L'anniversario della "rivoluzione" libanese

A un anno dallo scoppio delle proteste, la classe politica ha cambiato volto, ma il sistema che lo sorregge è ancora in piedi.

17 / 10 / 2020

L’ultima tassa che ha fatto traboccare il vaso

Nel pomeriggio del 17 di ottobre di un anno fa, il governo libanese introduceva una tassa di 0,20 centesimi di dollaro sulle chiamate effettuate tramite Whatsapp e altri social media. Nella sera, le strade delle città principali del Libano iniziavano a riecheggiare di cori rivoluzionari, accompagnati dal suono eccitato dei clacson, mentre centinaia di persone confluivano nelle piazze centrali. Il ministro delle telecomunicazioni revocava la tassa il giorno stesso, ma questo non bastava a calmare la tensione e frenare quella che molte testate giornalistiche il giorno dopo avrebbero battezzato “la rivoluzione di WhatsApp.”

La cosiddetta “tassa Whatsapp” era la goccia che faceva traboccare il vaso. L’ultimo oltraggio alla dignità dei cittadini libanesi, sulle cui spalle gravavano già l’insormontabile debito pubblico, la sempre più scarsa disponibilità di valuta estera, la crisi finanziaria e l’inefficienza dei servizi statali (caso esemplare è il razionamento giornaliero dell’elettricità, che nelle aree più sfortunate può raggiungere in tempi normali le 12 ore di blackout). A completare il quadro si aggiungevano l’intensificazione delle tensioni con il vicino e storico nemico Israele e lo scoppio di una serie di incendi che, per mancanze governative, avevano distrutto interi ettari nelle aree montane.  

I cittadini libanesi protestavano, quindi, per qualcosa di molto più grande della tassa Whatsapp. Erano scesi in piazza per chiedere il ricambio dell’intera classe politica, rimasta di fatto invariata da trent’anni, l’istituzione di un governo tecnico indipendente e la caduta del confessionalismo, il tradizionale sistema politico che prevede la distribuzione delle cariche pubbliche a esponenti delle principali confessioni religiose presenti sul territorio libanese secondo un meccanismo di quote fisse.

Questo sistema ha alimentato nel tempo la corruzione e le pratiche clientelari, contribuendo a portare il paese sull’orlo del collasso. Il 17 ottobre di un anno fa nasceva il movimento di protesta anti-establishment più imponente della storia moderna del paese, che ha preso il nome arabo di thawra, “rivoluzione.”

Il movimento ha coinvolto tutte le classi sociali, le età, le confessioni religiose e le regioni del paese, distinguendosi dai movimenti precedenti, principalmente di carattere elitario e limitati all’area della capitale. In centinaia si sono attivati anche dalla vasta comunità della diaspora, tornando al paese di origine o connettendosi a distanza tramite social network.

Un anno di proteste in alcuni fatti chiave

Il secondo giorno di proteste, l’allora primo ministro Saad Hariri fissa un limite di 72 ore entro le quali il governo avrebbe proposto un nuovo pacchetto di riforme in conformità con le richieste dei manifestanti. A due ore dallo scadere del termine, il 21 ottobre, Hariri annuncia l’adozione di una serie di misure economiche “essenziali e necessarie.” I manifestanti rifiutano queste soluzioni e poche ore dopo tornano a occupare le piazze. Intanto quattro ministri del partito cristiano di destra delle Forze Libanesi si dimettono.

A una settimana dall’inizio delle proteste, il presidente della repubblica Michel Aoun parla per la prima volta alla popolazione, invocando il dialogo tra le istituzioni e gli esponenti della rivoluzione. Di fronte al rifiuto dei manifestanti di mediare con la classe politica, qualche giorno dopo Saad Hariri presenta le dimissioni.

Intanto il movimento organizza l’impresa record di formare una catena umana che percorra il paese da nord a sud, riuscendo quasi totalmente nell’intento.

Il 12 novembre Alaa Abou Fakher, un cittadino innocente, viene ucciso da una pallottola militare, mentre manifesta con la moglie e i figli. Abou Fakher diventa il primo martire della rivoluzione.

Dopo lunghe trattative, il 19 dicembre viene designato primo ministro il professore universitario ed ex ministro dell’educazione Hassan Diab, forte dell’appoggio del blocco sciita, di cui i partiti Amal e Hezbollah sono principali esponenti.  

Quasi due mesi dopo, l’11 febbraio, il parlamento vota la fiducia al nuovo governo nonostante i numerosi tentativi dei manifestanti di bloccare l’ingresso dei deputati alla sede parlamentare.

