La nuova normalità e i nuovi mondi in America Latina

5 / 1 / 2022

Una nuova era all’orizzonte

L’avvento della pandemia ha messo in moto la costruzione di “nuovi mondi”. Il rapido ritorno alla normalità, come prospettato fin dall’inizio dai governi, si è trasformato in un lungo e tortuoso vicolo cieco che ha rideterminato il concetto stesso di normalità, attraverso l’erosione dei diritti e delle libertà individuali e soprattutto alla messa a valore della stessa emergenza sanitaria da parte del sistema capitalista.

Nella primavera del 2020, mentre tutti anelavamo l’arrivo dell’estate e l’uscita dal lockdown, Zibechi scriveva che quello che stava succedendo non era un periodo temporaneo, che non sarebbe terminato tutto con l’arrivo dell’estate, ma che una nuova epoca era arrivata per restare. Per la verità non furono in molti a rendersi conto di questo, forse perché l’idea di finire in un tunnel senza via di uscita era, ed è tutt’ora, difficile da accettare senza farsi prendere dal panico. Tuttavia, Zibechi aveva solo intuito che il sistema mondo non sarebbe più stato lo stesso, che non si sarebbe fermato e che molto presto il potere dei los de arriba si sarebbe riorganizzato. Un “nuovo mondo” profetizzato tra l’altro dagli stessi zapatisti, che con la loro solita proverbiale saggezza e preveggenza politica, già molti anni fa avevano messo in guardia l’umanità dall’arrivo della Tormenta.

A quasi due anni dallo scoppio della crisi sanitaria, l’uscita dal tunnel appare ben lontana. Non sono naturalmente bastate le rigide misure sociali di contenimento né l’introduzione dei vaccini a fermare la diffusione del virus e delle sue molteplici varianti, ma non c’è di che stupirsi: in fondo il virus è qualcosa di “vivo” e come tale viene manipolato, attaccato e sfruttato dal sistema capitalista. Il “terricidio”, ci dicono le sorelle e i fratelli mapuche è così, stermina sistematicamente tutte le forme di vita nel Pianeta per il profitto. Come abbiamo ampiamente visto in questo ultimo anno e mezzo, infatti, l’emergenza sanitaria non ha fermato l’accumulo infinito di ricchezza da parte del sistema capitalista, anzi, una volta ripresosi dallo shock iniziale, i profitti dell’1% sono schizzati in alto come non mai. Per Eduardo Gudynas, direttore del CLAES (Centro Latino Americano di Ecologia Sociale), nella drammatica fase che sta attraversando il continente si sta affermando la “necropolitica[1], vale a dire una rottura nel campo della morale che permette e che fa accettare in silenzio che si lascino morire le persone e la natura per mantenere viva l’economia.

Governi politicamente deboli…

Secondo Garcia Linera, dal 2019 è iniziata la seconda ondata del progressismo, con vittorie elettorali importanti in Messico, Argentina, Bolivia e Perù (a cui vanno aggiunte le recenti in Cile e Honduras) e straordinarie rivolte sociali in Cile e Colombia. Per l’ex vicepresidente boliviano, questa seconda ondata è differente dalla prima per quattro motivi particolari: perché non è frutto di grandi mobilitazioni sociali, perché non è guidata da leader carismatici, perché non cerca di sostituire il vecchio sistema politico e di costruirne uno nuovo come nella prima era e infine perché ha di fronte opposizioni sempre più inclini all’estrema destra.

A questa tendenza del ritorno al potere del progressismo, vanno aggiunte a mio avviso alcune altre considerazioni. Il bipolarismo (incentivato sia da destra sia da sinistra), ha prodotto queste ondate progressiste e reazionarie, tuttavia in questa fase di “necropolitica”, anche la democrazia è in forte crisi, infatti, i governi sono più deboli, a volte senza una maggioranza qualificata nelle sale parlamentari da permettere una linea politica autonoma e, indipendentemente dal colore politico, molto simili nelle azioni di governo, soprattutto per quanto riguarda l’estrattivismo. Nel sistema capitalista, da sempre lo Stato è garante del mantenimento delle condizioni adeguate per l’accumulo di profitti, dal momento che se l’economia crolla lo Stato stesso non ha più tasse per finanziarsi. Tuttavia, in questa fase i margini di manovra del potere politico si sono ristretti notevolmente.

