Obama ha vinto il match sul ring del Parlamento, ora sta alzando in alto le braccia coi guantoni ma è un pugile suonato, un vincitore con le costole rotte, debolissimo per i prossimi incontri.

Obamacare

di Bz
17 / 10 / 2013

La cura di Obama per evitare il default finanziario e porre termine allo shutdown per i dipendenti federali ha avuto effetto. Temporaneo.

Fino a febbraio, il Parlamento ha autorizzato l’innalzamento del debito e il rifinanziamento della spesa pubblica dell’amministrazione pubblica americana. Una decisione presa allo scadere dell’ora X che avrebbe potuto scatenare un effetto domino sui mercati finanziari di tutto il mondo e messo in ginocchio la politica economica di Obama, una decisione sofferta che ha dilaniato il Partito Repubblicano, dove, per il momento, i deputati e senatori fans del Tea Party, sono stati messi all’angolo.

Obama ha vinto il match sul ring del Parlamento, ora sta alzando in alto le braccia coi guantoni ma è un pugile suonato, un vincitore con le costole rotte, debolissimo per i prossimi incontri.

Un mach, dunque, devastante per la governance americana, in cui si è evidenziata tutta la debolezza del castello di carte finanziario tenuto in piedi da una nazione che ancora detta l’agenda politica, economica e finanziaria al mondo intero, minacciando, oggi, essendo alla canna del gas, la rovina di tutto il vicinato.

Una super potenza che ha i piedi d’argilla, dunque, per quanto riguarda gli equilibri economico finanziari interni, sotto schiaffo finanziario, in particolare della Cina e degli Emirati, per il possesso di gran parte del debito pubblico statunitense, argomento di cui abbiamo scritto in precedenti articoli, ma, soprattutto, in crisi, sul piano di quella forma di egemonia imperialistica che avevamo imparato a conoscere con le avventure belliche a cavallo tra la fine secolo passato e questo in corso, dai conflitti balcanici alla prova di forza con la Cina, agita attraverso le tensioni con la Corea del Nord.

Di questo stato delle cose ne sono un sintomo evidente le torsioni in politica estera sia nei recentissimi sviluppi nei confronti dell’embargo all’Iran, sia in rapporto alle minacce di intervento diretto  in Siria, sia nell’allentamento delle controversie tra Cina, Filippine, Giappone e Vietnam sugli arcipelaghi , strategici per il controllo militare dell’area, delle isole nel Mar Cinese, in discussione, proprio, in questi giorni. A queste rettifiche concrete della politica estera americana va sommato un altro paio di epifenomeni nell’establishment politico militare degli USA.

Nel giro di un anno vi è stato un avvicendamento negli alti gradi delle forze armate che ha dei precedenti, così sostanziosi, solo dopo la disfatta statunitense nel sud est asiatico; un cambio della guardia, praticato senza esclusioni di colpi, accompagnato da scandali, ruberie, malversazioni che sta mettendo a riposo o fuori dal giuoco delle strategie politico militari quella leva di alti papaveri che si era formata nella fase delle guerre, di cui abbiamo accennato sopra.

Probabilmente, per sostituirla con la strategia della blitzkrieg con droni e quant’altro, che abbiamo, già, visto all’opera nella eliminazione di Osama bin Laden, nelle tante operazioni nelle zone tribali tra Waziristan e Pachistan, e, recentissimamente, in Somalia e Libia.

L’altro aspetto che segna questo cambio di rotta è il deflagrare, grazie alla diffusione di un pacco di documenti riservati da parte dell’informatico Edward Snowden, ora ospite protetto della Russia, del caso NSA, delle intercettazioni, della violazione della privacy da parte del Grande Orecchio del Pentagono, nei confronti dei cittadini americani così come verso i cittadini degli altri Stati, ritenuti sospetti; una polemica sollevata anche in sede ONU dalla intercettata presidente del Brasile, Dilma Rousseff e dal presidente dell’Equador, Rafael Correa, sequestrato per una notte nell’aereo presidenziale in Austria, reo di aver dato ospitalità ad Julian Assange, guru di WikiLeaks.

È una fase di transizione e di conseguente instabilità, questa della presidenza Obama, che, molto spesso, nei suoi passaggi critici, ci consegna, un presidente USA, prigioniero delle sue scelte politiche di lungo periodo, che, apparentemente, sembra debole e smarrito ma che, in realtà, sta macinando gli avversari e gli oppositori di un piano complessivo di riposizionamento strategico del comando geopolitico degli USA nel mondo.