L’Ovest dichiara guerra alla rivoluzione sudanese

I diplomatici riportano che un governo di natura pienamente democratica è “irrealistico”. Il popolo sudanese non ci sta.

23 / 2 / 2022

Un articolo tratto da Novara Media di Muzan Alneel, co-fondatore del “Think Tank dell’innovazione, scienza, e tecnologia per lo sviluppo incentrato sulle persone – Sudan” (Innovation, Science and Technology Think Tank for People-Centred Development – Sudan), e un membro esterno del Tahrir Institute for Middle East Policy. Traduzione di Alessandro Pietro Tasselli.

A partire dal colpo di stato militare del 25 ottobre 2021 non è passata neanche una settimana senza che in Sudan vi fossero almeno tre grandi proteste. Le dimostrazioni a livello di quartiere sono ormai all’ordine del giorno, e nuove forme di resistenza stanno emergendo ovunque. Il governo militare ha risposto con la violenza: sparatorie, lacrimogeni, presumibilmente stupri e violenze sessuali, assalti agli ospedali che curavano i feriti, oscuramento di internet, e anche container a bloccare le strade.

Fin dalla mattina del colpo di stato, il popolo sudanese ha richiesto la totale rimozione dei militari dalla loro politica. I governi internazionali, invece, sono stati attenti a mantenere qualche forma di regime militare nel paese – e stanno aiutando l’esercito a muovere guerra contro i suoi stessi cittadini.

Come ci siamo arrivati?

Per comprendere la situazione attuale in Sudan, dobbiamo prima capire gli eventi che hanno portato a questo punto.

Nel dicembre 2018 cominciarono a scoppiare in tutto il paese proteste in risposta all’aumento del costo della vita e alle sempre peggiori condizioni economiche. L’aprile seguente, le proteste sono culminate nella deposizione del presidente dittatore Omar al-Bashir, che aveva governato il Sudan per quasi trenta anni.

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Manifestanti che sventolano bandiere sudanesi e fanno il segno della vittoria durante una protesta contro la dittatura di Bashir, Khartoum, aprile 2019. Umit Bektas/Reuters

A tutto ciò seguì un governo da “periodo di transizione”: un accordo tra esercito e civili con lo scopo dichiarato di riportare il Sudan alla democrazia, guidato dal primo ministro Abdalla Hamdok – un tecnocrate che aveva lavorato per l’ONU. Questo governo era appoggiato da poteri regionali e internazionali, compresi gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, gli USA e il Regno Unito, insieme al Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, che elogiava l’impegno di Hamdok a liberalizzare l’economia.

Un evento chiave durante il periodo di transizione fu la sottoscrizione dell’accordo di pace di Juba – un patto tra il governo e i movimenti armati coinvolti nel conflitto in Darfur. Il risultato di questo accordo fu che i leader di tali movimenti furono investiti di cariche ministeriali e di governo, mentre i disagi che avevano portato al conflitto rimanevano disattesi.

Durante questo periodo, il movimento che esisteva sul territorio del Sudan camminava su una linea sottile, a metà tra dare la priorità alle proprie richieste – ovvero formare un parlamento, porre fine a ulteriori diminuzioni dei sussidi sui generi di base, e giustizia per i martiri della rivoluzione – e, temendo il collasso in un governo militare totale, appoggiare il governo di transizione nonostante le politiche economiche di stampo liberale. Questa politiche hanno portato a livelli di inflazione terrificanti, tanto che il costo della vita è salito del 300% nei 12 mesi precedenti a ottobre 2021.

Durante l’autunno del 2021, il colpo di stato era nell’aria. Nei loro discorsi, i generali dell’esercito usavano il declino economico del paese come prova del fallimento della leadership “civile” – e probabilmente interpretavano i livelli pubblici di frustrazione per le condizioni di vita come indizio che un colpo di stato avrebbe funzionato. Il 25 ottobre, il generale Abdel Fattah al-Burhan e l’esercito presero controllo del governo, dispiegando veicoli militari sulle strade della capitale, arrestando il governo civile, oscurando internet e interrompendo le trasmissioni radio. Fu cruciale l’appoggio trovato dal golpe tra i capi dei movimenti armati che si erano uniti al governo dopo l’accordo della pace di Juba.

