La sentenza italiana sull'Operazione Condor: una luce nel buio delle dittature sudamericane

Intervista alla giornalista Janaina César sulla sentenza che ha condannato all’ergastolo i 24 ex militari delle dittature sudamericane

22 / 7 / 2019

Lo scorso 8 luglio la Prima Corte d’assise d’Appello di Roma ha condannato all’ergastolo i 24 ex militari delle dittature di Uruguay, Cile, Bolivia e Perù imputati nel processo legato all’Operazione Condor. Abbiamo intervistato Janaina César, giornalista che collabora con diverse testate brasiliane (The Intercept Brasil, O Opera Mundi, Projeto Colabora, Estado de S. Paulo e IstoE) e italiane (Osservatorio Diritti, L’Espresso e Atreconomia), che da anni segue questo processo.

Partiamo dalla ricostruzione dell’Operazione Condor e della vicenda giudiziaria italiana che si lega a questa.

L’operazione Condor è stata una rete di collaborazione tra le agenzie di intelligence delle varie dittature del Sudamerica degli anni ’70 e ’80. Vi hanno partecipato Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Perù, Cile e Bolivia. Non conosciamo il momento preciso in cui è nata, perché molti documenti sono stati distrutti, ma si suppone che tutto sia iniziato nel 1973 in Cile, anche se ci sono altre versioni che la datano ancora prima in Brasile, dove c’è stata la prima delle dittature in questione.

Questa rete aveva come obiettivo non solo quello di scambiarsi informazioni sui dissidenti politici, ma consentiva anche scambi di prigionieri politici tra i vari Paesi. Ad esempio, gli agenti uruguaiani potevano tranquillamente operare nel territorio brasiliano per ricercare e arrestare oppositori politici del loro Paese; i brasiliani potevano entrare in Argentina a fare la stessa cosa. Inoltre vi era una vera e propria collaborazione militare tra i vari Paesi per reprimere violentemente qualsiasi forma di attività politica di opposizione, pubblica o clandestina che fosse. I prigionieri venivano infine smistati ciascuno nel proprio Paese d’origine. In Argentina e in Cile, ma non solo, ci sono stati i famigerati vuelos de la muerte,  in cui i prigionieri politici venivano drogati e gettati dagli aerei in mare e nei fiumi. Non si ha ancora oggi una cifra precisa di quante persone siano state assassinate in questo modo, però soltanto in Argentina si stima - in base alle confessioni di ex detenuti militari come Adolfo Scilingo e Juan Carlos Francisco Bossi - che almeno seimila persone siano morti sui voli.

In quegli anni ci sono state anche tante vittime italiane, di persone emigrate in Sudamerica che ancora avevano formalmente la cittadinanza italiana, sia tra gli assassinati che tra i desaparecidos. I familiari di queste persone, dopo che il giudice spagnolo Baltasar Garzón emise un mandato di cattura internazionale nei confronti di Augusto Pinochet, proprio per la morte e la tortura di alcuni cittadini spagnoli durante la sua dittatura, hanno chiesto alla Procura di Roma di avviare un’indagine sulle varie vicende di cui erano stati vittima il loro cari. Siamo nel 1999, a meno di un anno dal caso sollevato da Garzón.

La Procura di Roma accoglie la proposta, anche perché la legge italiana impone di indagare su molte tipologie di reati di cui sono vittima cittadini italiani, anche se questi vengono commessi all’estero. Con l’avallo di Oliviero Diliberto, all’epoca Ministro di Grazia e Giustizia, le indagini prendono il via. Le operazioni si mostrano fin dall’inizio molto complesse e dopo oltre 10 anni si formulano denunce a carico di 146 persone, anche grazie alla collaborazione delle tante associazioni che in Sudamerica lavorano per ottenere verità e giustizia per le vittime delle dittature e anche dell’associazione italiana 24 marzo.

Delle 146 persone denunciate, solo 33 sono state rinviate a giudizio; molti nel frattempo sono morti, gli argentini sono stati stralciati perché già inseriti in un processi ad hoc (anche se io credo che avesse senso mantenerli anche in questo processo).

