Mapuche: un popolo senza diritti

Diario dalla carovana dei “Pueblos contra el Terricidio”.

6 / 2 / 2020

Lungo la ruta 40, a una trentina di chilometri di strada rigorosamente sterrata dalla cittadina di El Maiten, c’è un cancello in mezzo al nulla come se ne trovano soltanto in Patagonia. 

Oltre il cancello lo stesso paesaggio che abbiamo alle nostre spalle: un deserto sovrano che concede all’anima l’ipotesi di sentirsi smarrita.

Un luogo senza storia, verrebbe da pensare. Eppure una storia anche questo posto ce l’ha. Ed è una di quelle che non bisogna mai dimenticare. Ci troviamo nel luogo in cui Santiago Maldonado fu rapito e dove, settanta giorno dopo, ne fu ritrovato il corpo. 

Ad accoglierci al cancello arrivano una donna, un uomo e due bambini. Sono indigeni mapuche e la terra che calpestiamo è una di quelle che hanno recuperato ai gli immensi latifondi di Benetton. Ci fanno accomodare che in una sorta di baracca senza muri: qualche asse di legno inchiodata che non ripara dal forte vento che ai piedi della grande cordigliera andina non smette mai di soffiare. “Il vento - raccontano i mapuche - è parte integrante del paesaggio della Patagonia”. 

La struttura che funge da posto di vedetta per segnalare eventuali attacchi da parte dell’esercito, dalla polizia o dalla milizia privata di Benetton, ci spiega Martineche, portavoce della comunità Pu Lof en resistencia del Departamento of Cuchamen, venne costruita dopo quel 1 agosto del 2017, quando per un blocco stradale attuato da dieci uomini vennero mobilitati oltre cento gendarmi con tanto di mezzi pesanti. 

Una vicenda che, a ben pensarci, assume i contorni dell’assurdo. La strada che porta a El Maiten, non è precisamente un’autostrada. Se d’estate ci passa un’auto ogni mezz’ora è tanto. Ancora di meno in agosto. Mese che, qui in Argentina, si veste dei freddi colori dell’inverno.

Martineche comincia la sua narrazione spiegandoci che di fianco al blocco stradale, oltre il cancello, i dieci uomini erano accompagnati da donne e bambini, tenuti al riparo nella torre di guardia che gli occupanti avevano costruito dove ora ci sono solo le quattro assi di legno dove siamo stati fatti accomodare.

Dall’altra parte della cancello, un mezzo esercito di uomini della Gendarmeria. Avevano l’ordine di non forzare l’entrata nel Pu Lof, fino a quando una misteriosa chiamata ha cambiato le carte in tavola. Gli uomini in divisa allora hanno forzato il cancello e hanno fatto irruzione. È cominciata così una battaglia disperata. Donne e bambini, sono stati sgomberati dalla torretta dove avevano cercato rifugio mentre i gendarmi bruciavano tutta la baracca. materassi, coperte per ripararsi dal freddo e anche i giochi in legno dei bambini sono stati radunati in un grande falò. Lo sparuto gruppetto di uomini che avevano cercato di resistere erano stati spinti verso il fiume. Santiago Maldonado è stato catturato in questo momento. Lui non era un mapuche e non aveva la stessa abilità degli occupanti a muoversi in un scarpata coperta di neve. Lui era solo un attivista proveniente da Buenos Aires che aveva sposato per amore di giustizia la causa degli indigeni. E questa generosità, Santiago, l’ha pagato con la vita. Per settanta giorni è stato considerato desaparecido mentre le varie armi e le due gendarmerie che avevano forzato il campo, senza che ancora oggi non si sappia chi ha dato l’ordine di farlo, giocavano a scaricarsi la responsabilità a vicenda. Alla fine, il corpo di Santiago è stato fatto ritrovare sulla riva del fiume Chubut, a pochi metri da dove era stato visto ancora in vita per l’ultima volta. Il corpo era ancora intatto. Come se fosse morto da pochi giorni e non da più di due mesi. Una delle ipotesi è che sia stato conservato in una cella frigorifera. Di sicuro, qualcuno l’ha riportato là, perché le ricerche effettuate dalla polizia e anche dagli amici di Maldonado, non avevano trovato nulla, in quell’alveo del Chubut.

Martineche e gli altri mapuche presenti ai fatti sono ora imputati in un processo per il quale, a rigor di logica, dovrebbero essere testimoni. Un modo per silenziarli perché ritenuti pericolosi.

Martineche e Romina, cugina del lonco Facundo, attualmente detenuto in Cile a Temuco, raccontano questa storia col tono della normalità. Il loro popolo, spiegano, sono “storicamente abituati” a subire un’opera di sistematica repressione. “Nemmeno il nostro nome, ci viene riconosciuto - spiega Romina - Molti di noi sono dovuti andare all’anagrafe e scegliere un nome spagnolo. A scuola l’insegnamento non lascia spazio alla nostra storia, così come la giustizia argentina non lascia spazio ai nostri diritti”.