Le proteste thailandesi tra modello internazionale alla Hong Kong e specificità nazionali

20 / 11 / 2020

A dieci anni dalla violenta repressione delle Camice Rosse, i thailandesi e le thailandesi esprimono nuovamente la loro voglia di cambiamento scendendo in piazza e sfidando le misure di contenimento delle forze di sicurezza (per le particolari istanze del movimento, si rimanda all’ottima intervista di Mattia Gallo). In questo contributo, Edoardo Siani, antropologo culturale all’Università Ca’ Foscari con casa a Bangkok dal 2002, racconta le particolarità di questo rinnovato movimento di contestazione, ponendo l’attenzione sugli aspetti culturali delle proteste e facendo paralleli con gli eventi di Hong Kong. La particolare composizione anagrafica e sociale delle piazze, conclude Siani, è uno dei fattori che spiegano perché lo stato non sia ancora intervenuto con la stessa violenza di cui si è macchiato dieci anni fa.

Non è la prima volta che la monarchia thailandese si trova a dover fronteggiare un movimento di contestazione numericamente considerevole. Che precedenti ci sono?

Esistono effettivamente dei precedenti, anche nella storia della Thailandia recente. Basti pensare alla fine del regno di Re Bhumibol Adulyadej, padre dell’attuale monarca. Asceso al trono nel 1946, era una figura molto carismatica ed è tutt’oggi rimpianto da molti. Decenni di campagne governative lo avevano dipinto come un monarca buddhista ideale, che esemplificava i precetti morali e lavorava incessantemente per il bene dei suoi sudditi. Tuttavia, negli ultimi anni del suo regno, conclusosi con la sua scomparsa nel 2016, alcuni gruppi all’interno del movimento delle Camicie Rosse iniziarono a contestare la sua figura. Persone solitamente di mezza età e originarie delle zone rurali del paese, le Camicie Rosse contestavano il colpo di stato del 2006. In questa occasione, i militari, presumibilmente con il benestare della monarchia, rovesciavano l’allora governo in carica, particolarmente attento ai problemi delle classi meno abbienti. 

Tra le fazioni più estremiste delle Camicie Rosse circolava molto materiale critico nei confronti della monarchia, per esempio su supporti cartacei e CD-ROM. In aggiunta al materiale prodotto in Thailandia esisteva una traduzione del libro The King Never Smiles: A Biography of Thailand's Bhumibol Adulyadej, pubblicato nel 2006 dal giornalista americano Paul Handley con Yale University Press e bandito nel paese. Lo studio di Handley dimostrava come lo stato, i media e la rivitalizzazione di antichi riti volti a celebrare il monarca come una figura semidivina, avessero restaurato una monarchia che prima risultava essere debole sia politicamente che economicamente. 

È importate inoltre sottolineare i rischi a cui si espone chi manifesta contro la monarchia. Allora come oggi questa è protetta da una legislazione che punisce i critici con anni di reclusione. Oltre a ciò, sensibilità conservatrici nella società giustificano l’uso della violenza nei confronti di chi fronteggia un’istituzione ritenuta sacra. Quando, ad esempio, nel 2010 l’esercito represse le proteste delle Camicie Rosse causando la morte di quasi cento persone, alcuni giustificarono l’accaduto invocando l’obbligo morale di proteggere la monarchia.

Cosa ha portato i thailandesi e le thailandesi nuovamente in strada quest’anno?

Le proteste di quest’anno sono iniziate a febbraio nelle università, quindi nei licei, come reazione allo scioglimento forzato di un partito politico progressista, conosciuto in inglese come Future Forward. Questo partito si rivolgeva in modo particolare ai giovani, popolarizzando quell’ondata di critiche di cui si erano già fatte portavoce le Camice Rosse dieci anni prima. Le proteste di febbraio si sono smorzate per via dell’emergenza Covid, dopo la dichiarazione dello stato di emergenza a marzo da parte del governo militare. Sono poi riprese a luglio, in reazione al rapimento e presunto assassinio di un attivista critico nei confronti del regime che viveva in esilio in Cambogia. 

