Palestina. L’alba di un nuovo giorno ci regala una lezione di dignità

9 / 11 / 2020

È l’alba del 7 novembre 2020 ed il mondo è in fibrillazione per l’ufficializzazione della notizia riguardante l’elezione di Joe Biden a 46° presidente degli Stati Uniti d’America. Per la prima volta negli ultimi 28 anni, i cittadini degli USA non hanno rieletto un presidente per il secondo mandato consecutivo. 

Donald Trump entra negli annali per essere uno dei pochi presidenti a restare mono-mandato. 

Donald Trump, nella storia recente il rappresentante del più ampio sostegno internazionale ad Israele ed alle sue politiche colonialiste; sostenitore e co-autore del deal of the century, non sarà più il presidente del primo alleato di Israele. In fin dei conti sembra una buona notizia.

Eppure, la vittoria del democratico Biden e della sua vice Harris non apriranno scenari di pace e giustizia per i palestinesi o più in generale nelle relazioni diplomatiche con l’ANP.

Joe Biden e Kamala Harris non hanno mai nascosto le loro posizioni apertamente sioniste1 e lo scorso luglio, in piena campagna elettorale, l’establishment del loro partito ha respinto un certo numero di mozioni progressiste durante l’assemblea del Comitato Nazionale Democratico, che andavano dalla legalizzazione della marijuana alla garanzia di welfare sanitario per tutti i cittadini, fino ad arrivare alla questione palestinese2.

La mozione sulla questione palestinese era stata proposta dal delegato di Bernie Sanders Clem Balanoff, direttore esecutivo del chapter dell'Illinois di Our Revolution. L'emendamento riguardava la questione del condizionamento agli aiuti ad Israele nel processo allora in atto che avrebbe portato nel giro di qualche settimana agli Accordi di Abramo. Balanoff rimarcava che fosse fondamentale che il Partito Democratico sostenesse il diritto dei palestinesi di vivere "senza occupazione" ed il suo emendamento riportava una riga in cui si dichiarava che gli aiuti degli Stati Uniti non dovrebbero essere utilizzati "per facilitare l'annessione o violare i diritti dei palestinesi".

"In un momento in cui centinaia di migliaia di americani hanno marciato nelle nostre strade - insieme a molti di voi - per l'uguaglianza ed i diritti civili, è inconcepibile che il Partito Democratico non dica la verità sulla lotta dei palestinesi per garantire quegli stessi diritti " ha detto Balanoff al comitato.

Ma un paio di giorni prima che la bozza di ODG dell’assemblea venisse resa pubblica, il candidato democratico alla presidenza si è pronunciato personalmente, ordinando ai suoi consiglieri di non includere alcun riferimento all' occupazione israeliana. La decisione, secondo fonti interne di partito, è arrivata dopo pesanti pressioni da parte di gruppi sionisti. Biden ha successivamente telefonato ai leader progressisti e li ha esortati a rinunciare alla loro richiesta di dichiarare Israele “una potenza occupante”, sostenendo che l'inclusione della frase minacciava di minare l'unità all'interno del Partito Democratico.

Nel suo discorso prima del voto, Balanoff ha citato un sondaggio del Center for American Progress del 2019 che ha rilevato che il 56% degli elettori americani ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero smettere di dare aiuti incondizionati a Israele se il paese continua ad espandere gli insediamenti o ad annettere parti della Cisgiordania. Lo stesso studio ha rilevato che il 71% dei Democratici sostiene la politica di condizionamento degli aiuti.

Ciononostante Joe Biden ha definito il condizionamento degli aiuti "assolutamente oltraggioso" ed un "gigantesco errore"3.

Insomma, l’impressione è che sotto l’era Trump sia stato settato uno standard di politica estera dal quale sarà difficile retrocedere: la politica -colonialista fin nel profondo del suo DNA- del “deal”, ovvero dell’affare imprenditoriale, senza nessuna implicazione etica o morale, nessun insieme di valori, nessun obiettivo di giustizia o strategia di lungo termine verso la pace, nessun amico o nemico, men che meno nessun impegno e rispetto verso gli alleati (basti pensare al caso del Rojava). Ma non è tutto. In questi accordi di tipo affaristico gli attori più deboli o meno convenienti vengono esclusi. Come negli affari, se una delle parti non accetta le condizioni del più forte, per quanto ingiuste o svantaggiose queste possano essere, viene estromessa, deve soccombere. 

