«Ci avete fatto odiare ‘il Paese dei combattenti’, o moriamo per nulla o in mare migrando. Siamo stanchi, non c’è luce né acqua!». Così si legge su uno dei cartelli agitati dai manifestanti che il 23 agosto 2020 sono confluiti nella Piazza dei martiri di Tripoli e tra strade della capitale, fino a raggiungere la sede del Consiglio presidenziale del Governo di accordo nazionale (Gna), presieduto da Fajez al-Sarraj.
Approfittando del cessate il fuoco proclamato due giorni prima da al-Sarraj e dal suo ex rivale Aqila Saleh, presidente dell’Alta camera dei rappresentanti con sede a Tobruq, alcuni cittadini e cittadine hanno aderito a un appello circolato sui social unendosi in un corteo pacifico di protesta. Le immagini mostrano uomini, donne e bambini sfilare brandendo drappi bianchi, mentre scandiscono cori contro la corruzione delle autorità al governo sia nell’Est che nell’Ovest del Paese, chiamando in causa tutte le maggiori personalità del conflitto civile che ha preso in ostaggio la transizione libica.
Alle manifestazioni ha espresso il proprio
sostegno l’Ordine degli avvocati che, negli scorsi giorni, si è rivolto
direttamente al governo di Tripoli con una comunicazione in cui ribadiva la
necessità che le istituzioni garantissero a cittadine e cittadini il diritto di
espressione e manifestazione di dissenso libere e in sicurezza. Nei cortei non
sono comparsi simboli che riconducessero la partecipazione di gruppi di
manifestanti a un tipo di mobilitazione coordinata nell’ambito di specifici
gruppi politici, religiosi, sindacali, eccetera. L’adesione di cittadine e
cittadini alle iniziative di protesta, che ha visto una forte partecipazione di
giovani e giovanissimi, pare in questo momento essere avvenuta su basi
spontanee, sia per esprimere rivendicazioni condivise che per usare la piazza e
le strade come luoghi in cui discutere prospettive anche divergenti sulle
priorità politiche del Paese.
A dispetto del
cessate il fuoco, tuttavia, i civili radunatisi per prendere parte alle
manifestazioni sono stati attaccati da alcuni uomini armati e diversi sono
rimasti feriti. Questo è stato confermato da un comunicato del ministero degli
Interni del governo di unità nazionale, il quale nella serata del 23 agosto ha
preso le distanze dalle azioni di alcuni membri di milizie attive nella
capitale che hanno aperto il fuoco sul corteo. Le informazioni a disposizione
parlano del fermo e della detenzione arbitraria di diversi manifestanti, per i
quali le proteste dei giorni successivi e una serie di post Facebook ampiamente
condivisi hanno chiesto l’immediato rilascio lamentando un’occupazione
turco-siriana della capitale.
Secondo alcune fonti, infatti, a sparare contro i manifestanti sarebbero stati combattenti siriani inviati in Libia da Ankara a sostegno del Gna. Episodi simili hanno caratterizzato anche altri cortei di protesta che sono stati organizzati negli scorsi giorni a Misurata, Sabrata, al-Zawya, al-Asab’a e Sabha, nell’ambito di quello che sui social è stato soprannominato hirak (movimento) del 23 agosto o hirak himat al-shabab (“Movimento del coraggio dei giovani”). Fayez al-Sarraj ha scelto presto di rivolgersi ai manifestanti e alle manifestanti dicendosi disponibile a promuovere un rimpasto di governo o l’inaugurazione di un governo di emergenza, si è contestualmente impegnato a garantire la tutela del diritto di manifestare in sicurezza e a sostenere la magistratura nella lotta alla corruzione.
La sera del 26 agosto, tuttavia, quando un gruppo di manifestanti ha deciso di distaccarsi dai cortei organizzati davanti alla sede del Gna e spostare il presidio davanti alla residenza privata di al-Sarraj, le proteste sono nuovamente diventate occasione di violenti scontri tra cittadinanza e forze di sicurezza. Una colonna di convogli guidati da milizie si è riversata in Piazza dei Martiri e ha cercato di disperdere i manifestanti ricorrendo nuovamente all’uso delle armi e facendo ancora feriti tra i civili. Fonti del Governo di Accordo nazionale hanno cominciato a ventilare timori che il ministro degli Interni, Fathi Bashagha, in quel momento in visita a Istanbul, stesse tramando un colpo di mano per rovesciare al-Sarraj.