Un altro fattore da considerare nello spiegare le attuali proteste è la stessa emergenza Covid. Anche se in Thailandia si è registrato un numero bassissimo di malati e morti, le misure tese a contenere la diffusione del virus hanno causato una grave crisi economica. Le difficoltà vissute da tanti thailandesi stridono con la vita di agi e lusso del nuovo re, Maha Vajiralongkorn, che passa gran parte del suo tempo in Germania circondato, secondo alcuni, da un harem. Un contrasto evidente non solo in relazione alla vita dei suoi sudditi, ma anche rispetto al suo predecessore. Monogamo e ostentatamente parsimonioso, Re Bhumibol si era rifiutato di lasciare il paese a partire dagli anni tumultuosi della Guerra Fredda per dimostrare la sua vicinanza al popolo. 

Rispetto alle proteste di dieci anni fa che novità ci sono nell’attuale movimento di contestazione?

Innanzitutto la composizione. In questa nuova ondata di proteste spiccano giovani istruiti, urbanizzati, appartenenti alla classe media e frequentanti le più importanti università del paese. Questi riconoscono, da un punto di vista discorsivo, l’eredità delle Camice Rosse, che in alcune occasioni sono confluite nelle piazze al loro fianco. A partire da metà ottobre, tuttavia, la mobilitazione è passata principalmente attraverso dei flashmob organizzati tramite social network seguendo il modello di Hong Kong, ai quali partecipano dunque perlopiù i giovani. In termini di composizione anagrafica, queste manifestazioni ricordano piuttosto moti di protesta appartenenti al secolo scorso.

La novità fondamentale è però la presa di posizione dei manifestanti nei confronti della monarchia. Per la prima volta nella storia recente, chi protesta chiede apertamente e senza mezzi termini una riforma dell’istituzione. Anche durante le proteste delle Camicie Rosse, alcuni manifestati salivano sul palco per lanciare delle critiche, più o meno esplicite, alla monarchia. L’attuale movimento politico tuttavia va oltre le semplici critiche e provocazioni, includendo delle chiare e dettagliate richieste di riforma monarchica all’interno del suo manifesto. 

È per questo che, secondo alcune narrazioni giornalistiche straniere, le proteste sarebbero espressione di un cambiamento culturale in seno alla società thailandese?

Alcune narrazioni sostengono come i manifestanti, contestando il re, rifiutino le basi religiose sulle quali si fonda il modello di monarchia buddhista in Thailandia. Per quanto queste narrazioni appaiano accattivanti, secondo me è opportuno fare un passo indietro. Quella thailandese è una monarchia buddhista che prende in prestito elementi culturali dalla tradizione hindu-khmer. Secondo questo modello politico-religioso, il re è la persona all’interno della società con la quantità maggiore di karma positivo, accumulato tramite azioni meritevoli nelle vite passate. In virtù di ciò, il re siede in cima alla gerarchia sociale, seguito dalla classe alta, media e così via.

La particolarità del buddhismo thailandese rispetto alla concezione sociale più conosciuta, propria dell’induismo, è che, per via del concetto di impermanenza, niente rimane nel tempo. Le quantità di karma positivo di una persona sono quindi soggette a fluttuazioni, anche nel corso di una stessa vita. Se io ad esempio nasco re grazie al mio comportamento particolarmente retto tenuto nella mia vita precedente, posso comunque perdere la mia quantità di karma positivo se commetto degli errori. Questa cosmologia può quindi benissimo essere invocata nel contesto di critiche a un monarca: anche un re, per quanto divino, può sbagliare.

A mio giudizio, nel movimento di protesta attuale non esistono dei chiari elementi che suggeriscano un rigetto di queste nozioni di karma. Tanti manifestanti continuano a definirsi buddhisti e portano anche degli elementi religiosi all’interno delle proteste. Alcuni chiedono aiuto ad astrologi per scegliere i giorni più appropriati per manifestare, altri distribuiscono delle preghiere redatte da esperti di magia che li proteggano in eventuali scontri. Tra i manifestanti sono inoltre presenti monaci buddhisti. 

