Le vene aperte del Nicaragua

23 / 7 / 2018

Appartengo alla generazione di quelli che negli anni ‘80 si emozionarono con la Rivoluzione Sandinista e la appoggiarono attivamente. L’impulso progressista rianimato dalla Rivoluzione Cubana del 1959 si era bloccato soprattutto per l’intervento imperialista degli Ststi Uniti.

L’imposizione della dittatura militare in Brasile nel 1964 e in Argentina nel 1976, la morte di Che Guevara nel 1967 in Bolivia e il colpo di stato di Pinochet in Cile contro Salvador Allende nel 1973, furono i segni più rilevanti del fatto che il subcontinente americano era condannato ad essere il giardino di casa degli Stati Uniti, sottomesso alla dominazione delle grandi imprese multinazionali e delle élites nazionali conniventi con esse.

Era, in sintesi, vietato pensarsi come un insieme di società inclusive centrate nell’interesse delle grandi masse impoverite.

La Rivoluzione Sandinista significava la nascita di una tanto auspicata controcorrente.

Il suo valore risultava non solo dalle trasformazioni concrete che metteva in atto (partecipazioni popolari senza precedenti, riforma agraria, campagna di alfabetizzazione che meritò il premio dell’Unesco, rivoluzione culturale, creazione di un servizio pubblico di salute, ecc), ma anche dal fatto che tutto questo si realizzò in condizioni difficili, dovute all’accerchiamento estremamente aggressivo degli Stati Uniti di Ronald Reagan, che impose l’embargo economico e l’infame finanziamento dei “contras” nicaraguensi (la guerriglia controrivoluzionaria) e l’impulso della guerra civile.

Allo stesso modo, significativo fu il fatto che il governo sandinista mantenne il regime democratico, cosa che nel 1990 portò alla fine della rivoluzione con la vittoria del blocco oppositore, del quale oltretutto faceva parte il Partito Comunista del Nicaragua.

Negli anni seguenti, il Frente Sandinista, sempre guidato da Daniel Ortega, perse tre elezioni, finché nel 2006 riconquistò il potere mantenendolo fino ad oggi.

Tuttavia, il Nicaragua, come tutto il Centroamerica, rimase fuori dal radar dell’opinione pubblica internazionale e della stessa sinistra latinoamericana.

Finché lo scorso aprile le proteste sociali e la violenta repressione la portarono all’attenzione del mondo.

Si possono contare già decine di morti causate dalle forze di polizia e dalle milizie del partito di governo.

Le proteste, che inizialmente hanno visto protagonisti gli studenti universitari, miravano all’indifferenza del governo di fronte alla catastrofe ecologica nella Riserva Biologica Indio-Maíz, causata dagli incendi per la deforestazione illegale.

Sono seguite poi le proteste contro la riforma del sistema di sicurezza sociale, che ha inposto drastici tagli alle pensioni e un aumento della tassazione ai lavoratori e alle imprese. Agli studenti si sono uniti i sindacati e altre organizzazioni della società civile.

Di fronte alla protesta il governo ha ritirato la proposta, ma il paese è ormai incendiato per l’indignazione contro la violenza, la repressione e il rifiuto di molte altre sfaccettature oscure del governo sandinista, che nel frattempo sono venute alla luce e sono apertamente criticate.

La Chiesa cattolica, che dal 2003 si è riconciliata col sandinismo, è tornata a prendere le distanze e ha accettato il ruolo di mediatore nel conflitto sociale e politico.

Lo stesso allontanamento è avvenuto con la borghesia imprenditoriale nicaraguense, alla quale Ortega aveva offerto importanti agevolazioni economiche e privilegi in cambio della lealtà politica.

Il futuro è incerto e non si può escludere la possibilità che questo paese, tanto massacrato dalla violenza, torni a subire un bagno di sangue.

L’opposizione all’orteguismo copre tutto lo spettro politico e, come è successo in altri paesi (Venezuela e Brasile), mostra unità solo per rovesciare il regime ma non per creare un’alternativa democratica.