Il 28 agosto, una decisione del Consiglio
presidenziale del Gna ha disposto la sospensione di Bashagha con la motivazione
ufficiale di accertare le sue responsabilità nelle violenze perpetrate ai danni
dei cittadini e delle cittadine che avevano preso parte alle proteste. Questi
eventi pongono diversi dubbi sull’effettiva capacità delle parti politiche in
gioco di garantire la tenuta del cessate il fuoco. D’altra parte, secondo
quanto dichiarato al quotidiano libico “Al-Wasat” nella giornata del 23 agosto
da Ahmed al-Mismari, portavoce dell’Esercito nazionale libico, la proclamazione
della fine delle ostilità non è stata riconosciuta dalle forze armate fedeli a
Khalifa Haftar.
Mentre i comunicati
delle maggiori cancellerie europee si susseguivano in dichiarazioni di plauso
per il raggiunto cessate il fuoco, molti quotidiani in lingua araba
attribuivano il risultato raggiunto a una distensione delle relazioni diplomatiche
tra i principali sponsor regionali e internazionali delle due parti del
conflitto civile (Turchia e Qatar per il Gna ed Egitto, Russia ed Emirati Arabi
Uniti per la leadership cirenaica, che sembrerebbe ora prevalentemente
incarnata da Aguila Saleh). Questa distensione avrebbe implicato la
marginalizzazione progressiva delle mire haftariane, sollecitando una
ricollocazione di Saleh in senso maggiormente conciliante nei confronti delle
autorità di Tripoli.
Tale metamorfosi delle sinergie interne al
contesto libico era nell’aria fin dalla primavera del 2020, quando l’evoluzione
impressa al conflitto civile dall’intervento turco aveva persuaso Haftar a
optare per una smobilitazione delle proprie truppe dalla Capitale, assediata
dall’inizio di aprile 2019, con il conseguente ripiegamento del fronte del
conflitto verso est, a Sirte e al-Jufrah, dove gli scontri sono poi entrati in
una fase di stallo. Da allora si sono aperte le trattative che hanno portato al
cessate il fuoco che, tra le altre cose, prevede la smilitarizzazione di
al-Jufrah e Sirte e l’organizzazione di consultazioni elettorali entro il
prossimo marzo.
Le evoluzioni
future di questa nuova svolta dell’accidentata transizione libica, in cui la
diplomazia europea è risultata marginale e quella italiana irrilevante, sono
difficili da prevedere.
Dal 23 agosto, tuttavia, le persone scese a protestare per le strade di Tripoli hanno testimoniato la sopravvivenza di una società civile che aveva cominciato a emergere, a dispetto della repressione di regime, già nella prima metà degli anni duemila (ne scriveva Anna Baldinetti nel 2009: “Le istanze Amazigh in Libia. La nascita di una società civile?”, in Processi politici nel Mediterraneo: dinamiche e prospettive, a cura di A. Baldinetti, A. Maneggia A, Morlacchi, Perugia, pp. 231-250). Se nelle rivolte del 2011 questo universo eterogeneo di istanze politiche dal basso aveva intravisto un’inedita opportunità di espressione, le logiche della guerra civile hanno finito per eclissarlo.
Gli avvenimenti degli scorsi giorni, però,
ci parlano nuovamente di cittadine e cittadini desiderosi di riappropriarsi
dello spazio pubblico non come teatro di guerra, ma come luogo di
rivendicazioni politiche da cui chiedere la fine della corruzione all’interno
delle istituzioni libiche, le dimissioni e la successiva marginalizzazione
politica di al-Sarraj, ma anche di Saleh e del Generale Khalifa Haftar. Il
cessate il fuoco, non a caso, giunge alla fine di una caldissima estate in cui
il livello di esasperazione tra la società civile libica e il conseguente
malcontento hanno raggiunto l’apice.
Dalla primavera del
2019, l’aggravarsi degli scontri armati a seguito del tentativo di Haftar di
prendere il controllo della Tripolitania ha visto il numero di sfollati interni
al Paese crescere fino a 287mila persone a giugno del 2020 (Ocha Libia, agosto
2020, Humanitarian Respone Monitoring. Humanitarian Dashboard (Jan-June 2020),
consultabile online qui).
L’impatto del conflitto sulla vita quotidiana della cittadinanza, tuttavia, non
si limita ai danni e alle vittime causate dagli attacchi militari che negli
scorsi mesi hanno preso di mira zone densamente popolate di civili. Il blocco
dei pozzi petroliferi situati nel sud-ovest del Paese, che andava avanti dal 17
gennaio 2019 per volere di milizie vicine al generale Khalifa Haftar, ha
infatti portato l’estrazione di greggio a diminuire da oltre un milione di barili
al giorno a soli novantamila barili al giorno.
La crisi della capacità estrattiva del Paese si è sommata a una corruzione dilagante che ha compromesso la capacità delle autorità libiche di rispondere al fabbisogno energetico del Paese. A livello internazionale, invece, la riduzione del numero di barili estratti si è sommata alla concomitante riduzione del prezzo del petrolio, con un impatto sulla redditività delle esportazioni di greggio che è stato devastante per la già provata economia libica.
