Obama nel deserto della guerra «giusta»

29 / 3 / 2011

Questa è la prima guerra di Barack Obama. Le altre le aveva ereditate dal suo vilipeso predecessore, George W. Bush, per mettere la sordina (Iraq) o per promuovere un'impressionante escalation (Afghanistan). Ma la guerra libica è la prima grande operazione militare la cui iniziativa spetta solo a questa presidenza. Chi avrebbe mai immaginato uno scenario simile nel novembre 2008, quando Obama fu eletto come candidato pacifista.
La guerra libica irrompe nel dibattito statunitense proprio mentre Obama lancia la difficile campagna per la rielezione e, a tal scopo, cerca di convogliare l'attenzione del pubblico sui temi interni, dell'istruzione e dell'economia. Ma di colpo questo desertico e quasi disabitato paese lontano 8.000 km diventa cruciale per la leadership della superpotenza mondiale, relegando sullo sfondo - magari solo momentaneamente -le pur decisive questioni domestiche.
Come avviene per ogni conflitto, l'effetto della guerra libica sulla rielezione o meno di Obama dipende non tanto dalla sua fondatezza etica (è una guerra giusta?) o geopolitica (serve davvero gli interessi nazionali degli Stati uniti?), quanto dal suo esito; forse neanche se la guerrra sarà un successo, Obama otterrà un secondo mandato (a causa di una perdurante recessione, nel 1992 George Bush padre perse contro Bill Clinton, nonostante la vittoria nella prima guerra del Golfo); ma certo che, se l'operazione Odyssey Dawn («Alba d'odissea») fallirà, allora la rielezione sarà quasi impossibile.
Però in che consisterebbe un successo nella guerra libica? È questa la domanda che suscita più dubbi (per una volta bipartisan) nella politica americana. Dubbi che il presidente ha cercato di dissipare ieri sera davanti agli studenti della National Defense University a Fort McNair nel discorso tenuto alle 2 di notte ora italiana (troppo tardi per prenderne conoscenza).
Le ragioni invocate dall'amministrazione Obama per giustificare l'intervento sono note: gli Usa hanno partecipato a un'azione decisa da una specifica delibera delle Nazioni unite, quindi rispettando il multilateralismo; gli alleati europei e arabi hanno implorato gli Usa di muoversi per prevenire la carneficina dei ribelli libici; lasciar fare Gheddafi avrebbe incoraggiato gli altri tiranni mediorientali a schiacciare l'opposizione con la forza; inoltre, visto il ruolo degli Usa nella Nato, una no-fly-zone sarebbe stata impossibile senza la partecipazione americana; questa strategia è il modo più «economico» per defenestrare Gheddafi senza impegnare truppe di terra; e comunque - come ha esplicitamente detto la segretaria di Stato Hilary Clinton - «se una settimana fa non fossimo intervenuti, ora staremmo a piangere sui morti di Bengasi».
Anche per una parte dei progressisti americani queste giustificazioni possono spiegare le battute iniziali dell'intervento, difeso per esempio sul più importante settimanale della sinistra Usa, The Nation, da Juan Cole che ha fatto circolare in rete «10 ragioni per cui la Libia non è l'Iraq»: una tesi contro cui vi sono state accese reazioni tra i radicals, non fosse altro che per un prolema di coerenza: perché non difendere anche i civili del Bahrein o dello Yemen? Perché non bombardare la Siria? O forse la no-fly-zone vale solo per i dittatori invisi a Washington?
Comunque, anche a far finta di dimenticare che «la prima vittima di una guerra è la verità», e anche a prendere per buona la narrazione ufficiale, le motivazioni addotte da Obama e da Clinton si basavano su una precisa ipotesi di lavoro, e che cioè - come ha detto un esponente dell'amministrazione - la guerra sarebbe stata «questione di giorni, non di settimane». Ma ora siamo già alla Settimana Due.
Non solo, ma il mandato delle Nazioni unite era di evitare il massacro dei civili, non di provocare un regime change. Invece, a poco a poco lo scopo della Coalizione è diventato quello di favorire l'avanzata degli insorti e quindi la sconfitta di Gheddafi. Cioè gli Stati uniti stanno prendendo parte, ancora una volta, a una guerra civile, di cui impongono perdenti e vincenti.
Ora, se Odyssey Dawn riuscirà a imporre in breve la pax americana, allora nessuno si dorrà più di tanto (a parte le vittime dei bombardamenti e i loro familiari); ma se invece Gheddafi riuscirà a resistere o se la guerra civile continuerà anche in sua assenza tra le varie tribù libiche, allora i ripensamenti sulla «giustezza» della guerra si diffonderanno a macchia d'olio (come avvenne in Iraq quando la guerriglia continuò a mietere vittime). E così, Odyssey Dawn fa di Gheddafi l'arbitro delle dinamiche politiche Usa.
Paradossalmente allo stravagante e sanguinario beduino questa guerra conferisce una delle chiavi della Casa bianca. Ma proprio questo suo nuovo, imprevisto potere segna in modo irreparabile il suo destino.