Intervista a due dirigenti del Pjak, che dai monti del Kurdistan iracheno combattono il centralismo di Teheran

La voce dei curdi iraniani

Una intervista fatta nel febbraio 2009 da Christian Elia per PeaceReport

9 / 2 / 2009

Il dipartimento di Stato Usa, ieri, ha inserito nella cosiddetta 'lista nera' il Party for free life in Kurdistan (Pjak), gruppo armato di curdi iraniani nato nel 2004, con la finalità ufficiale di lottare contro il centralismo del governo di Teheran, per il riconoscimento dei diritti della minoranza curda in Iran. Dal 2004 a oggi sono centinaia le incursioni condotte in territorio iraniano dai guerriglieri del Pjak, mentre il governo di Teheran reagisce accusandoli di essere al soldo degli Usa per destabilizzare il regime degli ayatollah. L'Iran, nel 2006, ha cominciato la costruzione di un muro nei pressi del posto di frontiera di Haji Omran, al confine con l'Iraq. Il Pjak, come il Partito Curdo dei Lavoratori (Pkk) si nasconde sui monti Qandil, nel Kurdistan iracheno. Il governo di Teheran ha anche elaborato una strategia comune con la Turchia nella caccia spietata ai guerriglieri curdi.

A parlare a nome del Pjak, dopo lunghe trattative, in una desolata costruzione sui monti Qandil, sono Bryar Gabar e Agri Shahoo, rispettivamente responsabile politico e militare del Pjak.

Com'è organizzato il Pjak?
Il movimento è coordinato da un comitato centrale, formato da sette persone - risponde hewal (la parola curda che sta per 'compagno') Bryar - Due di questi siamo noi. Per coordinamento s'intende tutto quello che concerne la vita del Pjak: dalle attività militari a quelle politiche e così via. Siamo stati eletti dal congresso del Pjak, nell'aprile 2004, quando abbiamo deciso di dar vita alla lotta armata. Sembra un movimento giovane, ma ha alle spalle una lunga storia, una cultura millenaria incastonata nel puzzle etnico dell'Iran, non certo un corpo estraneo come tenta di far credere il governo iraniano. La nascita degli stati nazionali ha generato il problema: una nazione, una bandiera, un popolo, una lingua. L'etnocentrismo persiano dello Shah prima e degli ayatollah dopo ha messo tutte le minoranze iraniane in una condizione di emarginazione. Contro questo abbiamo deciso di lottare.

Perché la decisione di lottare con le armi?
Come dicevo il movimento nasce nel 2004, ma solo come atto finale di un lungo processo di maturazione politica. L'arresto di Ocalan ha accellerato una presa di coscienza collettiva, responsabilizzandoci tutti. Per motivi interni e per l'agenda politica del regime iraniano che, in quel tempo, ha incrementato la repressione della componente curda della sua società.