Tutto lascia pensare che non ci sarà una soluzione pacifica senza la rinuncia della coppia presidenziale Ortega-Murillo e la convocazione di elezioni anticipate, libere e trasparenti.

I democratici, in generale, e le forze politiche di sinistra, in particolare, hanno ragione ad essere perplessi. Ma hanno soprattutto il dovere di riesaminare le opzioni recenti dei governi considerati di sinistra in molti paesi del continente e di spiegare il proprio silenzio di fronte a tanto oltraggio degli ideali politici durante tutto questo tempo. Per questa ragione, questo testo è, in parte, un’autocritica. Che lezioni possiamo trarre da quello che sta succedendo in Nicaragua? Analizzare le dure lezioni che di seguito elenco sarà la cosa migliore per solidarizzare con il popolo nicaraguense e manifestare rispetto per la sua dignità.

Prima lezione: spontaneità e organizzazione.

Per molto tempo le proteste sociali e la repressione sono avvenute nelle zone rurali senza che l’opinione pubblica nazionale e internazionale se ne preoccupasse. Quando le proteste sono arrivate a Managua, la sorpresa è stata generale. Il movimento è spontaneo e attraversa le reti sociali che il governo aveva promosso con l’accesso internet gratuito nelle piazze. I giovani universitari, nipoti della Rivoluzione Sandinista, che fino a quel momento sembravano alleati e politicamente apatici, si sono mobilitati per reclamare giustizia e democrazia. L’alleanza tra la campagna e la città, fino a quel momento impensabile, è sorta quasi naturalmente e la rivoluzione civica si è presa le le strade con marce pacifiche e barricate che sono arrivate a coprire quasi il 70% delle strade del Paese. Com’è che le tensioni sociali si accumulano senza che si notino e la loro esplosione repentina prende tutti di sorpresa? Certamente non per la stessa ragione per la quale i vulcani avvisano. Si può sperare che le forze conservatrici nazionali e internazionali non ne approfittino degli errori commessi dai governi di sinistra? Quale sarà il punto di esplosione delle tensioni sociali in altri paesi del continente causate dai governi di destra, per esempio in Brasile e Argentina?

Seconda lezione: i limiti del pragmatismo politico e delle alleanze con la destra.

Il Fronte Sandinista ha perso tre elezioni dopo la sconfitta del 1990. Una fazione del Fronte, guidata da Ortega, capì che l’unico modo per ritornare al potere era fare alleanze con gli avversari, compresi quelli che più di tutti si erano opposti al sandinismo, come la Chiesa cattolica e i grandi imprenditori. Rispetto alla Chiesa cattolica, il riavvicinamento cominciò agli inizi del 2000. Il cardinale Obando y Bravo fu, durante il periodo rivoluzionario, un oppositore aggressivo al governo sandinista e attivo alleato dei contras, per lui Ortega è stato la “vipera moribonda” durante tutta le decade del ‘90. Nonostante questo, Ortega non ha avuto pudore ad avvicinarsi al cardinale al punto di chiedergli nel 2005 di officiare il matrimonio con la sua compagna di una vita, Rosario Murillo, attuale vicepresidente del paese.