Come dialogano gli elementi specifici culturali di cui parli e l’outlook internazionale di queste manifestazioni, che tra l’altro dicevi si ispirano al modello di protesta di Hong Kong?

Le manifestazioni thailandesi seguono effettivamente il modello di Hong Kong, adottando strategie di mobilitazione di tipo flashmob, di comunicazione quale Telegram e simboli di protesta quali ombrelli e magliette nere. In Thailandia tuttavia questi stessi simboli acquisiscono una duplice funzione. Da un lato, gli attivisti li usano per dare respiro internazionale alle manifestazioni, sottolineando in questo modo la loro appartenenza a una comunità di protesta interculturale, giovane e moderna. Dall’altro, come ho scritto sul New York Times, li fanno propri aggiungendo significati che appartengono specificatamente alla cultura di resistenza tailandese.

Ad esempio, le magliette nere indossate dai manifestanti in Thailandia evocano un’eclissi solare. L’eclissi è ritenuta di cattivo auspicio per la monarchia, che secondo l’astrologia tailandese è rappresentata dal sole. Indossare una maglietta nera segnala inoltre la mancanza di un leader buddhista che illumini la popolazione col suo esempio di rettitudine morale. Anche l’ombrello, preso da Hong Kong, offre una duplice chiave di lettura. Se da una parte questo viene usato dai manifestanti per proteggersi da una stagione delle piogge particolarmente capricciosa e dai cannoni d’acqua della polizia, dall’altra è un simbolo tradizionale di sovranità. I re tailandesi sono accompagnati da un ombrello, che rappresenta la cascata di karma positivo che discende sulla loro testa. Gli attivisti usano quindi gli ombrelli per suggerire come essi aspirino a prendere parte alla sovranità del paese. Due settimane fa, dei manifestanti hanno organizzato addirittura una performance nella quale, tra il serio e il faceto, si sono vestiti da sovrani, facendosi proprio scortare da questi ombrelli.

In più occasioni, il governo thailandese ha risposto a sua volta alle proteste ispirandosi alle strategie di contenimento delle autorità di Hong Kong. In ottobre, ad esempio, le forze dell’ordine hanno tentato di disperdere i manifestanti con getti di acqua mischiata ad una sostanza chimica irritante di colore blu. Poiché il blu rappresenta la monarchia nella bandiera tailandese, gli attivisti hanno subito colto l’opportunità per dare un duplice significato anche a questo avvenimento. Hanno quindi fatto circolare su internet dei meme in cui l’acqua di colore blu sostituiva la monarchia nella bandiera, suggerendo in questo modo un’associazione con la violenza di stato. I manifestanti sono dunque i primi a insegnarci l’importanza di un’analisi che tenga conto allo stesso tempo della valenza internazionale delle proteste e dei significati che queste assumono nella grammatica culturale locale. 

Ci possiamo aspettare delle repressioni più violente da parte del governo?

La novità della composizione anagrafica e sociale delle proteste influisce sul modo in cui queste vengono percepite ed affrontate dallo stato. Dal punto di vista delle élite conservatrici al potere, avere degli studenti che protestano per strada è molto diverso rispetto al dovere fronteggiare una fascia della popolazione quali erano tante Camice Rosse. Detto brutalmente, il contadino delle campagne, secondo la concezione cosmologica buddhista thailandese, ha un valore sociale inferiore rispetto al ragazzo istruito, di città, figlio di una famiglia benestante. Ciò spiega in parte l’esitazione con cui il governo sta gestendo le proteste. Malgrado, infatti, le richieste esplicite di riforma monarchica espresse dai manifestanti, lo stato fino ad ora non è intervenuto in modo davvero violento limitandosi a disperdere le proteste con idranti e lacrimogeni.

È inoltre fondamentale ricordare che i giovani manifestanti sono spesso i figli di coloro che sostenevano la repressione delle Camicie Rosse nel 2010. Un’azione repressiva da parte dello stato potrebbe far venir meno il consenso che i genitori riconoscono ancora all’esercito e alla monarchia. Per queste ragioni, credo che il governo dovrà essere molto attento nella gestione della crisi evitando che questa sfoci in violenza di stato.