Tra estrattivismo e movimenti

Le miniere aperte dell'America Latina

L'attività mineraria tra alta finanza, malavita organizzata e governi complici

19 / 6 / 2016

C’era una volta zio Paperone. Con lo zaino in spalla ed un piccone in mano, il futuro fantastiliardario risaliva le innevate distese del Klondike alla ricerca del suo filone d’oro, confidando solo nelle sue forze papere e nel suo Decino portafortuna.
Erano i tempi del capitalismo che fu, quando il guadagno realizzato da una concessione mineraria era proporzionato solo all’estratto.
Con l’avvento dell’economia finanziaria, l’estrattivismo è entrato in borsa rivelandosi la più potente benzina per le speculazioni finanziarie. Le corporation minerarie oggi, sono tutte quotate nei mercati finanziari e il valore delle loro azioni non dipende da quanto effettivamente estratto dalle loro miniere ma da complessi calcoli speculativi su ricavi futuri che consentono ai loro investitori il perverso gioco di fare “soldi dai soldi”.

E’ un gioco di scatole cinesi globale, dove gli Stati nazionali (e pure i loro governi) sono tenuti ai margini. Quando una legge nazionale pone restrizioni alle speculazioni, il capitale si sposta semplicemente su un’altra borsa. Proprio come è accaduto per il Canada, negli ultimi anni del secolo scorso, quando gli Usa imposero una serie di limiti speculativi sulle attività minerarie e le corporation risposero trasferendo le loro sedi legali a Toronto e continuando, come prima, ad acquistare concessioni speculative in tutto il mondo.
Una indagine pubblicata su Le Monde Diplomatique ha dimostrato che, oggi, oltre tre quarti delle multinazionali minerarie del mondo ha sede legale in Canada, e il 60 per cento di queste fa riferimento alla borsa di Toronto, la Toronto Stock Exchange. “Il Canada si presenta come attento alle questioni ambientali a casa propria - scrive Le Monde - salvo poi offrire comodo approdo alle company che non esitano a perpetrare abusi, quando non crimini”.

Le bolle economiche create dalla speculazione finanziaria hanno preso il posto delle pepite d’oro faticosamente raccolte nelle gelate sponde dello Yukon. Un capitalista old style come il buon Paperon De Paperoni, avrebbe presi tutti a picconate in testa.
Questo processo, pur se virtuale, comporta però che, nella realtà, la miniera deve sempre e comunque continuare a produrre, anche quando, secondo i dettami del vecchio capitalismo, il gioco non varrebbe più la candela. Vuoi perché i costi gestionali o ambientali sono eccessivi, vuoi perché i governi impongono troppe tasse.
Ecco perché le corporation dell’estrattivismo hanno assoluto bisogno di governi amici che detassino le attività minerarie, smagriscano le carte costituzionali troppo protettive dei beni comuni - è un caso esemplare il Messico dove assistiamo ad un lento ma continuo disgregamento della costituzione nata dalla rivoluzione zapatista -, tacciano sui danni ambientali e, come se non bastasse, siano pronti a soffocare qualsiasi soffio di rivolta tra le popolazioni locali.
Governi non soltanto complici. Governi anche malavitosi. La corruzione è un elemento fondamentale per l’ottenimento di concessioni minerarie, considerando che l’attività estrattiva è, per dirla come va detta, assolutamente incompatibile con la tutela dell’ambiente e la difesa dei beni comuni. Pensiamo solo all’acqua che viene avvelenata col mercurio perché riveli eventuali tracce d’oro. Oppure allo spreco che si fa di questa risorsa durante la lavorazione dei metalli, in zone per lo più, dove l’approvvigionamento idrico è sempre critico.

Solo otto mesi fa, crollavano due gigantesche dighe minerarie di contenimento a Bento Rodrigues in Brasile. 62 milioni di litri di acqua e fango tossico spazzavano via una intera regione. E’ stato uno dei più grandi disastri ambientali della storia dell’umanità, che ha causato danni impossibili da quantificare e un numero di morti ancora da accertare. Eppure, oggi, sono in pochi a ricordarselo, nonostante i fanghi tossici continuino ad inquinare aree sempre più vaste del Paese.
Le indagini hanno accertato che la Samarco, per risparmiare sui costi di gestione, aveva tralasciato le più elementari norme di sicurezza e aveva fatto pressione sulle autorità locali per mettere a tacere i rapporti dei tecnici che denunciavano la pericolosità delle dighe.

L’aggiramento delle leggi - se non addirittura la loro modifica legale - è una prassi costante e necessaria dell’attività estrattiva, senza la quale non potrebbe prosperare. In alcuni Paesi dell’America latina, in particolare in quelli governati dalla destra, l’illegalità viene tollerata se non addirittura favorita dalle autorità costituite. Nella migliore delle ipotesi, polizia ed amministrazioni preferiscono seguire la politica dello struzzo e fingono di non vedere una quantità enorme di miniere a cielo aperto. Miniere clandestine che non esistono ufficialmente ma che comunque ottengono le loro brave quotazioni alla Toronto Stock Exchange! Un quinto dell’oro estratto dalle montagne del Perù, Paese che con le sue 160 tonnellate annue si pone al quinto posto della classifica mondiale, ha questa provenienza illecita. Al prezzo attuale di mercato, un giro di affari che sfiora il miliardo di euro all’anno. A gestire le vie del commercio illegale sono organizzazioni di stampo mafioso legate a doppio filo con il governo e con le multinazionali estrattive.

