Palestina - La lotta delle donne all'occupazione passa per la lotta al patriarcato

5 / 2 / 2020

Intervista di Nena-News a Miassar Ateyani, direttrice della General Union of Palestinian Women: «La liberazione delle donne dalla cultura patriarcale deve diventare il movimento propulsore più importante della lotta del popolo palestinese contro il colonialismo. Non dobbiamo relegare in secondo piano la difesa dei nostri diritti di donne: noi combattiamo la violenza dell’occupazione combattendo la violenza sociale che gli uomini esercitano su di noi». Di Wolfram Kuck.

Nablus, 3 febbraio 2020, Miassar Ateyani, classe 1964, è la direttrice dell’ufficio di Nablus della General Union of Palestinian Women (Gupw), ramo dell’Olp che si occupa delle donne palestinesi nei Territori occupati e nella diaspora. La Gupw è stata fondata nel 1965, pochi mesi la fondazione della stessa OLP. La storia personale di Miassar è una lunga storia di militanza politica: da sempre attiva nella sinistra radicale palestinese, Miassar è stata detenuta in carceri israeliani in tre diverse occasioni.

Durante la sua ultima detenzione, durata sei mesi, ha raccolto quante più testimonianze possibili di vita e di lotta dalle sue compagne detenute. Uno dei suoi progetti nel futuro è infatti la pubblicazione di un libro che racconti la storia della lotta palestinese attraverso le storie, personali e collettive, delle donne palestinesi che ha incontrato durante il suo cammino.

Miassar sarebbe dovuta venire in Italia nel maggio scorso, invitata da una rete di collettivi e centri sociali per tenere dibattiti e iniziative in diverse città. Le è stato negato il visto dalle autorità israeliane ma ciò non dovrebbe impedire alle realtà solidali di riprovare a portare in Italia questa interessante testimonianza sulla lotta palestinese. Abbiamo incontrato Miassar nella sua casa, in un quartiere popolare di Nablus.

Ci può descrivere le attività che svolgete come Gupw, il modo in cui intervenite nella società palestinese e il quadro teorico di analisi a cui fate riferimento?

Noi abbiamo un piano per combattere l’occupazione. Sosteniamo che la lotta di liberazione delle donne dalla cultura patriarcale debba diventare il movimento propulsore più importante della lotta del popolo palestinese contro l’occupazione e il colonialismo. Per questo nelle nostre attività i piani si intrecciano, ci occupiamo della liberazione delle donne per liberare la Palestina. Sin dall’inizio, nella lotta di liberazione palestinese, le donne hanno ricoperto un ruolo importante, come combattenti hanno compiuto operazioni militari contro l’occupazione. Un esempio su tutti, Leyla Khaled. Molte donne sono state imprigionate nel corso dei decenni. E ancora oggi molte donne sono incarcerate.

Noi come Gupw ci prendiamo cura delle donne prigioniere, sia mentre sono in stato di detenzione sia dopo il loro rilascio. Così come ci occupiamo delle donne che vivono nei campi profughi oppure nei villaggi della Valle del Giordano. Tante energie le investiamo nel sostenere le ragazze che studiano all’università. Sosteniamo coloro che studiano e incoraggiamo tutte le altre a farlo. Parliamo con le famiglie e le invitiamo a permettere l’iscrizione delle loro figlie all’università e di sostenerle economicamente. Crediamo fermamente nello studio e nella formazione superiore come arma di riscatto. Altro nostro punto di intervento centrale è la campagna di boicottaggio di Israele. Non solo siamo parte attiva della grande campagna Bds, ma abbiamo anche fondato uno specifico comitato di donne per il boicottaggio. Con questo comitato andiamo a bussare casa per casa, entriamo a parlare con le donne per convincerle a boicottare i prodotti israeliani che trovano nei negozi. Insegniamo alle donne anche a riconoscere quei prodotti e proponiamo tutta una serie di alternative. Con il comitato per il boicottaggio andiamo anche nelle scuole e parliamo con gli studenti. Insegniamo loro come si fa a boicottare i prodotti israeliani. Sembra una banalità ma, in un’economia sotto occupazione e colonizzata come lo è la nostra, il boicottaggio dei prodotti dell’occupante colonizzatore non è affatto semplice. Bisogna saper riconoscere quei prodotti, scoprire quali trucchetti usano per camuffarli, bisogna soprattutto avere delle alternative e sapere dove si possono andare a reperire.

