Interessi economici geostrategici si annidano nell'intrigo ordito dalle feluche kazake, proviamo a capirci qualcosa.

L'affaire kazako

23 / 7 / 2013

Sono quasi 2 settimane che i giornaloni ci ammorbano con paginate su paginata sui retroscena dell’affaire kazako, il governo si è stretto a coorte per salvare il ministro Alfano che ha palesemente mentito davanti al Parlamento ma in tutto questo bailamme non abbiamo sentito nessuno che abbia cercato di vedere quello che il governo Letta sta nascondendo sotto il tappeto, facendo fibrillare il Partito Democratico e le sue appendici.

Ieri da Bruxelles Emma Bonino, molto probabilmente perché implicata fin dal 2007 negli accordi d’affari kazaki, ha riaperto la scatola dei pugni, evocando ombre ed omertà dentro la compagine governativa.

Enormi interessi economici sono in gioco dietro la vicenda kazaka, siglati con accordi  che potrebbero diventare carta straccia e coinvolgono in maniera diretta politica energetica strategica italiana ed europea, dove, in quest'area geopolitica, l'ENI - AGIP - SAIPEM la fanno da padroni. Nel corridoio sud europeo correrà un gasdotto che affoda i suoi terminali nel Mar Caspio in territorio kazako, attraversa l'Azerbaijan, Turchia, Grecia e arriva in Puglia.

Riportiamo qui di seguito due illuminanti stralci di articoli, il primo apparso sul portale “altraeconomia” e il secondo su “linkiesta”.

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Un lungo articolo uscito a marzo sulla rivista tedesca Der Spiegel parla del sostegno social-democratico europeo al presidente kazako Nursultan Nazarbayev e alla sua “dittatura post-moderna”. Figure di spicco del centro-sinistra del Vecchio Continente come Romano Prodi, Alfred Gusenbauer (cancelliere austriaco) e Aleksander Kwaniewski (presidente della Polonia) fanno parte dell' “International advisory board” di Nazarbayev, non è dato sapere sulla base di quali livelli di compenso. Ciò che si sa è che lo stesso ex primo ministro inglese Tony Blair percepisce 9 milioni di euro l'anno in qualità di consulente del presidente kazako.

Quando, nell'agosto del 2007, il governo kazako ha avviato la rinegoziazione degli accordi di sfruttamento del mega giacimento di Kashagan (assegnato a un consorzio di giganti del petrolio guidato da Eni, i cui costi complessivi sono stati stimati lo scorso anno a 187 miliardi di dollari), si sono mossi tutti i livelli della diplomazia europea e nazionale per evitare che il giacimento passasse in mano russa o cinese. Dimenticando l'evidenza delle reali violazioni ambientali e dei diritti umani documentate da diverse organizzazioni della società civile internazionale recatesi nel paese (tra cui la Campagna per la riforma della Banca mondiale) il focus europeo e italiano è stato quello di tutelare gli interessi dell'azienda italiana (per l'appunto l'Eni).
Nell'ottobre 2007, Romano Prodi e Emma Bonino (allora ministro del Commercio con l'Estero) hanno guidato una delegazione di oltre 200 industriali italiani, partecipando al Forum economico Italia-Kazakistan ad Astana, organizzato assieme ad Abi e Confindustria. A margine dell'evento hanno “visitato” assieme a Paolo Scaroni (anche allora ad Eni) il giacimento di Kashagan. L'Italia ha sostenuto l'entrata del Kazakistan nell'organizzazione mondiale del commercio e la candidatura del paese alla presidenza Osce, mentre, durante il governo Berlusconi, ha firmato in un sol colpo 14 accordi economici bilaterali con il paese. Il tutto in occasione della visita a Roma di Nazarbayev, che Berlusconi definì “un caro amico”.

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C’è un gasdotto, il Trans Adriatic Pipeline (Tap), che vince a Sud la partita dell’oro azzurro dell’Azerbaijan e riporta gli analisti sull’equilibrio geopolitico del Corridoio meridionale dell’Europa. Poi c’è un altro, il Nabucco Gas Pipeline International Gmbh (Nabucco), che si è battuto per spuntarla a Nord partendo da Est, ma è stato fatto fuori con buona pace dei concorrenti russi che lì si chiamano Gazprom e dalle cui fonti (ma anche da quelle dell’Iran) l’Unione Europea ha deciso di affrancarsi dal 2020. 

Tracciato del TAP dall’Azerbaijan all’Italia

Ma se a lungo termine non si sa se e come il Mediterraneo sarà più stabile di Mosca e Teheran, in questo groviglio da miliardi di euro ora ci sarebbe un problema più urgente, forse il più delicato tra quelli sorti da quando la gara è stata bandita dai sette padroni del gas del bacino Shah Deniz in mar Caspio – la compagnia inglese British Petroleum (BP, 25,5%), la norvegese Statoil (25,5%), la nazionale azera Socar (10%), la russa Lukoil (10%), la francese Total (10%), l’iraniana Nico (10%) e la turca Tpao (9%) – e cioè dove agganciare la coda di questo tubo lungo quasi 800 chilometri e che costerà ad altri tre big dell’energia – gli svizzeri Axpo (42,5%), la stessa Statoil (42,5%) e i tedeschi E.On (15%) – 1,5 miliardi di euro, meno però dei circa 8 miliardi di Nabucco da 3.300 chilometri.