Si è ulteriormente ridotta la disponibilità di denaro liquido e valuta estera circolante nell’economia ufficiale, con una conseguente crisi della capacità del Paese di soddisfare l’imponente domanda di beni di importazione e di arginare l’espansione del già importante mercato nero sia di beni di consumo che di valute. Ne è derivato un impoverimento radicale delle famiglie libiche, anche come portato dell’indebolimento di più lungo periodo di un’economia che dalla fine degli anni ’50 è pressoché esclusivamente fondata sulla rendita petrolifera.
Le aperture e chiusure a singhiozzo dei
terminal petroliferi hanno infatti caratterizzato le evoluzioni più salienti
degli equilibri del conflitto civile libico fin dalla recrudescenza degli
scontri armati coincisa con la fase di rinnovo istituzionale dell’estate 2014.
In parallelo, una serie di milizie create su basi molto eterogenee ha proceduto
all’occupazione e al controllo violento di buona parte dell’economia formale e
informale del Paese. La società civile libica si è così trovata
nell’impossibilità di accedere a servizi di base a meno di non accettare di
compromettersi in qualche misura con il complesso sistema di clientele e
corruzione da esse gestito con l’acquiescenza se non il supporto
dell’amministrazione statale.
Nelle analisi
politiche sulla guerra civile libica che vanno per la maggiore, tuttavia,
questa complessità è stata spesso liquidata col paradigma del “caos libico”.
Cittadini e cittadine, con i loro diritti, i loro bisogni e la loro lotta
quotidiana per la sopravvivenza, sono stati condannati all’irrilevanza. La
Libia, intanto, si è progressivamente trasformata in una sorta di paradigma
geografico dell’assenza: assenza di istituzioni, assenza di diritti, persino
assenza di umanità o sintesi spaziale del male. Non a caso, una delle varianti
della retorica del caos equipara il Paese a un Inferno in terra.
Questo tipo di analisi restituisce l’immagine semplicistica di uno spazio occupato pressoché esclusivamente da milizie e trafficanti che, nello scenario globale, sembra svolgere la mera funzione di “contenitore” di persone migranti. Ne risulta l’articolazione di un discorso sulla Libia che non parla mai di Libia, se non per usarla come sfondo retorico sul quale proiettare riflessioni che riguardano altro: la questione della migrazione irregolare verso l’Europa e il suo controllo; la competizione di istituzioni e imprese multinazionali Europee impegnate a tutelare i rispettivi interessi strategici nazionali; l’intervento di potenze regionali alternative a quelle europee o statunitensi nell’influenzare le evoluzioni del conflitto, e cosa questo può dirci del declino delle cosiddette “democrazie occidentali”. Persino la declinazione umanitaria della retorica del caos cucita intorno alla travagliata transizione del Paese finisce per espungere dal quadro della riflessione cittadine e cittadini libici.
Anche quando si denunciano la corruzione e la violenza diffuse nella gestione del fenomeno migratorio a opera di istituzioni libiche, spesso conniventi con i circuiti del traffico di esseri umani e artefici del ciclo della detenzione copiosamente finanziato da partner europei, tale denuncia è quasi sempre funzionale a una riflessione sullo stato della cosiddetta “civiltà giuridica europea” e la sostenibilità del supposto primato morale che le deriverebbe dal dichiarato impegno nella salvaguardia dei diritti umani fondamentali.
Con una sorta di utilizzo selettivo degli argomenti del diritto, quando si denunciano le condizioni di vita delle persone migranti detenute in Libia ci si dimentica di inserire la denuncia in una riflessione globale su come i dispositivi di contenimento della mobilità umana su scala planetaria abbiano ingenerato ovunque fenomeni di corruzione endemica e sistematica violazione dei diritti umani, anche al di qua del Mediterraneo. Nelle “caotiche” dinamiche libiche, un po’ paradossalmente, le esperienze e le rivendicazioni dei cittadini e delle cittadine libiche quasi sempre scompaiono.
Eppure, le proteste degli ultimi giorni ci raccontano che, fuori dalla retorica del caos, cittadine e cittadini libici hanno continuato a sperimentare nella loro vita quotidiana le strategie possibili per sopravvivere alla guerra civile, alle ingerenze internazionali, a una retorica sul proprio Paese che non li contempla mai, cercando di ritagliarsi margini di azione. Solo non rimandando oltre la scelta di dare voce alle loro esperienze del conflitto emergerà, forse, come proprio la società civile libica sia stata tra le più colpite vittime non di un generico caos, bensì dell’intersecarsi di due logiche di guerra e delle rispettive economie che prosperano nella crisi libica: l’economia della guerra civile e l’economia della guerra europea alla mobilità internazionale.