Il movimento, però, stava aspettando il colpo di stato, e protestava in piazza contro di esso ancor prima che venisse effettuato. Questo è stato possibile solo perché i movimenti stavano costruendo solide fondamenta da decenni. Le “commissioni di resistenza di quartiere”, risalenti agli anni ’90, furono rifondate durante i moti del 2018-19 per sostenere il movimento di fronte alla brutale violenza di stato. Queste commissioni inizialmente non avevano una chiara visione politica, che però si sviluppò durante il periodo di transizione in risposta ai fallimenti del governo di Hamdok. Il primo bilancio dopo la rivoluzione, per esempio, decretò l’alleanza tra le commissioni di resistenza di quartiere e le commissioni del lavoro. Insieme ad alleati nei ministeri e nella pubblica amministrazione, queste commissioni si organizzarono contro il bilancio neoliberale, e obbligarono il governo a tenere una conferenza economica per discutere delle priorità di spesa della nazione.

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Manifestanti che urlano slogan durante una protesta contro il golpe militare, Khartoum, ottobre 2021. Mohamed Nureldin/Reuters

La mattina del colpo di stato, le commissioni della resistenza lanciarono proteste di massa che richiedevano la rimozione totale dell’esercito dalla politica sudanese. Le persone scesero nelle strade, chiudendole con barricate e intonando canzoni contro l’esercito. Nelle settimane successive, queste proteste cominciarono a essere programmate, e tenute in luoghi strategici come il palazzo presidenziale. 

Il resto del mondo interviene

Fin dalla caduta della dittatura di Bashir, i governi internazionali – incluso il Regno Unito – hanno svolto in Sudan un ruolo contro-rivoluzionario.

Nel periodo di transizione, i governi occidentali erano soddisfatti della leadership di Hamdok, che infatti attuava le loro politiche e spianava la strada per i loro investimenti. Questi governi continuavano ad appoggiare la realizzazione di politiche economiche di liberalizzazione addirittura mentre si svolgeva la conferenza sulle priorità di spese della nazione. Ci furono vari tipo di intervento, dai tweet dell’ambasciatore del Regno Unito in Sudan che richiedeva spudoratamente lo stop dei sussidi, agli accordi tra Fondo Monetario Internazionale e il governo sudanese che confermavano la messa in atto di queste politiche, rendendo di fatto inutile la conferenza in corso e quindi mostrando completo disinteresse per le volontà del popolo sudanese.

Questo schema si ripeté all’indomani del golpe. Le richieste per la totale rimozione dell’esercito dalla politica sudanese sono state descritte come “irrealistiche” dal ministero degli esteri degli Stati Uniti, mentre l’ambasciatore del Regno Unito ha pubblicato un video dove chiede un dialogo con i generali dell’esercito. In effetti, l’impegno della comunità internazionale nel mantenere qualche forma di regime militare in Sudan è tale da appoggiare un accordo tra l’esercito e proprio quel primo ministro che l’esercito stesso aveva deposto l’anno precedente. Anche se l’accordo era pensato per mantenere i generali al potere e fu veementemente osteggiato dal popolo sudanese, diplomatici internazionali, compreso il segretario generale dell’ONU, continuavano a chiedere al popolo di accettarlo. Ma il popolo non ha accettatp, né ha cessato di protestare – e la sua protesta ha portato al collasso dell’accordo.

Questa situazione – in cui la resistenza sudanese chiede a gran voce la creazione di nuove forme di governo, inclusive e sostenibili, mentre i governi internazionali continuano a spingere per l’attuazione del loro piano scritto a tavolino e controrivoluzionario – è ancora la base della politica sudanese attuale.