L’esempio più immediato di questa situazione è il Perù, dove il neo presidente eletto, il maestro comunista Pedro Castillo, è in balia degli eventi e impossibilitato a portare avanti le politiche di sinistra promesse in campagna elettorale. Anche il Cile rischia di avviarsi verso una situazione simile perché, nonostante la vittoria al ballottaggio, il leader del centro sinistra Boric non avrà la maggioranza alla Camera e sarà dunque costretto a ricorrere a compromessi con i partiti della vecchia “Concertación” o con le destre che, come abbiamo visto con la Convenzione Costituente, farà di tutto per mettere i bastoni tra le ruote al nuovo governo. Anche dove ci sono maggioranze parlamentari solide, e magari di sinistra, assistiamo a interventi sconcertanti per come aggrediscono i territori e i settori più deboli della società, come i migranti (vedi l’esempio messicano) o le popolazioni indigene (vedi l’esempio boliviano).

Ci sono naturalmente delle differenze sostanziali nel vivere per esempio nel Brasile di Bolsonaro, piuttosto che in quello di Lula: se è vero che le disuguaglianze non diminuiscono e il sistema perpetua lo sfruttamento dei los de abajo, è altrettanto vero che sotto i governi progressisti le condizioni di vita delle fasce povere della popolazioni migliorano sia attraverso una forma di redistribuzione più egualitaria delle rendite dell’estrattivismo, sia attraverso un’attenzione maggiore ai diritti civili, come è avvenuto per esempio in Argentina con la recente legalizzazione dell’aborto.

Qualunque sia il colore politico al potere, l’instabilità o la debolezza politica è accompagnata da una crescente militarizzazione dei territori e da una stretta autoritaria e violenta che permette di tenere sotto controllo le crescenti forme di resistenza popolare e la popolazione in generale facendole accettare in silenzio lo sfruttamento. Sostiene infatti il filosofo andino Atawallpa Oviedo Freire che non ci sono grandi differenze teoriche e pratiche tra sinistra e destra: «entrambe credono nello Stato, la loro unica differenza è che la destra vuole uno stato debole e marginale e la sinistra il contrario. Ma entrambi credono in uno Stato verticale, unificato, gerarchico».

… Ma autoritari e violenti

I vecchi e nuovi governi reazionari, dietro la legittimazione autoritaria promossa da Trump e Bolsonaro, hanno tolto la maschera democratica dietro la quale si celavano, e mostrato le radici violente e autoritarie da cui provengono. È il caso del nuovo Ecuador di Lasso, della Colombia di Duque e del Cile di Piñera e dell’opzione elettorale di Kast, candidato dell’estrema destra cilena arrivato al ballottaggio, che ha rivendicato l’appartenenza ideologica alla dittatura di Pinochet. In queste esperienze è forte e frontale l’attacco ai diritti e ai territori. Non esistono mediazioni tra il potere e le rivendicazioni sociali dal basso e tutto è risolto con l’utilizzo della violenza militare nei confronti di opposizioni e resistenze, vedasi i continui massacri in Colombia ad opera non solo dei paramilitari ma anche delle forze armate ufficiali o la strage premeditata e silenziosa delle popolazioni indigene in Brasile.

Non è che dall’altro lato le cose vadano meglio: le esperienze bolivariane di Venezuela e Bolivia hanno mostrato ampiamente tutti i limiti strutturali, nonostante il tentativo di coprire queste falle attraverso l’uso della propaganda. Sullo stesso piano anche l’esperienza “rivoluzionaria” nicaraguense che da tempo ha sottomesso gli ideali sandinisti al delirio di onnipotenza della coppia presidenziale Ortega-Murillo. Infine, l’estate ci ha portato anche la crisi cubana e costretto il governo simbolo della resistenza all’imperialismo a ricorrere all’uso della forza per reprimere il malcontento popolare e le manifestazioni di protesta. Se è vero che dietro alle proteste in questi paesi c’è sempre la regia imperialista, è altrettanto vero che ridurre il problema solo a questo rischia di non far comprendere a fondo i cambiamenti epocali in atto, non solo a livello geopolitico, ma anche a livello sociale.

Mentre a destra prevale l’utilizzo senza mezzi termini della violenza come strumento alla risoluzione dei conflitti, a sinistra la stessa arma, la violenza statale, è certamente ridimensionata e mescolata con un buona dose di propaganda per “nascondere” il proprio operato. In questo il governo di López Obrador in Messico è stato magistrale: arrivato alla presidenza promettendo di porre fine alla cosiddetta “guerra al narco”, López Obrador ha avviato una nuova militarizzazione del territorio con la neonata Guardia Nacional (sorta dalle ceneri della corrotta e violenta Polícia Federal), soprattutto nelle zone di “conflitto sociale” (come ad esempio il Chiapas zapatista, le frontiere nord e sud o le regione interessate dai mega progetti); inoltre lo sfruttamento dei territori con le grandi opere è chiamato “sviluppo sostenibile” e l’arresto e le deportazioni dei migranti sono chiamate “salvataggi umanitari” degli stessi. Cambiano le parole, ma i risultati sono comunque simili, con le forze armate, in questo caso la Guardia Nacional, a garantire, non solo la prosecuzione di politiche estrattiviste e di privazioni dei diritti come vuole il sistema, ma anche il contenimento di tutte quelle soggettività e realtà organizzate che mettono in crisi il discorso egemonico della cosiddetta “quarta trasformazione”. Insomma, è cambiato il maggiordomo ma non il padrone, come hanno sottolineato gli zapatisti poco dopo le elezioni del 2018.