A inizio marzo il debito pubblico raggiunge il 170 percento del PIL e il governo, per la prima volta nella storia del Libano, dichiara il default sul debito estero. A metà dello stesso mese il paese entra ufficialmente nella fase di lockdown nel contesto della pandemia di Coronavirus. Nonostante le restrizioni, le proteste non si arrestano completamente e si riaccendono particolarmente a inizio maggio, dopo l’approvazione del governo del piano di riforme economiche. I manifestanti mostrano di non riporre più alcuna fiducia nelle promesse dello stato.

Il 4 agosto esplode il porto di Beirut, portando con sé interi quartieri della città e oltre 200 vite umane. Nei giorni seguenti il governo risponde alla catastrofe con totale assenza e inefficienza. Gli abitanti della capitale si affidano completamente al sostegno della società civile, ai soccorsi della Croce Rossa libanese e agli aiuti umanitari della comunità internazionale. Tra questi, particolare rilievo assume la risposta della Francia. Con la visita del presidente Macron, accolto tra suppliche e acclamazioni delle strade di Beirut, il paese ex-mandatario enfatizza la propria vicinanza al popolo libanese e l’impegno nel promuovere nuove riforme politiche ed economiche.

L’8 agosto migliaia di persone si radunano nel centro di Beirut in un’accesa protesta. I manifestanti irrompono nelle sedi dei ministeri dell’ambiente, dell’economia e degli esteri e nella sede dell’Associazione delle Banche Libanesi, edifici emblematici della crisi economica. Secondo le stime di Amnesty International, più di 230 persone rimangono ferite dalla risposta violenta delle forze di sicurezza.

Il 10 agosto, Hassan Diab e il suo governo si dimettono. Il 31 dello stesso mese, l’ambasciatore libanese in Germania, Mustapha Adib, è nominato primo ministro, ma meno di un mese dopo si trova costretto a rinunciare all’incarico, di fronte all’impossibilità di formare un nuovo governo.

Una rivoluzione ancora da compiersi

In dodici mesi di protesta, tutto sembra essere cambiato e niente sembra essere cambiato veramente.

Le facce della classe politica sono cambiate più volte, ma la struttura del potere rimane la stessa. All’anniversario delle proteste, il nuovo candidato alla presidenza del consiglio è lo stesso Saad Hariri che un anno fa è stato deposto dal movimento. Il suo ritorno al governo sferzerebbe un duro colpo al movimento, riportandolo apparentemente alla casella dello start.

Allo stesso tempo, a inizio ottobre, la lista degli studenti indipendenti dell’Università Americana Libanese (LAU) ha ottenuto la maggioranza dei voti nelle elezioni studentesche dell’istituto, le prime votazioni significative per la popolazione giovanile dall’inizio delle proteste. I risultati segnano il primo vero traguardo del movimento, laddove i cittadini hanno lo spazio di esprimersi.

Il sistema politico del confessionalismo si è retto in piedi per decenni grazie a un meccanismo corrotto che si autoalimenta. L’inefficienza dello stato costringe i cittadini ad affidare i propri voti ai leader delle reti clientelari legate ai partiti, che a loro volta offrono i servizi essenziali e la qualità della vita che lo stato non è in grado di garantire. La falla strutturale del sistema risiede nel fatto che i leader di queste reti clientelari sono gli stessi uomini che occupano le poltrone delle istituzioni politiche del paese. I politici non sono in alcun modo incentivati a riformare il paese e tantomeno a superare il confessionalismo, perché nella debolezza dello stato e nelle comunità religiose essi ripongono il loro stesso potere.

In un anno di proteste, un’idea diversa di società libanese ha messo radici: non più intesa lungo le linee verticali delle divisioni confessionali, ma segnata orizzontalmente dal divario, reso sempre più evidente dalla crisi, che separa i cittadini dall’élite politica. Simbolo di questo rapporto cittadino-stato sono i blocchi di cemento che separano il parlamento dalle strade del centro di Beirut, facendo della sede ideale della rappresentanza popolare un fortino blindato.

Il concetto di rivoluzione implica un cambiamento radicale e irreversibile dello status quo. Il sistema politico libanese non è cambiato, ma qualcosa alle sue radici si è spezzato in maniera irreparabile. L’aurea di intoccabilità che circondava i politici è stata desacralizzata con insulti e immagini offensive e le divisioni politico-confessionali si sono mostrate prive di valore di fronte alla disperazione.

Il concetto di rivoluzione implica anche un lungo processo nel tempo. A un anno dall’inizio delle proteste non si può dire a che punto di questo processo si trovino i libanesi. Ma se anche dovessero tornare alla casella iniziale, adesso conoscono le regole del gioco e non hanno paura di affrontarle.