La “grana” riguarda l’Italia. Tap, che il 28 giugno scorso ha ottenuto in via ufficiale la commessa per trasportare nel Vecchio Continente 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno dal 2019 (potenziale fino a 20 miliardi), prevede di spuntare davanti alle coste del Salento dopo aver attraversato mar Adriatico (circa 105 km offshore), Albania (circa 204 km) e Grecia (circa 478 km), ma prima ancora Turchia e Georgia dai gasdotti lì già operativi (rispettivamente Trans-Anatolian gas pipeline, Tanap, e Baku-Tbilisi-Erzurum, BTE). Ma proprio sull’approdo in Puglia dell’impianto, la cui scelta è stata svelata già due giorni prima dell’ufficialità dall’austriaca Omv col 16,7% in Nabucco – stessa quota di Bulgarian Energy Holding, la turca Botas, l’ungherese Magyar Olaj e la rumena Transgaz – la vicenda potrebbe intrecciarsi con un’altra ancora più complessa. Quella del rigassificatore di British Gas a Brindisi, archiviata dopo dieci anni di stand–by, tra permessi a metà, dichiarati abusivismi e processi per presunte tangenti, che se realizzato avrebbe dovuto ridurre proprio la dipendenza dai gasdotti.

Tap ha fatto sapere di non escludere del tutto un ennesimo cambio di rotta del tracciato proprio nella zona occupata fino a pochi mesi fa da Brindisi Lng (incaricata da Brindisi Gas) da quella finora scelta davanti alle coste del Leccese, tra San Foca e Torre Specchia nel comune di Melendugno. Qui previsti un micro tunnel di quasi 50 chilometri (5 interrati e 45 in mare) e un «terminale di ricezione» con stazione di misura e controllo (a circa 800 metri dagli edifici abitati più vicini e in uno spazio occupato da strutture per 9 ettari), da allacciare alla rete nazionale Snam che col sì a Tap vede ora decollare il raddoppio (altrettanto discusso) del proprio metanodotto di Minerbio che parte proprio da Brindisi (+1,04% in Borsa tra l’ufficiosità e l’ok finale azero).

L’eventuale trasloco, come ha detto di recente il country manager Tap per l’Italia Gianpaolo Russo in un’intervista alla salentina Telerama, sarebbe nella colmata realizzata per il rigassificatore in località Capobianco all’esterno del porto, ritenuta «adeguata» per i propri tubi forse sin dallo studio di fattibilità tra il 2009 e il 2011, ma che poi, come spiegato, è stata scartata in particolare per il «clima politico» contro British Gas. A Brindisi, in realtà, Tap ha archiviato quattro ipotesi di sbocco per nodi tecnici importanti: a nord di Lendinuso e nell’area di Cerano l’attraversamento della Posidonia oceanica, pianta protetta della rete Natura 2000; nell’area industriale i rischi di sicurezza legati agli impianti petrolchimici; a nord dell’aeroporto di Casale i piani urbanistici di sviluppo del Comune.
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Il progetto è sostenuto dall’Ue (Comunicazione sulle priorità per le infrastrutture energetiche per il 2020) e dai governi di Roma, Atene e Tirana. «Progetto di interesse comune» in linea col piano di rete trans–europea di energia (Ten–E) per Parlamento e Consiglio europeo. Interconnettore nell’ambito di un sistema regolatore unificato tra Italia, Grecia e Albania, per la Commissione che tra il 2005 e il 2009 ha dato l’ok a due finanziamenti per studio di fattibilità e basic engineering. Da sempre di «interesse prioritario» per l’Italia che da ultimo col governo Letta ha ratificato i patti a operativi presi in passato dall’esecutivo Monti con Grecia e Albania (Accordo intergovernativo di Atene del marzo 2013 e Memorandum di New York del settembre 2012).

In realtà, dal 2005 fino allo scorso anno, quando Shah Deniz vagliava in tutto quattro opzioni (a Nord pure il South east europe pipeline, Seep, di BP), l’Italia ha sempre appoggiato l’altro tubo in lizza contro Tap a Sud: l’Interconnessione Turchia-Grecia-Italia (Itgi) di Edison (Francia), Botas e Depa (Grecia), lungo quasi 2.500 chilometri e fino a 10 miliardi di metri cubi annui, ma soprattutto con l’arrivo dal 2015 della sezione Igi Poseidon sempre nel Salento, a Otranto, oggi con tutti i sì ministeriali e il via libera dai territori (restano incerte le fonti). Qui era poi previsto l’approdo del South Stream di Eni (20%), Edf e Basf-Wintershall (15% a testa) e in particolare Gazprom (50%) che ha deciso di portarlo in Friuli, a Tarvisio, perché «nel Sud Italia non c’è abbastanza mercato e nel gas esistono già progetti concorrenti».

E gli inglesi? Se in Puglia perdono il rigassificatore, presto avranno proprio il gasdotto Tap. La società svizzera-norvegese-tedesca ha siglato infatti un accordo per vendere metà tubo entro dicembre: a Bp e Socar il 20% a testa, a Total il 10%, ma si aspettano mosse pure da Enel già in trattativa per le forniture con gli azeri. Tap va quindi ai supplementari, ma nel risiko dei progetti se la vedrà pure con altri due: a Torchiarolo, sempre nel Brindisino, è previsto dal 2015 l’Eagle Lng della Trans-European Energy e richiesto da Burns Srl, che unirà l’Italia a un rigassificatore in Albania; e in una zona ancora top secret del Salento, come ha reso noto l’Autority per l’energia di Cipro, dovrebbe sbarcare l’East Med che dovrebbe portare il gas da Cipro e Israele via Grecia e che l’Ue inserirà nella lista dei progetti finanziabili. Riusciranno tutti a ridurre la bolletta del gas?