La Tunisia oggi, le voci degli attivisti

4 / 8 / 2014

Un reportage in cinque puntate dalla Tunisia con interviste ad attivisti della sinistra che ci parlano della situazione politica nel paese a tre anni dalla primavera di rivolta

Se si pensa alla guerra civile in Siria, alla nuova dittatura in Egitto, alla cronica instabilità in Libia e via dicendo, al momento la Tunisia è senza dubbio il paese arabo in cui le rivolte del 2011 hanno prodotto i migliori risultati. I diritti civili, nonostante i contraccolpi provenienti dal “profondo stato”, si stanno consolidando e così pure le istituzioni della democrazia parlamentare. Eppure il morale tra la gioventù rivoluzionaria sembra essere ai minimi storici, tanto è vero che si sente spesso dire che questo “È un brutto periodo” e che “Dopo la rivoluzione non è cambiato niente”.

La rivoluzione aveva portato la politica nelle strade e aveva fatto dell'azione diretta il principale meccanismo di partecipazione. Tuttavia il centro dell'azione è poi passato gradualmente dalla piazza agli show elettorali sui media mainstream e ora i cittadini sono chiamati a esprimersi meramente attraverso il voto alle elezioni politiche del 26 ottobre 2014. Tale processo di “normalizzazione”, così tipico della fase discendente dei grandi cicli di lotta, crea un enorme senso di frustrazione tra coloro che la rivoluzione l'hanno fatta e che puntavano ad andare oltre uno stretto parlamentarismo che finora non è riuscito a scardinare il modello neoliberista egemonico nel paese da circa trent'anni.

Le principali forze elettorali in campo sono la destra islamista di Ennahda, i centristi di Nidaa Tounes e la sinistra del Fronte Popolare, a cui si aggiungono il liberale Congresso per la Repubblica dell'attuale presidente Moncef Marzouki, l'Ettakatol (di centro-sinistra) e il Partito Repubblicano (di centro). Il Fronte Popolare riunisce ben undici partiti di sinistra tra marxisti-leninisti, nazionalisti, panarabisti, trotzkisti e baathisti (i verdi ne sono usciti a maggio scorso). La principale critica che viene mossa al Fronte Popolare dagli ambienti di movimento è quella di aver mantenuto un immaginario e un modello organizzativo novecentesco che difficilmente potrà dargli un seguito di massa in grado di incidere sui reali equilibri di potere. La vera sfida sarà tra Ennahda e Nidaa Tounes (partito in cui gli ex membri del partito di Ben Ali hanno un ruolo assai prominente), con un dibattito tutto incentrato sul ruolo della religione nello stato e nella società, che avrà certamente ripercussioni reali su temi quali i diritti delle donne ma che nasconde la sostanziale somiglianza tra i due partiti in tema economico: nessuno dei due mette in discussione il debito dittatoriale e gli accordi con Fondo Monetario e Banca Mondiale con le usuali condizionalità neoliberiste annesse.

Attori importanti sono la triade del Sindacato generale degli studenti tunisini (Uget), il Sindacato dei diplomati disoccupati (Udc) e il Sindacato generale dei lavoratori tunisini (Ugtt). Le tre organizzazioni sono indipendenti l'una dall'altra ma i quadri della prima tendono a passare alle altre due nel corso del loro percorso di militanza. L'Uget e l'Udc mantengono pratiche conflittuali e posizioni radicali mentre l'Ugtt è divisa tra una sinistra militante e un centrismo burocratizzato. L'Ugtt è una grande forza sociale ed è stata cruciale nel determinare gli esiti dello stallo istituzionale che si è concluso con le dimissioni del governo di Ennahda e l'entrata in scena del Primo ministro “tecnocratico” Mehdi Jomaa. Il sindacato si è così posto a garante della stabilità e sembra aver rinunciato, almeno per ora, a farsi promotore di una discontinuità negli assetti socioeconomici del paese.

Uno sviluppo molto interessante è quello dell'emersione di una nuova militanza più fluida, libertaria e legata alle controculture. A Tunisi, per esempio, esistono il centro sociale Twiza, il collettivo di arte underground Blech 7es e il collettivo anarchico Désobéissance, assieme a tutta una serie di mediattivisti, artisti e attivisti non affiliati a collettivi precisi, che però hanno avuto un ruolo di primo piano nel periodo rivoluzionario.

Le due minacce principali a quanto si è conquistato finora sono il potere di un “profondo stato” che non è mai stato veramente riformato e la perseveranza nel neoliberismo. I dirigenti del Ministero degli Interni sono gli stessi dell'epoca di Ben Ali e nutrono un forte revanscismo verso le forze rivoluzionarie, che si è manifestato anche nel paradossale arresto di giovani che avevano violato la legge in una rivoluzione che teoricamente è stata vittoriosa, ma che di fatto ha per ora lasciato immutati i codici penali precedenti. Dopo forti pressioni da parte dei movimenti, è stata approvata un'amnistia per chiunque abbia commesso “crimini rivoluzionari” tra il 17 dicembre 2010 e il 28 febbraio 2011, cosa che non ha risolto la situazione di coloro che non ritenevano che la rivoluzione fosse finita nel febbraio 2011.

Il periodo post-rivoluzionario ha visto un ulteriore deterioramento dei diritti socioeconomici, che tanto importanti erano stati nel causare la rivolta e nelle richieste della popolazione. Secondo i dati del Fmi, il tasso di disoccupazione, che nel 2010 era al 13%, è oggi a un incredibile 16%. Questo è senz'altro dovuto al calo del turismo e della “fiducia dei mercati” causato dall'instabilità politica, ma sopratutto all'assenza pratica di un modello economico alternativo a quello che ha già fallito. Come si diceva sopra, nessuna grande forza politica propone di ripudiare il debito dittatoriale, riformare la tassazione in modo progressivo e mettere in campo una strategia di politiche industriali in grado di alterare la posizione del paese nella divisione internazionale del lavoro. Per non parlare di idee più radicali e lontane come forme di autogestione dei mezzi di produzione. Rinnovate privatizzazioni saranno accolte con molta rabbia dai molti tunisini che vedono ancora il pubblico impiego come parte dell'“economia morale” del paese. Un ulteriore aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze potrebbe favorire un rilancio delle lotte sociali e un avanzamento delle sinistre come è già accaduto nei paesi dell'America Latina anni dopo la democratizzazione formale. Ma vista la forza degli islamisti e del profondo stato, il pericolo di un'involuzione autoritaria è sempre presente a meno che non si riesca a indebolire tali elementi reazionari.

Le interviste ai quattro attivisti tunisini spiegano la loro lettura della rivoluzione e dell'attuale congiuntura politica. Le differenti interpretazioni sul ruolo del sindacato e dello stato riflettono il dibattito attualmente in corso all'interno della sinistra tunisina.