Missione Compiuta

Lo scenario siriano dopo l'annunciato ritiro delle forze militari Usa

20 / 12 / 2018

Un'altra missione compiuta, il presidente americano Trump conclude così il suo tweet dove accenna alla sua nuova catastrofica decisione - un repentino ritiro delle forze terrestri Usa dalla Siria.

trump

Sono invece apparentemente scioccati da questa sua improvvisa decisione gli ufficiali che, in un articolo uscito il 19/12/2018 sul New York Times, rivelano come Trump abbia dato l'ordine di un completo ritiro, da concludersi entro trenta giorni. Questo pochi giorni dopo che la Turchia, insieme alla sue bande jihadiste, ha annunciato come imminente un’operazione militare di larga scala a Est dell'Eufrate. Ciò mette non solo la città di Kobane, ma tutto il resto del Rojava, in un pericolo senza precedenti.

In questi anni gli Stati Uniti hanno sempre avuto due "policy ufficiali" in Siria, spesso contraddittorie fra loro. La prima guidata dal Dipartimento di Stato Usa, il cui obiettivo principale è abbattere il presidente siriano Bashar al Assad.

La seconda policy, portata avanti dal Pentagono, aveva l'obiettivo di degradare e sconfiggere l'Isis. Questa è una linea più recente, voluta da Barack Obama dopo che l’Isis, sfuggito al controllo americano, aveva invaso l’Iraq catturando la città di Mosul e destabilizzando l’intera regione. La guerra all’Isis ha portato ad una vera e propria alleanza con le forze curde in Rojava, in quanto reputate le uniche affidabili.

Dal 2015 ad oggi, questi due dipartimenti americani si sono scontrati ripetutamente. Da una parte il Pentagono spingeva per rapporti più stretti con i curdi, che gli avrebbero permesso di liberare i territori occupati dal califfato di Al Baghdadi, senza mettere a rischio i propri soldati, lasciando così ai combattenti curdi l’onere di pagare il prezzo di sangue. Dall'altra parte lo sconforto del Dipartimento di Stato cresceva sotto le pressioni della Turchia, considerata da quest’ultimo uno storico alleato strategico, soprattutto per controbilanciare l’influenza iraniana nella regione.

La verità però è un’altra. Fino ad oggi mi sono morso la lingua, accennando solo raramente alla duplicità degli americani, ma oggi rivelerò un’altra storia di cui il New York Times finora non ha mai voluto parlare.

La politica americana del poliziotto buono e quello cattivo è stata una farsa epocale. Dopo la battaglia di Manbij, conclusa nell’agosto 2016, gli americani avevano già deciso di tradire i curdi e l'esperimento democratico in Siria. Questo perché i curdi avevano rifiutato di appoggiare la politica del Dipartimento di Stato americano e di aprire un fronte militare contro Assad.

Subito dopo la battaglia di Manbij, gli americani diedero luce verde ai turchi per invadere la Siria, bloccando così l’avanzata curda a Ovest dell’Eufrate, che gli avrebbe permesso di unire il cantone di Afrin al resto del Rojava. L'entrata della Turchia a Jarabulus, la successiva avanzata su Al Bab, e infine l'invasione e l'occupazione del cantone di Afrin, sono state decisioni prese a tavolino con gli americani, per impedire alla guerra civile siriana di terminare. Dall’altra parte la Turchia aveva un forte interesse ad occupare quel territorio, da cui i curdi, con il loro esperimento democratico, erano diventati fonte costante d’ispirazione per i loro cugini curdi oppressi in Bakur, nel Kurdistan turco.

La cintura di sicurezza in territorio siriano che Erdogan ha richiesto all'Unione Europea come condizione “sine qua non” per l’accordo sulla gestione dei rifugiati, in realtà serviva per dare respiro alle forze ribelli pro Turchia. Questo perché già nel 2016 queste ultime avevano cominciato a subire pesanti sconfitte, perdendo territori ovunque. Serviva un territorio franco per dare respiro a queste forze e mantenere intatte le linee di approvvigionamento che dalla Turchia arrivano ad Idlib, città chiave dei ribelli islamisti.

Ora che le forze Isis sul campo, impegnate a difendere la loro ultima roccaforte a Hajin, sono praticamente sconfitte, gli americani non hanno più bisogno dei curdi e tanto meno delle loro idee rivoluzionarie. Poco importa il sacrificio dei giovani curdi e arabi, caduti a migliaia per liberare il mondo dalla minaccia dell’Isis. Soprattutto quando la rappresentanza politica del Rojava ha fatto enormi passi in avanti nei dialoghi di pace con Assad, costruendo una road map che avrebbe visto l'autonomia democratica del Rojava riconosciuta, e ponendo fine ad una tragica guerra che ha raggiunto il suo ottavo anno e ha mietuto mezzo milione di morti.

Il Confederalismo Democratico, il femminismo militante delle Ypj, le municipalità democratiche, l’ecologia come pratica di decrescita sostenibile, la fratellanza fra popoli nel rispetto delle minoranze linguistiche e culturali. Tutto questo e molto, molto di più il Rojava, o meglio la Siria Federale Settentrionale, ha avanzato nelle sue politiche nonostante il caro prezzo della guerra. Tutto questo rischia di diventare un’anomalia della storia, un breve glitch, che ci ha fatto sognare un’alternativa a questo mondo di merda.

Un mondo, che rischia di essere cancellato da un tweet.