Se i palestinesi non accettano la creazione di uno stato di apartheid che copre solo il 15% del loro territorio, e per di più frammentato in bantustan, che perdano ogni ruolo in questa transazione e che gli venga pure attribuita, in maniera paternalistica, la responsabilità della loro cancellazione etnica.

È proprio questa la narrazione tossica che si è sviluppata intorno alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele, Emirati Arabi, Bahrain e Sudan, ribattezzati Accordi di Abramo

In realtà, dietro a questi accordi, che portano dei vantaggi economici solo ai governi ed alle oligarchie che li sostengono, legati allo sfruttamento dei territori e agli investimenti militari, c’è il sottile ricatto della “pace in cambio della pace”, come viene definito da Haggai Matar sulla testata +972Magazine4 : “Per dirla senza mezzi termini, lo scopo fondamentale di queste nuove alleanze, è quello di far pressione sui Palestinesi, perché facciano marcia indietro sulle loro richieste politiche fondamentali – richieste radicate nel Diritto Internazionale e nelle Risoluzioni ONU. Per quanto riguarda il Parlamento Israeliano, i Palestinesi, così come gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e il Sudan, dovrebbero accontentarsi della “pace in cambio di pace” – senza cessioni territoriali, senza richiedere una parte di Gerusalemme, la fine dell’occupazione militare o il ritorno dei rifugiati.” 

Gli Accordi di Abramo sono essenzialmente un’alleanza di comodo fra tre Stati che già praticano l’apartheid: Israele nei confronti dei Palestinesi, il Bahrain con la sua oppressione sunnita, sostenuta dall’Arabia Saudita, sulla maggioranza sciita; e gli Emirati Arabi Uniti, dove un milione di cittadini vive assieme ad otto milioni di “stranieri” che non hanno alcun diritto. Un’alleanza che serve a normalizzare le discriminazioni in cambio della pace sociale per delle minoranze privilegiate. Il tutto con la benedizione degli USA, che sulla discriminazione e repressione a beneficio del suprematismo bianco hanno costruito il proprio impero.

È l’alba del 7 novembre 2020, l’umanità sta affrontando da quasi un anno una spaventosa crisi pandemica che mette a nudo la profonda ingiustizia del sistema capitalistico e della devastazione e saccheggio dei territori e della messa a profitto delle vite. L’attenzione mediatica è focalizzata sui risultati delle elezioni presidenziali della nazione nella quale si concentra la stragrande maggioranza del potere economico, politico e militare, la nazione che per molti versi può influenzare le sorti del mondo; tuttavia una democrazia ferita e zoppicante, piena di contraddizioni e profonde ingiustizie e discriminazioni.

Nel frattempo anche in Palestina è l’alba. I muezzin intonano il primo adhān. È una malinconica alba di novembre per gli anziani che sono stati testimoni della Nakba e che adesso vivono in campi profughi lontani dai secolari alberi d’ulivo che per generazioni le loro famiglie avevano curato. Le mattine di novembre hanno sempre un sapore amaro: se nel 1948 non fossero arrivati i sionisti ad occupare la terra di Palestina, questo sarebbe stato il mese della raccolta delle olive e le famiglie si sarebbero riunite gioiosamente per celebrare questo rito di simbiosi con la terra, lavorando, cantando, mangiando insieme. I bambini, i cui occhi grandi e scuri somigliano a quelle olive, avrebbero giocato tra gli alberi fino al tramonto. 

È un’alba gelida quella del 7 novembre nella valle del Giordano settentrionale: piove, fa freddo e tira vento. È la prima alba senza un tetto sulla testa per più di 70 palestinesi, dopo che l’esercito israeliano ha cancellato dalle mappe l'intera comunità beduina di Khirbet Humsah, demolendo abitazioni, tende ed allevamenti di bestiame, lasciando 41 bambini senza casa proprio con l’inverno alle porte5

Solo nei primi 10 mesi del 2020, 218 abitazioni palestinesi sono state demolite, lasciando senza casa 798 persone, di cui 404 minori, secondo i rapporti di B’tselem6.

È un’alba buia e fredda per gli oltre due milioni di abitanti della Striscia di Gaza, relegati nell’oblio del mondo circostante a causa dell’assedio che perdura da 14 anni, che continuano a ricevere la fornitura di energia elettrica a rotazione ogni 8 ore, come forma di punizione collettiva7. Per loro, evidentemente, non era abbastanza l’essere costretti a trascorrere il periodo di epidemia di coronavirus8 in un luogo incompatibile con la vita umana e nella più grave emergenza umanitaria e sanitaria del mondo moderno9.