Insegnare tutto ciò ai giovanissimi che frequentano le scuole è un lavoro che consideriamo di fondamentale importanza. Poi nelle scuole, oltre a quello appena detto, proviamo con gli studenti più interessati e motivati a ideare degli spot e delle campagne a favore del boicottaggio. Collaboriamo stabilmente anche con le facoltà di Media e Giurisprudenza dell’Università di Nablus e proviamo a far incontrare liceali e universitari e farli lavorare insieme nell’ideazione di nuove campagne di promozione del boicottaggio. Con il comitato entriamo anche negozio per negozio nei quartieri di Nablus e ci mettiamo a parlare con tutti i clienti che entrano e consigliandoli di comprare prodotti locali, o comunque non israeliani. Il boicottaggio poi non si limita all’ambito economico. Ci spendiamo molto anche per il boicottaggio culturale, ovvero il rifiuto di collaborazione con le università o altri istituti di ricerca che in un modo o nell’altro sostengono l’occupazione. C’è poi anche tutto l’aspetto dello spettacolo, con il boicottaggio degli eventi sportivi o artistici. Ovviamente su questa tema del boicottaggio lavoriamo molto con gli internazionali; una campagna di boicottaggio dell’occupazione e dell’apartheid può funzionare solo se è una grande campagna a livello internazionale. Come Gupw sosteniamo e partecipiamo a tutte le manifestazioni contro le colonie illegali.

Non ci dimentichiamo di sostenere quelle famiglie o comunità le cui case si trovano al di là del muro dell’apartheid e la cui vita è diventata un labirinto di checkpoint, orari di chiusura e apertura, controlli militari, minacce di demolizione delle case e tutto il corollario classico dell’occupazione coloniale. Combattiamo quotidianamente contro tutti i molteplici tentativi di normalizzazione dell’occupazione, ovvero il tentativo di farci accettare lo status quo dell’occupazione come un dato di fatto con cui convivere con rassegnazione e in cui provare a svolgere una vita normale, come se niente fosse. Stiamo vicine e non lasciamo sole nel dolore tutte le madri che hanno perso un figlio o una figlia, uccisi dai soldati israeliani. Oppure sosteniamo tutte quelle famiglie che hanno perso una donna per mano dell’occupazione, che sia una figlia, una madre o una nonna. Invitiamo sempre le famiglie a denunciare gli omicidi e affrontare il processo, offrendoci di seguirle passo passo in tutta la fase processuale. E’ chiaro che non crediamo nei tribunali e nella giustizia dell’occupante ma crediamo anche che sia importante mostrare al mondo tutta l’ipocrisia del sistema dell’occupazione che nella stragrande maggioranza dei casi assolve i suoi soldati assassini. Inoltre, con quelle sentenze di assoluzione possiamo rivolgerci ad altre istituzioni internazionali e combattere così l’occupazione su piani diversi.

Incoraggiamo il lavoro manuale tradizionale delle donne e organizziamo periodicamente dei mercatini in cui provare a vendere questi prodotti. In questo modo proviamo a generare piccole entrare di reddito per le donne per favorire la loro autonomia. Ovviamente come Gupw un momento centrale della nostra attività è l’8 marzo. Ogni anno incentriamo la nostra manifestazione sulla richiesta di libertà per tutte le donne prigioniere. E’ un momento di grande visibilità e quindi decidiamo di sfruttarlo per parlare della condizione delle nostre sorelle in prigione. Irrinunciabile per noi è andare ogni 8 marzo in corteo verso un checkpoint della nostra città a urlare la nostra rabbia in faccia ai soldati per la prigione a cielo aperto in cui l’occupazione ci costringe a vivere e per chiedere di poter riavere tra di noi e riabbracciare le nostre sorelle sequestrate nelle prigioni dell’occupante. Ogni anno poi, in prossimità dell’8 marzo, organizziamo conferenze, iniziative e incontri con tutte le organizzazioni delle donne palestinesi per rinsaldare e rafforzare l’unità d’azione. In questo periodo poi come Gupw stiamo lavorando all’organizzazione del nostro sesto congresso. Lo stiamo immaginando come una sorta di conferenza internazionale delle donne. Infatti, oltre alle donne palestinesi nei campi profughi di Siria, Libano e Giordania, stiamo invitando anche delegazioni dal Sud America, dal Cile e dal Brasile.

Può entrare più nello specifico sulla tua visione delle donne nella società e nella lotta palestinese?