Alla guida di un nuovo tentativo di legittimare il colpo di stato e rendere istituzionale lo status quo c’è Volker Pethes, il rappresentante speciale del segretario generale dell’ONU per il Sudan – stavolta nella forma di un “processo di dialogo” che includa tutti “gli attori politici sudanesi”. Questa iniziativa arriva nel momento in cui la posizione della resistenza si riassume in “no alla negoziazione, no alla collaborazione, no alla legittimazione” (i “tre no contro il regime militare”). Per il movimento di resistenza, questo non è altro che un tentativo di confondere le acque sull’effettiva, disperata situazione in Sudan: perché le persone possano avere la possibilità di avere garantiti i propri diritti, ogni forma di regime militare deve cessare. Appoggiare una qualsiasi forma di intervento militare nella politica sudanese significa condannare il popolo a una vita di ingiustizia, oppressione e violenza. Non c’è via di mezzo – entrambi i fronti stanno lottando per la propria sopravvivenza. 

Prevedibilmente, i governi internazionali stanno supportando l’opzione del dialogo. Regno Unito, USA, Emirati Arabi e Arabia Saudita – un’alleanza controrivoluzionaria che si autodefinisce ‘il Quad’ – ha rilasciato una dichiarazione congiunta che supporta tale opzione. In particolare, questa alleanza in passato ha spalleggiato un rinnovato impegno alla disastrosa partnership militare-civile e all’accordo di Juba, nonché all’accordo tra Hamdok e l’esercito.

Queste affermazioni dimostrano la volontà del Quad di mantenere una qualche forma di regime militare in Sudan. D’altro canto, comprovano anche una storia di supporto a iniziative fallimentari. Il fallimento non è solo il risultato dell’incompetenza dei diplomatici, ma dello schema profondamente sbagliato che viene favorito dalla comunità internazionale. In questo schema, solo una leadership storica, commerciale o militare è possibile. Gli attori internazionali continuano a sognare mondi di fantasia dove gli accordi stipulati dai leader sono in grado di stabilizzare nazioni a prescindere dal fatto che tali leader abbiano effettivamente incontrato le richieste delle masse. Ciò avrebbe potuto far raggiungere una temporanea stabilità nel periodo di Bashir, durante il processo di ‘dialogo nazionale’ nel 2015, ma da allora il Sudan è stato trasformato radicalmente dalla resistenza organizzata. E così l’iniziativa del dialogo, finché mantiene il suo scopo di appoggio dell’esercito, è condannata al fallimento.

Una rivoluzione, non una crisi

Di conseguenza, la nuova iniziativa non cambia molto per la resistenza sudanese, che si è impegnata a protestare a prescindere dal numero di diplomatici che descrivono i loro obiettivi come irrealistici. 

Non è il dialogo tra leader che importa alla resistenza sudanese, ma il dialogo tra commissioni, gruppi di lavoro e altre organizzazioni dal basso riguardo una nuova visione comune della forma di governo che vorrebbero istituire. Negli ultimi due mesi molti gruppi hanno pubblicato progetti, visioni individuali, nonché dichiarazioni sugli strumenti che intendono usare per raggiungerli. Le strade fermentano di notizie su messaggi congiunti, che sono previsti per le prossime settimane, e che dovrebbero consolidare la resistenza sudanese nel suo obiettivo di sovvertire le forze controrivoluzionarie.

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Copertoni che bruciano sulla strada mentre i manifestanti marciano contro il regime militare, Khartoum, gennaio 2022. Mohamed Nureldin Abdallah/Reuters

Perthes ha descritto la situazione in Sudan come una “crisi”. Una dichiarazione dalla commissione della resistenza della città di Mairno rifiuta però questa descrizione – non è una crisi, ma una “rivoluzione”.

Questa dichiarazione inoltre fa appello alle persone in tutto il mondo perché “mettano pressione ai loro governi affinché si uniformino agli obiettivi dei nostri popoli, criminalizzando il colpo di stato”. In effetti, le persone in tutto il mondo possono mostrare solidarietà alla rivoluzione, portando alla luce i modi con cui i governi internazionali stanno intervenendo in Sudan, rifiutando le loro iniziative controrivoluzionarie e amplificando le voci della resistenza. Con questa solidarietà, il popolo del Sudan può vincere questa guerra, e vincere una possibilità di un futuro dignitoso.

** Pic Credit: Manifestanti sudanesi marciano contro il governo militare dopo il colpo di stato del 25 ottobre 2021, Khartoum, dicembre 2021. Mohamed Nureldin Abdallah/Reuters