verso le due di notte. Mia madre e le mie sorelle erano spaventate di brutto. Mio padre è morto e io sono l'unico maschio della famiglia. Raccontai che mi avevano solo interrogato in un ufficio e che erano stati molto gentili.