Che la militarizzazione serva a fare la guerra in particolare alle popolazioni indigene è dimostrato anche dalla continua aggressione al popolo mapuche, sia nella parte cilena, sia in quella argentina del Wallmapu. Di fronte all’attuale crisi capitalista e alla depredazione dei territori e delle risorse, le popolazioni mapuche hanno iniziato una intensa attività di recupero territoriale. La risposta dei governi interessati anche in questo caso è stata una sola: repressione e criminalizzazione durissima a difesa del colonialismo. Proprio recentemente infatti, sia nella parte cilena, sia in quella argentina ci sono stati violenti attacchi contro le comunità in resistenza e in alcuni casi anche delle vittime.

Infine, dove non arriva l’azione militare, arriva l’azione paramilitare. Anche in questo caso, gli esempi più eclatanti vengono dal Chiapas, dove le comunità zapatiste da mesi stanno facendo i conti con la recrudescenza del fenomeno. Paramilitarismo che, ricordiamo, è strettamente legato al potere politico perché garantisce il “lavoro sporco” a difesa degli interessi capitalisti di sfruttamento e di controllo dei territori. È così anche in Colombia dove la firma degli accordi di pace tra governo e FARC ha provocato un vuoto di potere nei territori prima controllati dalla guerriglia e un intensificarsi dell’azione paramilitare con centinaia di ex guerriglieri uccisi dai paramilitari, 48 solo nell’ultimo anno. Sempre in Colombia, il paramilitarismo si è notato anche nella repressione al paro nacional degli ultimi mesi. In questo caso, ma anche nel caso cileno, questo fenomeno è legato a formazioni di estrema destra, che in accordo con le forze armate o dietro la loro protezione e impunità agiscono indisturbati per aggredire le manifestazioni contro i governi e le loro politiche economiche.

I nuovi mondi “desde abajo” e i pericoli della cooptazione “desde arriba”

Le rivolte dell’autunno 2019, in particolare quella in Ecuador contro il “paquetazo” economico e l’estallido social cileno scoppiato contro il “tarifazo” (l’aumento del prezzo del biglietto della metro), sono state certamente un punto di svolta nella costruzione di un “nuovo mondo” desde abajo. Sotto la spinta dei movimenti indigeno, femminista e studentesco, le rivolte che si sono date hanno in breve cominciato a pensare e a costruire nuovi modi di stare in piazza, di resistere, e nuovi modi di stare insieme e di proteggersi, in autonomia. La pandemia poi ha accelerato questo passaggio: l’abbandono subìto dalla popolazione da parte delle istituzioni ha di fatto costretto le comunità in lotta (indigene, ma anche di barrios urbani) a prendersi cura di sé stesse attraverso la costruzione di spazi riconquistati e auto gestiti, attraverso le “ollas comunitarie”, le assemblee popolari e le molte altre iniziative comunitarie solidali nel campo della salute, dei diritti, della cultura. Sono centinaia le esperienze virtuose nel continente che, proprio come il virus, si sono diffuse a macchia d’olio in tutto il continente.

Esperienze che riprendono il modello di organizzazione comunitario indigeno e lo trasportano nelle proprie realtà cercando di costruire un modello di democrazia diretto e dal basso che supplisca alle ingiustizie prodotte dalla democrazia dall’alto. Esperienze che si basano in primo luogo nella difesa della propria comunità dalla violenza delle forze armate e dallo sfruttamento prodotta dal sistema ma che poi sono capaci di guardare al futuro attraverso la partecipazione attiva nell’organizzazione della vita comune.