Lo dico molto francamente: le donne soffrono di più sotto l’occupazione militare ed è proprio a causa di questa sofferenza che le donne palestinesi sono donne molto forti. Fin dall’inizio della nostra lotta ci sono sempre state delle combattenti e ancora oggi è così. Perché le donne che sono in prigione sono delle combattenti. Le giovani ragazze che attaccano i checkpoint militari sono delle combattenti. Le donne palestinesi si considerano ancora delle combattenti. In questo non è cambiato nulla. Le donne sono quindi coinvolte nella rivoluzione palestinese. Questo coinvolgimento riguarda ambiti anche molto diversi: ci sono le giovani donne che continuano a studiare nonostante le mille difficoltà e riescono a formare una loro competenza, ci sono le donne che si attivano per il boicottaggio di Israele e quelle che non permettono ai soldati di entrare nelle loro case quando vengono per arrestare dei loro familiari. Poi ci sono ovviamente le donne che fanno la resistenza. Le donne sotto l’occupazione soffrono il doppio. Se guardi negli occhi di una donna palestinese puoi leggere l’orgoglio di essere palestinese, perché siamo donne forti. I nostri sono occhi bellissimi. Purtroppo, visto che viviamo questa terribile situazione di occupazione militare, spesso ci scordiamo dei nostri diritti di donne, o meglio li mettiamo in secondo piano. Per esempio, ci scordiamo che non dobbiamo permettere che una ragazza si sposi prima dei 18 anni. Oppure ci scordiamo che dobbiamo difendere i diritti di ogni donna nel matrimonio, come anche nel divorzio.

Come Gupw quindi abbiamo fatto la precisa scelta di non relegare in secondo piano, per via dell’occupazione, la difesa dei nostri diritti di donne. Anzi, abbiamo deciso di concentrarci proprio su questo tema per combattere l’occupazione. Noi combattiamo la violenza dell’occupazione combattendo la violenza sociale che gli uomini esercitano su di noi. Un esempio attuale e specifico su tutti: il Cedaw (Commitee on the Elimination of Discriminations Against Women, comitato delle Nazioni Unite fondato nel 1979. Gli Stati che rettificano questa convenzione si impegnano ad adeguare a essa la loro legislazione, a eliminare ogni discriminazione nonché a prendere ogni misura adeguata per modificare costumi e pratiche consuetudinarie discriminatorie. La Palestina ha firmato nell’aprile 2014, ndr). Ogni anno l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) scrive la propria relazione per le Nazioni Unite sull’attuazione del Cedaw. Noi e le altre organizzazioni di donne contribuiamo alla stesura dello Shadow report (le “relazioni ombra” sono un metodo per integrare e/o presentare informazioni alternative ai rapporti che i governi sono tenuti a presentare in base ai trattati sui diritti umani, ndr), scriviamo la nostra relazione ombra. Il nostro rapporto è sempre diviso in due parti. Una parte è dedicata alla violenza delle forze di occupazione contro le donne, l’altra parte invece si concentra sulla violenza dell’Autorità palestinese contro di noi.

Voglio dire con questo che noi donne palestinesi dobbiamo muoverci contemporaneamente su diversi fronti: dobbiamo combattere l’occupazione, dobbiamo combattere l’Autorità palestinese e il sistema patriarcale della nostra società. Per questo cerchiamo sempre il contatto con tutte le donne nel mondo, perché vogliamo imparare dalle lotte delle donne nei differenti contesti. Vogliamo confrontarci e capire meglio insieme come combattere la violenza contro di noi nelle nostre diverse società. Quando ad esempio è cominciata la guerra in Siria, Daesh e al Nusra hanno attaccato e assediato il campo profughi palestinese Yarmouk. Chi ha sofferto più di tutti? Le donne rifugiate del campo. Hanno sofferto come tutti la guerra, in più dovevano fuggire da chi voleva letteralmente schiavizzarle. Le donne del Yarmouk Camp si sono dovute rifugiare in Libano. Come Gupw ci siamo occupate anche di loro, sostenendole materialmente ed economicamente.

Si sono registrati dei cambiamenti nella condizione delle donne nella società palestinese rispetto a venti, trenta o quaranta anni fa?

La situazione delle donne nella società palestinese è cambiata molto negli ultimi decenni. Le donne ora possono prendere il passaporto senza l’obbligo della firma dell’uomo e possono aprire un conto in banca ai loro figli (prima era proibito). Oggi le donne possono andare autonomamente in tribunale e divorziare, prima qualche maschio della famiglia (marito, fratello, zio o cugino) le avrebbero ammazzate per “difendere l’onore del nome della famiglia”. A Gaza purtroppo le donne soffrono ancora di più, sia sotto l’occupazione, sia sotto il governo di Hamas. Quando Hamas ha preso il potere nel 2007 e ha sostenuto il velo obbligatorio per tutte le donne e “consigliato” loro di non lavorare ma occuparsi della famiglia e della casa, alcune donne si sono subito ribellate, ma poche. Perché solo poche? Perché la maggior parte delle gazawi non aveva paura tanto di Hamas, quanto del marito o in generale degli uomini della famiglia. Adesso, rispetto ai primi anni dopo il 2007, anni veramente di buio oscurantismo, la situazione a Gaza è un minimo migliorata. Ma succedono ancora delle cose allucinanti. Ad esempio, una vicenda attualissima che riguarda il gruppo musicale Soul Band Gaza, un gruppo di giovani gazawi, tra l’altro musicalmente parlando bravissimi, con una giovane ragazza come cantante. Hanno girato i loro video musicali suonando in pubblico a Gaza, in piazza o sulla spiaggia, e la ragazza cantava senza velo. Hamas l’ha attaccata e la società non l’ha protetta. Ora il gruppo se n’è dovuto andare in Turchia. Ma ti sembra normale che noi come società perdiamo dei giovani talenti del genere perché la ragazza ha cantato in pubblico senza velo?

