L’Italia bituminosa a Durban

1 / 12 / 2011

L’Italia arriva con un nuovo ministro dell’ambiente ai lavori della conferenza sul clima cominciata a Durban in Sudafrica (si tratta della 17esima «Conferenza delle parti», cioè dei paesi firmatari, della Convenzione dell’Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc).

Il ministro Corrado Clini, che ha una lunga esperienza di negoziati sulclima, si è dichiarato di recente a favore delnucleare ed è tra i principali sostenitori delmercato dei crediti di carbonio, uno dei meccanismiprevisti dal Protocollo di Kyoto perremunerare le aziende che riescono a ridurrele loro emissioni di anidride carbonica, unodei principali gas di serra. Sotto la sua direzione, il nostro paese ha creato il Carbon FundItaliano, che raccoglie i certificati di riduzionedi emissioni derivanti da progetti di aziende italiane nei paesi in via di sviluppo - e che ha permesso alle stesse di preoccuparsi di meno della riduzione delle emissioni in madrepatria.

Già da anni il governo italiano è visto come un blocco alle decisioni europee per una maggiore riduzione delle emissioni. E un segnale poco incoraggiante è dato dalla posizione tenuta dall’Italia in sede Ue circa la nuovadirettiva sulla qualità dei carburanti, che glistati membri inizieranno a discutere il prossimo2 dicembre a Bruxelles. Petrolio e altri combustibili derivati dalle sabbie bituminose sono considerati tra i combustibili fossili più inquinanti sul mercato globale, e per questo la Commissione europea intende differenziarli dai prodotti più “leggeri” commercializzati nell’Unione. È una decisione considerata lungimirante da organizzazioni della società civile e governi che si preoccupano di rispettare gli impegni presi nell’ambito del Protocollodi Kyoto e del negoziato multilaterale sul clima.

L’Italia è però tra i paesi che si oppongonoa questa differenziazione. Sarà forse per i nuovi investimenti che la multinazionale del petrolio italiana, l’Eni, sta portando avanti proprio in questo settore. A Sannazzaro de’ Burgondi, in provincia di Pavia, si trova una delle raffinerie più grandi d’Europa, dove viene trattato il petrolio ad alto contenuto di solfati estratto da Eni e da altre multinazionali nei giacimenti kazaki di Tengiz e Karachaganak, nella regione del Caspio del nord. L’estrazione di questo petrolio causa impatti severi sulla salute e sull’ambiente, e porta con sé una percentuale più alta della media di sostanze tossiche che vanno separate prima della sua commercializzazione. Questa raffineria, controllata dall’Eni, è in fase di ampliamento anche grazie al finanziamento di 435 milioni di euro ricevuti dalla Banca Europea degli Investimenti nel corso del 2011. La nuova sezione della raffineria includerà unimpianto specializzato nella raffinazione di bitumi e petrolio super-pesante: a detta della compagnia servirà a trattare il cosiddetto “fondo del barile”, ma sarà anche adatto a trattare sabbie bituminose come quelle che la stessa Eni e numerose multinazionali europee stanno esplorando in diversi paesi del mondo. Il caso più avanzato e controverso è quello della regione dell’Alberta in Canada, dove il diritto alla vita dei popoli indigeni canadesi viene minacciato dagli impatti devastanti dell’esplorazione in corso in una regione grande quanto il Regno Unito. L’esplorazione è già avanzata anche nella cinta dell’Orinoco in Venezuela ed è in fase iniziale in paesi come Giordania, Repubblica del Congo, Madagascar. Insomma, non c’è da aspettarsi uno spostamento verso posizioni più progressiste del nostro governo a Durban. Servirà uno sforzoenorme per ridefinire la politica energetica italiana e europea nella direzione che ci viene richiesta dalle comunità più esposte agli impatti dei cambiamenti climatici e dell’industria estrattiva: ovvero lasciare il petrolio nel sottosuolo.