E’ appena il caso di sottolineare che dietro a queste miniere di nobile metallo - anzi, chiamiamolo meglio “oro sucio” (oro sporco), come lo appellano a queste latitudini - si trovano devastazioni ambientali, violenze, sfruttamento minorile, miseria, assassini di oppositori, genocidi di intere comunità indigene, corruzione politica.
In altre parole, lo scenario perfetto per lo “sviluppo” di una sana economia neo liberista.

Con orgoglio tutto renziano, possiamo affermare che dietro tutto questo c’è anche un po’ di Italia. Visitando il Cile, lo scorso ottobre, il nostro premier, Matteo Renzi, ha elogiato il lavoro delle aziende italiane che operano nel continente come la Astaldi che passa dalla realizzazione di ospedali (privati) allo sfruttamento minerario, la Atlantia che sta realizzando le autostrade più contestate del Paese, e l’Enel che fracassa qua e là l’Amazzonia in cerca di petrolio di bassa qualità. “L'Italia qui è rispettata per il carico di civiltà che rappresenta e per la voglia di futuro che esprime” ha dichiarato il premier.

“I presidenti delle società mineraria - mi disse tempo fa un giornalista messicano - vanno a pranzo col ministro ed a cena col mafioso. L’unica differenza tra l’estrattivismo e il narcotraffico è che il secondo non è quotato in borsa. Perlomeno direttamente!”

Ad opporsi a questo malaffare imperante non sono certo polizie ed eserciti ma i popoli indigeni che si organizzano in autonomie, i contadini che occupano e lavorano le terre saccheggiate dalle multinazionali, i lavoratori che si organizzano in sindacati autonomi, i cittadini che difendono i quartieri, che chiedono istruzione statale, trasporti accessibili e una sanità pubblica e aperta a tutti. Sono loro i veri e gli unici nemici del neo liberismo. Una galassia di movimenti dal basso che, pur con le loro differenze e contraddizioni, sono il vero sangue che scorre nelle vene aperte - per citare Eduardo Galeano - dell’America Latina.
La crisi dei governi di sinistra, dall’ecuadoriano Correa al venezuelano Maduro, va imputata alla loro incapacità di rovesciare il modello socio economico imperante basato su una economia predatoria. Se in molti casi hanno migliorato le condizioni del loro popolo creando scuole e strutture sanitarie prima assenti, dall’altro hanno continuato a marciare sui binari dell’estrattivismo nel vano tentativo di gestire e umanizzare il capitalismo, ma finendo solo per trasformarsi da rivoluzionari a burattini delle corporation minerarie. In poche legislazioni, la loro carica innovativa si è esaurita, schiacciata dal peso di una economia che si nutre di disastri e di povertà, e perdendo credibilità di fronte ai loro elettori.
Si spiega così la lenta ma decisa marcia verso l'autoritarismo in cui si sono incamminate o si stanno incamminando tutte le democrazie dell’America Latina. Il nuovo fascismo che avanza non veste la logora divisa delle vecchie Giunte Militari ma non è per questo meno reazionario e sanguinoso. Per imporre il suo potere si fa scudo della stessa democrazia. Il controllo dei giornali e dei media assieme all’imposizione di una giustizia sfacciatamente politica (vedi il caso della presidente brasiliana Dilma Rousseff) sono le armi con le quali i nuovi caudillos fanno piazza pulita degli oppositori, presentandosi poi alle folle come dei politici innovatori, telegenicamente trasgressivi, capaci di imbonire col sorriso sulle labbra fiabe su fiabe, mentendo smaccatamente, smerciando interessi privati come operazioni di pubblica utilità.

Una democrazia recitativa che, a ben vedere, siamo stati noi italiani a lanciare nel mondo sulle ali del berlusconismo. Uno stile di cui l’argentino Mauricio Macri è un indiscusso maestro, considerando che lo stesso giorno in cui è uscita la notizia che lui e tutto il suo entourage erano implicati nello scandalo dei Panama Papers, è apparso in tutte le televisioni del Paese per dichiarare: "Questo governo combatterà la corruzione”.

Il Sudamerica - e con lui tutta la terra - è sull’orlo di un baratro che, va ricordato, non è solo politico o sociale. Non rischiamo solo un semplice ritorno del fascismo. Stavolta, in gioco c’è la stessa sopravvivenza della specie umana. L’economia estrattiva è la causa principale dei cambiamenti climatici e non ci sono formule per convertire in green le speculazioni finanziarie cui fa da motore. Il fascismo poi, è merda solo in senso figurato e, di per sé, non è materiale eco compatibile. Se vogliamo che la terra di domani sia ancora abitabile dall’uomo, non possiamo più cedergli spazio.

L’Altro Mondo Possibile, per cui si battono i movimenti latinoamericani, dovrà in primo luogo slegarsi da questa economia speculativa che si nutre di disastri e di guerre.
Non ci sono riusciti i governi di sinistra perché questo è il programma di una rivoluzione e non di un governo. E non sono mai i governi che fanno le rivoluzioni. Sono i popoli.

*** Riccardo Bottazzo, giornalista professionista di Venezia. Si occupa principalmente di tematiche ambientali e sociali. Ha lavorato per i quotidiani del Gruppo Espresso, il settimanale Carta e il quotidiano Terra. Per questi editori, ha scritto alcuni libri tra i quali ”Caccia sporca“, “Il parco che verrà”, “Liberalaparola”, “Il porto dei destini sospesi”, “Cemento Arricchito”. Collabora a varie testate giornalistiche come Manifesto, Query, FrontiereNews, e con la campagna LasciateCiEntrare. Cura la rubrica “Voci dal sud” sul sito Meeting Pot ed è direttore di EcoMagazine.