A questa prospettiva dal basso e per chi sta in basso si contrappone il pericolo di cooptazione da parte delle esperienze di sinistra istituzionali. In questo senso il caso cileno è emblematico: la Convenzione Costituente è stata vista da parte dei movimenti come un “tradimento” dei partiti politici di sinistra che firmando l’accordo senza una consultazione con la piazza hanno “salvato” il presidente Piñera da una più che possibile caduta. La fortissima spinta popolare e radicale proveniente dal basso, in questo caso è stata indebolita ma in cambio ha favorito l’avvio di un iter istituzionale che potrà effettivamente essere importante almeno a livello simbolico. Allo stesso modo, anche la vittoria di Boric alle elezioni è nata più dalla necessità di fermare l’opzione pinochetista rappresentata da Kast che all’adesione a un progetto politico che è certamente di rottura col recente passato ma non radicale.

Ciò che il potere teme di più è proprio la creazione di “contropotere”, di autonomia dalle istituzioni statali. Per questo quella che molti vedono come “restaurazione progressista” nel continente può e deve essere letta anche in ottica di sistema, nel senso che in questa fase dove i diritti vengono erosi e si chiedono sacrifici enormi alle popolazioni, sono più funzionali i governi progressisti, capaci di far accettare queste misure e amministrare in modo migliore lo Stato e soprattutto di ricondurre dentro l’alveo istituzionale resistenze e autonomie, piuttosto di quelli di estrema destra più violenti e autoritari che, al contrario, sono motivo per nuove e pericolose insorgenze.

Ecco perché nella narrazione dominante il nuovo presidente cileno diventa, il leader del movimento studentesco, a 35 anni, ecologista, femminista e addirittura di tutto l’estallido social. Ecco perché viene ingigantito il suo ruolo e la sua figura di leader e sminuito e nascosto il ruolo avuto dalle centinaia di migliaia di giovani e meno giovani che, scendendo nelle strade a manifestare per oltre due anni, hanno determinato il successo di Boric.

Un altro esempio di cooptazione delle realtà di lotta è dato dal caso boliviano. In questo caso la polarizzazione di cui il governo “pachamamista” si è reso complice, ha di fatto costretto a schierarsi contro “alternative” di governo fasciste silenziando in questo modo le resistenze indigene che si oppongono ai progetti estrattivisti proprio di chi dice di difendere la Pachamama. Il nuovo governo del MAS guidato da Arce, nonostante un’intensa propaganda indigenista e pachamamista, ha infatti chiuso gli occhi di fronte agli incendi illegali dell’Amazzonia e riattivato alcuni importanti progetti estrattivisti come il progetto della diga idroelettrica di Chepete Bala e il famoso tratto stradale all’interno del parco nazionale del Tipnis. Inoltre, proprio recentemente, il governo ha annunciato che per combattere l'estrattivismo minerario illegale legalizzerà tutte le operazioni minerarie dentro l'area protetta del Madidi. Infine, alcuni ricercatori del CEDIB (Centro de Documentación e información Bolivia), hanno denunciato come i governi di Morales, Añez e Arce, hanno agito allo stesso modo di fronte allo sfruttamento dei giacimenti di oro, concedendo alle imprese estrattiviste di inquinare e avvelenare i territori col mercurio senza fare nulla.

Ritornando al Messico, la sottile linea (ma nemmeno troppo) che lega i governi “progressisti” al sistema capitalista è ben visibile nella difesa e nella promozione dei mega progetti. Appena diventato presidente, López Obrador si è fatto consegnare il “bastón de mando” da alcune popolazioni indigene di fatto conquistando, attraverso l’uso della propaganda, il diritto di iniziare i suoi piani di sfruttamento dei territori, in larga parte indigeni. Da questo momento in avanti, infatti, ogni realtà di opposizione o resistenza agli occhi del presidente è diventata pubblicamente conservatrice perché si oppone allo sviluppo del paese e quindi, secondo il suo ragionamento, alla lotta alla povertà. In realtà sappiamo benissimo che le grandi opere, non favoriscono mai le popolazioni colpite da questa piaga, ma solamente gli interessi privati delle grandi corporations. Inoltre, proprio poche settimane fa AMLO ha sancito che i mega progetti tra i quali il mal chiamato Tren Maya, il Corredor Transistmico e il Proyecto Integral Morelos, sono una questione di sicurezza nazionale, di fatto blindando la loro esecuzione e attaccando in questo modo le resistenze contro questi progetti.

A proposito di questa decisione, scrive il giornalista messicano Rubén Martín: «il progresso statale-capitalista è in realtà l’espropriazione e distruzione dei mezzi di sussistenza per le comunità. Dove lo Stato e il capitale vedono progetti di sviluppo, i popoli e le comunità vedono progetti di distruzione e di morte. E questo perché i mega progetti, piuttosto che le opere di sviluppo e investimento per le comunità, sono opere necessarie per la circolazione del capitale. Si possono identificare due tipi di mega progetti: le infrastrutture necessarie per il funzionamento dell’economia capitalista e che di solito sono opere statali; e i mega progetti che sono affari delle corporation private». Come successo in Brasile durante l’era di Lula, anche in Messico il governo progressista è funzionale agli interessi del capitale, prova ne è che negli ultimi tre anni i profitti delle sei persone più ricche del Paese, hanno visto crescere il proprio patrimonio di ben sei volte.