Perché quella di alcuni giorni fa è una sentenza storica e che cosa ribalta rispetto a quella di primo grado che c’era stata nel gennaio 2017?

Intanto bisogna fare una precisazione, perché la sentenza di primo grado era già stata di per sé una sentenza storica, perché ha condannato gli 8 imputati che rappresentavano i vertici politico-militari di questi Paesi, assolvendo 19 persone (altre 6 erano morte nel corso del dibattimento). Le persone assolte rappresentavano la catena di comando , coloro che direttamente dirigevano le operazioni di arresto, sequestro, tortura e uccisione delle persone.

La sentenza di primo grado non era riuscita a dimostrare questo meccanismo, però è stata la prima volta che l’Operazione Condor è stata riconosciuta in un processo giudiziario in Europa. E questo, in sé, è già un punto importantissimo.

Un’ulteriore svolta c’è stata nel processo d’appello dello scorso 8 luglio con cui la Corte, oltre a confermare l’esistenza dell’Operazione Condor, ha condannato anche le “seconde linee”, quelli a cui era affidato il lavoro sporco. 

Quello che è emerso chiaramente è che l’obiettivo dichiarato dell’Operazione Condor era di eliminare fisicamente i dissidenti politici. Coloro che si sono salvati spesso hanno fatto patti di collaborazione con le autorità, consegnando i loro compagni. Gli elementi decisivi per le condanne sono emersi grazie al lavoro degli avvocati che sono riusciti a ritrovare alcuni documenti ufficiali in Argentina, Uruguay e Stati Uniti, dove da poco sono stati desegretati gli archivi che li contenevano.

In questi documenti emerge in particolare la figura di Nestor Troccoli, ex agente dei Servizi dell'Uruguay che ora ha la cittadinanza italiana, vero e proprio anello di collegamento tra Uruguay e Argentina. Troccoli è fuggito in Italia, e precisamente Salerno, terra d’origine dei suoi genitori, proprio quando stava per essere processato in Uruguay, sperando di farla franca. 

In seguito alla sua fuga, Troccoli è stato rintracciato dalle autorità uruguayane, che hanno chiesto l’estradizione all’Italia, senza ottenerla. Dopo la negazione dell’estradizione, l’ex agente rientra immediatamente tra gli imputati del processo italiano all’Operazione Condor. Ad oggi, Troccoli è l’unico dei condannati che si trova su suolo italiano e che può effettivamente scontare la condanna. La preoccupazione di tutti è che lui possa scappare anche dall’Italia, come fece a suo tempo dall’Uruguay.

Adesso ci sarà anche un ricorso in Cassazione? 

Per questo bisogna aspettare i tempi della giustizia italiana. Da quando è stata pubblicata la sentenza ci vorranno 90 giorni per capire le motivazioni e da lì ci vorranno altri 40 giorni per vedere se i condannati presenteranno effettivamente ricorso in Cassazione. Io credo che la cosa slitterà verosimilmente all’anno prossimo, anche se mi auguro che la sentenza possa ritenersi definitiva.

Qual è stato, nel corso degli anni, il ruolo delle istituzioni italiane nell’insabbiare l’Operazione Condor e le vicende legate alle dittature sudamericane?

L’Italia ha avuto sempre un ruolo ambivalente, perché se da un lato accoglieva gli esiliati politici, dall’altro non ha mai fatto alcuna pressione perché venissero alla luce le questioni politiche più importanti di questo periodo.

Io posso parlare con precisione solo riguardo la situazione brasiliana. Sul rapporto tra Italia e Brasile ho fatto una recente ricerca negli archivi della Farnesina. 

Anche se nel 1964, anno in cui inizia la dittatura in Brasile, l’Italia era governata da una coalizione del cosiddetto “centro-sinistra”, l’allora Ambasciatore italiano ebbe un atteggiamento molto benevolo nei confronti dei militari golpisti. In una lettera inviata al governo italiano, definì il colpo di Stato una “rivoluzione”, che è l’espressione utilizzata sempre dalla dittatura proprio per legittimare la propria azione di forza.  A mio avviso questo esemplifica molto l’atteggiamento che ha avuto la politica italiana nei confronti di questi regimi.