Tra le molte concessioni alla Chiesa, una delle prime leggi del nuovo governo sandinista, nel 2006, fu approvare la legge di proibizione totale dell’aborto, incluso in caso di violenza o di pericolo per la vita della madre. Questo, in un paese con alta incidenza di violenza contro donne e bambini. Dall’altra parte, la vicinanza alle élites economiche ha prodotto la sottomissione del programma sandinista al neoliberismo, con la deregolamentazione dell’economia, la sottoscrizione di trattati di libero commercio e la creazione di società pubblico-private che garantivano succosi affari al settore privato capitalista a spese dell’erario pubblico. Infine è stato siglato un accordo con l’ex presidente Arnoldo Alemán, considerato uno dei capi di Stato più corrotti del mondo. Queste alleanze hanno garantito una certa pace sociale. Si deve sottolineare che nel 2006 il paese era sull’orlo del fallimento e le politiche adottate da Ortega hanno permesso la crescita economica. Si è trattato, tuttavia, della tipica crescita neoliberale: grandi concentrazioni di ricchezza, totale dipendenza dai prezzi internazionali dei prodotti esportati (in particolare caffè e carne), autoritarismo crescente di fronte al conflitto sociale causato dall’estensione della frontiera agricola e dalle grandi opere (per esempio il grande canale interoceanico con finanziamento cinese), aumento sporporzionato della corruzione, a cominciare dalle élites politiche del governo. La crisi sociale fu attenuata solo dal generoso aiuto del Venezuela (donazioni e investimenti) che arrivò a essere una parte importante del bilancio dello Stato e ha permesso alcune politiche sociali compensatorie. La situazione è esplosa quando i prezzi internazionali sono crollati, quando c’è stato un cambio di politiche economiche della principale destinazione delle esportazioni (Stati Uniti) e l’aiuto del Venezuela è evaporato. Tutto questo è successo negli ultimi due anni.

Nel frattempo, terminata l’orgia di favori, le élites economiche hanno preso le distanze e Ortega si è ritrovato isolato. Può un governo continuare a definirsi di sinistra (e perfino rivoluzionario) nonostante segua tutta l’ideologia del capitalismo neoliberale con le condizioni che impone e le conseguenze che genera? Fino a che punto le alleanze tattiche con il nemico diventano la seconda natura del protagonista? Perché le alleanze con le differenti forze di sinistra sembrano sempre più difficili che le alleanze tra la sinistra egemonica e le forze di destra?

Terza lezione: autoritarismo politico, corruzione e de-democratizzazione.

Le politiche adottate da Ortega e la sua fazione hanno creato divisioni importanti in seno al Fronte Sandinista, così come il rifiuto in altre forze politiche e nelle organizzazioni della società civile che avevano trovato nel sandinismo degli anni ‘80 la propria matrice ideologica e sociale e la propria volontà di resistenza. Le organizzazioni femministe hanno avuto un protagonismo speciale. È risaputo che il neoliberismo, all’aggravarsi delle disuguaglianze sociali e al generare privilegi ingiusti, può mantenersi in vita solo con l’autoritarismo e la reepressione. È questo che ha fatto Ortega. Con tutti i mezzi, incluso la cooptazione, la soppressione dell’opposizione interna ed esterna, la monopolizzazione dei media mainstream, le riforme costituzionali che gli hanno garantito la possibilità di una rielezione infinita, la strumentalizzazione del sistema giudiziario e la creazione di forze repressive paramilitari. Le elezioni del 2016 sono state un chiaro ritratto di tutto questo e la vittoria con lo slogan “Un Nicaragua cristiano, socialista e solidale” ha coperto in malo modo le profonde fratture nella società. In modo quasi patetico, però prevedibile, l’autoritarismo politico è stato accompagnato dalla crescente patrimonializzazione dello Stato. La famiglia Ortega ha accumulato ricchezza e mostrato palesemente l’obiettivo di perpetuarsi al potere. La tentazione autoritaria e la corruzione sono una deviazione o sono costitutive dei governi di matrice economica neoliberale? Che interessi imperiali spiegano le ambiguità della OEA (Organizazione degli Stati Americani) di fronte all’orteguismo, in contrasto con la radicale opposizione al chavismo? Perché buona parte della sinistra latinoamericana e mondiale ha mantenuto (e continua a mantenere) lo stesso silenzio complice? Per quanto tempo la memoria delle conquiste rivoluzionarie annebbia la capacità di denunciare le perversioni di chi è al potere al punto che la denuncia arriva quasi sempre troppo tardi?

Boaventura De Sousa Santos è Direttore del Centro di Studi Sociali dell’Università di Coimbra (Portogallo)

Tradotto da Associazione Ya basta! Êdî bese!

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