Dalla speranza alla realtà: pratiche di resistenza e costruzione di nuovi mondi nella pandemia

Come spesso accade la regione latinoamericana ci offre insegnamenti e suggestioni molto interessanti. Il fallimento dei governi progressisti ci dice chiaramente che oggi il “sole dell’avvenire” non è più raggiungibile attraverso la conquista del potere ma solo attraverso la costruzione di “contropotere”. In questo senso l’esperienza zapatista è stata ancora una volta avanguardia di una tendenza che oggi, soprattutto nel mondo indigeno, appare chiara e passa da due concetti pratici fondamentali: resistenza e autonomia. Non ci sono solo gli zapatisti e i mapuche, naturalmente, a segnare questa “alterità”: la lotta per l’autonomia non è infatti solo una questione indigena ma riguarda l’intera umanità e chiunque osi ancora sognare un altro mondo. I vari estallidos degli ultimi anni infatti hanno visto il proliferare di forme organizzative dal basso anche in contesti urbani e metropolitani.

A livello teorico, il concetto chiave a mio avviso che raggruppa questo cammino è il ritorno alla terra e la sua difesa. Gli effetti devastanti della crisi climatica sono qui ed ora e sebbene a volte non ce ne rendiamo pienamente conto dalla nostra posizione privilegiata di abitanti del nord globale, hanno cominciato a colpire le comunità povere dei tanti sud del mondo. Pensiamo per esempio ai danni provocati dagli eventi meteorologici, ma anche agli effetti dell’estrattivismo selvaggio promosso per la ripresa economica con le drammatiche conseguenze come il “desplazamiento” forzato di intere comunità per attività estrattiviste o per la costruzione di mega opere impattanti ecologicamente, o ancora l’avvelenamento delle risorse vitali, come l’acqua, la terra, l’aria. Ritornare alla terra è anche il messaggio che ci hanno lasciato le compagne e i compagni zapatisti nella recente gira in Slumil K’ajxemk’Op. Non si tratta naturalmente di diventare tutti contadini ma di assumere e di riconoscere l’importanza del benessere del Pianeta, del rispetto e della sua difesa dalle aggressioni del sistema capitalista. La centralità della battaglia climatica è data anche dal fatto che senza un territorio da difendere non possono esistere tutte le altre importanti battaglie. Inoltre la crisi climatica ingloba altre crisi, come per esempio quella migratoria o dei diritti del lavoro. È il tempo quindi di riconoscere il diritto stesso del Pianeta a r/esistere.

In questo senso l’esperienza della “Gira zapatista” è stata illuminante perché ci ha dato il senso del motivo per cui stiamo lottando tutte e tutti: per la caduta del capitalismo. Fare questo significa innanzitutto organizzarsi e resistere alla guerra in atto promossa dal sistema capitalista. E poi, cominciare a costruire quel “nuovo mondo” che vogliamo iniziando dalla costruzione di forme di relazioni che si pongano fuori dal controllo del sistema capitalista: relazioni tra esseri umani, tra esseri umani e mondo animale e tra esseri umani e il Pianeta. Il sistema capitalista sta portando il Pianeta al collasso sotto il peso della propria insaziabilità e non cadrà da solo perché, come sta dimostrando la pandemia, si rigenera attraverso cicli di lotta-ristrutturazione-sviluppo. Siamo noi los de abajo a dover causare la sua caduta, determinando un livello di lotte tali da non poter essere sussunte da un nuovo ciclo di accumulazione e al tempo stesso costruendo l’alternativa di vita che prenderà il posto di questa realtà di morte. L’uscita dalla Tormenta, o il sol dell’avvenire, passa da questo cammino in comune.

Immagine di copertina: Luan Colectiva de Acción Fotográfica - battaglia contro le miniere nel Chubut argentino



[1] Il concetto di “necropolitica” è stato coniato per la prima volta dal filosofo, storico, teorico politico, professore universitario camerunense formatosi alla Sorbona Achille Mbembe come approfondimento delle nozioni di biopolitica e biopotere introdotte da Michel Foucault applicato alle forme di dominio coloniali e neocoloniali per indicare l’applicazione della sovranità alla vita, cioè il potere di decidere chi può vivere e chi può essere lasciato morire.