Si tratta quindi di un problema di società, non solo di regime. Che sia un regime di Fatah o di Hamas, è la società innanzitutto che deve sostenere le donne. Per esempio, ti posso dire cosa è successo pochi mesi fa ad al Khalil (Hebron), qui in Cisgiordania, non nella Striscia sotto Hamas. Come Gupw abbiamo organizzato una conferenza sul Cedaw e i gruppi islamisti hanno organizzato una contro-iniziativa di donne islamiste contro di noi. Donne contro donne, capisci? Le donne islamiste hanno sostenuto che avrebbero combattuto il Cedaw e ci hanno accusato di essere contro il Corano e contro l’Islam. I gruppi islamisti inoltre minacciarono di ritorsioni i proprietari di case e sale ad al Khalil che ci affittarono gli spazi. Quindi mi chiedo io, è davvero più grave la situazione a Gaza che ad al Khalil? Ti faccio un altro esempio: sempre ad al Khalil circa due mesi fa un marito ha ammazzato la propria moglie. I capifamiglia delle due famiglie coinvolte hanno fatto un incontro, si sono messi d’accordo economicamente e il tutto è stato risolto senza l’intervento della legge. E sono proprio questo tipo di famiglie che si oppongono alle nostre attività per l’implementazione del Cedaw. Tre settimane fa qui a Nablus abbiamo organizzato un convegno sul Cedaw. Sono venuti rappresentanti di molte organizzazioni e partiti, dal Fronte Popolare a Fatah. Durante la conferenza all’improvviso si è alzato un uomo che ha detto pubblicamente di essere di Hizb al Tahrir (letteralmente Partito della Liberazione, in realtà si tratta di un gruppo salafita nato proprio ad al Khalil, ndr) e ha iniziato a urlare contro di noi interrompendo l’iniziativa.

Noi non abbiamo Daesh qui in Palestina, noi qui abbiamo Hamas e Hizb al Tahrir. E mi raccomando, oi in Europa fate spesso confusione, il Jihad Islami non fa parte di questa tipologia di formazioni politiche, si tratta di tutto un altro filone. Questi gruppi islamisti o salafiti o come altro preferiscono denominarsi fanno il gioco dell’occupazione. E’ molto semplice: l’occupazione vuole che ci combattiamo tra noi anziché unirci per combattere l’occupazione. Perché Israele per esempio ha permesso a Hizb al Tahrir di fare il suo congresso ad al Khalil? L’occupazione controlla tutto, conta persino quanti ulivi piantiamo e quanti litri d’acqua abbiamo a disposizione e poi permette lo svolgimento del congresso di un gruppo salafita. E’ evidente a ogni mente lucida: se ci uccidiamo tra palestinesi, com’è successo a Gaza tra Hamas e Fatah nel 2007, rendiamo un grandissimo servizio all’occupazione.

Sembra una contraddizione, prima hai parlato di miglioramenti legislativi nella condizione delle donne.

La risposta è che esiste un doppio livello di analisi. C’è il livello legislativo, in cui ci sono stati indubbiamente dei miglioramenti. Poi c’è il livello culturale della società e lì ci sono state invece delle regressioni. Oggi, ad esempio, molte famiglie sono spaventate dal mandare le loro figlie alle manifestazioni, proprio per via di questi gruppi islamisti. Nei decenni passati invece ci sono sempre state tantissime donne nei cortei. La realtà è sempre complessa ed è tra l’altro un tratto tipico delle formazioni politiche reazionarie negare la complessità della realtà che ha intorno per imporre la propria visione semplicistica basata sull’odio e la sopraffazione. Il problema poi è sempre collegato al fatto che siamo sotto occupazione e quindi, tra le altre cose, non abbiamo un parlamento vero. Se ci fosse, noi donne potremmo utilizzare il parlamento per imporre delle regole a nostra protezione contro questi fanatici invasati. Certo, c’è sempre il rischio che anche con un parlamento vero poi con le elezioni arrivano gli islamisti, com’è successo in Tunisia. Ma in Tunisia il movimento delle donne e della società civile progressista è coraggioso e forte e non li farà passare, di questo sono certa.