Come mai proprio nel 2004? Quello è stato un anno particolare: i curdi iraniani si danno alla lotta armata, i curdi siriani si scontrano con le truppe governative e in Turchia il Pkk riprende la lotta dopo anni piuttosto tranquilli. Alcuni sostengono che non sia un caso e che, dopo la caduta di Saddam, i curdi abbiano tentato di riproporre il modello di autonomia dei curdi iracheni anche in altri stati. Nel caso di Siria e Iran, dove nel 2004 è stato eletto presidente Ahmadinejad, con il sostegno Usa per destabilizzare due governi nemici.
Lei cita due eventi importanti: l'elezione di Ahmadinejad e la caduta di Saddam. Ma questa visione tradisce il vostro punto di vista esterno, non quello interno. Una visione che taglia fuori tutte le attività della resistenza curda in Iran, prima della nascita del Pjak. L'elezione di Ahmadinejad, per noi, coincide con il periodo peggiore della repressione, inutile negarlo, ma non è che un passaggio di un cammino fatto della negazione della nostra identità in Iran. Molti più cambiamenti nella situazione curda li ha generati la guerra del Golfo nel 1991 e la dissoluzione dell'Unione Sovietica. Questo ha differenziato la lotta in Iran da quella in Turchia e Iraq. Cammini e problemi differenti, unificati dalla leadership di Ocalan. Già prima della nascita del Pjak, molti di noi si erano uniti al Pkk e hanno fatto esperienza politica e militare. Nel 2004 abbiamo sentito di essere pronti a fare da soli.Quindi nega l'appoggio degli Usa? Anche se in passato alcuni vostri esponenti hanno avuto, come scritto dal Washington Post, degli incontri diplomatici negli Stati Uniti?
Gli Usa sono avversari dell'Iran, che così come sono rappresentano un ostacolo a quel progetto chiamato Grande Medio Oriente. Fa parte di una lettura molto superficiale delle cose l'idea che, per questo, noi dovremmo essere alleati degli Usa o peggio ancora lavorare per loro. La situazione è molto più complessa di così. Armi nucleari, diritti umani sono tutti pretesti: Washington ha paura che Teheran diventi una potenza regionale. La domanda è: vogliono gli Usa fare in Iran quello che hanno fatto in Afghanistan o in Iraq? Se si, il problema sarà una coalizione internazionale contro l'Iran, non un sistema di alleanze interno all'Iran. Non ha senso puntare sulle minoranze. Se anche supportano qualcuno, lo fanno solo a livello culturale, non politico. Le stesse minoranze sono divise tra di loro! Ahmadinejad lo dice perché fa comodo far passare noi o gruppi arabi come agenti stranieri, per giustificare le repressioni interne del regime che guida. Noi siamo indipendenti, e l'abbiamo sempre ribadito, criticando l'alleanza Usa con la Turchia e le strategie Usa nelle regione. Viviamo in queste montagne e sono gli Usa che forniscono gli aerei senza pilota che servono ai turchi per bombardare quasi ogni giorno, da un anno, i monti Qandil. Bombardano anche noi, bella forma di alleanza! Non ci inserivano nella 'lista nera' sono per opposizione ad Ahmadinejad. Il Washington Post non è indipendente, ma come tutti i media lavora per le politiche del suo governo.

I curdi iraniani hanno dato un grande sostegno all'invasione Usa dell'Iraq nel 2003 e oggi godono di una sostanziale indipendenza. Se gli Usa attaccassero l'Iran fareste lo stesso?
Sono valutazioni che lasciano il tempo che trovano. Se si concretizzasse un attacco all'Iran potrebbe crearsi un'opportunità interessante per noi. Non appoggeremo mai un'invasione, soprattutto perché non sarebbero chiari i fini, ma valuteremmo la situazione.

Voi e il Pkk vi coordinate nelle azioni militari? Avete una strategia comune? Aveva senso aprire un secondo fronte mentre l'esercito turco lancia una sorta di offensiva finale in Turchia?
Condividiamo il progetto confederale, l'unica vera soluzione per la questione curda e per il Medio Oriente. Sono i confini ad aver creato la situazione che c'è adesso. Tutte le nostre operazioni sono in territorio iraniano e solo contro obiettivi militari. Nessuno di noi lotta militarmente in un territorio che non rientri nella strategia regionale del singolo movimento. Abbiamo già ucciso più di cento soldati iraniani, ma non lo dice nessuno. Ma è sempre legittima difesa, quando loro ci attaccano qui. Attaccherebbero anche la piccola casa di un curdo in Africa, come si fa a dire che abbiamo aperto un altro fronte: c'è già un secondo fronte. Voi sottovalutate l'aspetto strategico, come sulla questione di Kirkuk, dove i turchi vogliono mettere le mani. Per questo lanciano l'offensiva contro il Pkk. La coalizione tra Siria, Turchia e Iran esisteva già, non solo dal 2004.

Ma, per la prima volta, i militari iraniani e turchi collaborano contro di voi e contro il Pkk. Costruendo anche un muro al confine.
Il muro? Rientra nei piani di soffocamento dell'identità curda. Vogliono annientarci, costituendo una zona smilitarizzata sui monti Qandil. Per quale altro motivo bombarderebbero da più di un anno queste lande desolate. Vogliono terrorizzare i civili, perché sanno che noi e il Pkk siamo movimenti popolari, sostenuti dalla gente. Colpiscono i civili per farli scappare, in modo da lasciarci soli. Il muro è la stessa cosa, un simbolo di questa strategia. Per ora sono solo 5 chilometri, ma continuano la costruzione. Solo che i pastori di queste terre sostengono noi, non loro.