È un’alba di privazione del diritto all’infanzia e dell’affetto degli adulti per tutti quei bambini e ragazzi che subiscono abusi e torture nelle carceri sioniste, come denuncia l’ultimo rapporto di Save the Children10.

Eppure l’alba di questo 7 novembre 2020 fa intravedere uno spiraglio di luce per i palestinesi. Un raggio di luce che filtra attraverso le grate di una prigione israeliana. Maher al-Akhras finalmente sorride dal suo letto dell’ospedale penitenziario, dopo 103 di sciopero della fame, ed aspetta l’arrivo di Tuqa, la più piccola dei suoi sei figli. 

Oggi è un giorno speciale per entrambi: Tuqa e la madre hanno preparato una zuppa per Maher, che ricomincerà a mangiare. 

La caparbietà della lotta di resistenza di quest’uomo l’ha ripagato con la vittoria: il 26 novembre Maher verrà, infatti, rilasciato. 

A fine luglio era stato arrestato dall’esercito israeliano per la quarta volta nella sua vita e posto in detenzione amministrativa senza processo e senza conoscere le accuse mosse nei suoi confronti. “Ho due sole possibilità” aveva dichiarato “tornare dalla mia famiglia o lasciarmi morire”. 

Utilizzando politicamente il suo corpo, praticando il più lungo sciopero della fame della storia palestinese e che potrebbe costargli  il sacrificio della vita, Maher al-Akhras ha voluto dare voce a più di 350 palestinesi attualmente in detenzione amministrativa nelle carceri israeliane, inclusi due minori. La pratica della detenzione amministrativa fu fatta propria dal sistema legale israeliano, mutuandola da quello coloniale britannico ed è applicata solo nei confronti degli arabi. Da quando Israele esiste, è uno strumento repressivo ampiamente utilizzato per arginare la resistenza palestinese. 

sciopero fame palestina

Maher al-Akhras viene nutrito dalla figlia Tuqa al termine dei 103 giorni di sciopero della fame.

Come racconta Chiara Cruciati su Nena News11, “negli ultimi due decenni in media ogni mese 400-500 palestinesi ne sono stati vittima, raggiungendo i picchi nei primi Duemila, durante la Seconda Intifada, con oltre mille casi al mese.” “L’ordine di detenzione amministrativa è rinnovabile senza limiti, per questo il diritto internazionale ne autorizza l’uso solo per tempi brevi e in caso di estrema emergenza. Il caso di Maher non è affatto un’eccezione, dal 1967 – anno di inizio dell’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est – Israele ha emesso oltre 50mila ordini di detenzione amministrativa.”

Il vento dell’alba del 7 novembre porta fin qui il profumo della dignità, quella della caparbia resistenza delle donne e degli uomini palestinesi, uniti alla loro terra da un legame più forte e duraturo di quanto possano essere, invece, degli squallidi accordi politici e commerciali tra i governi di mezzo mondo ed Israele.

Potete legarmi mani e piedi

togliermi il quaderno e le sigarette

riempirmi la bocca di terra:

la poesia è sangue del mio cuore vivo

sale del mio pane, luce nei miei occhi.

Sarà scritta con le unghie, lo sguardo e il ferro,

la canterò nella cella mia prigione,

al bagno

nella stalla

sotto la sferza

tra i ceppi

nello spasimo delle catene.

Ho dentro di me un milione di usignoli

per cantare la mia canzone di lotta.

Mahmud Darwish.

Pic Credit Copertina - Nella foto (Yumna Patel/MONDOWEISS): Fatima Abu Awwad siede di fronte alle macerie della propria abitazione dopo che, lo scorso 4 novembre, l’esercito israeliano ha distrutto il suo villaggio beduino di Khirbet Humsah.

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Note

1 https://www.arabamericannews.com/2020/03/18/zionist-biden-in-his-own-words-my-name-is-joe-biden-and-everybody-knows-i-love-israel/https://www.codepink.org/she_said_what

2 https://foreignpolicy.com/2020/08/06/biden-2020-presidential-election-israel-occupation-progressives-sanders/

3 https://mondoweiss.net/2019/11/biden-says-it-would-be-a-gigantic-mistake-to-condition-military-aid-to-israel-i-find-it-to-be-absolutely-outrageous/

4 https://www.972mag.com/zionist-left-netanyahu-abraham-accords/

5 https://mondoweiss.net/2020/11/under-cover-of-us-elections-israel-wipes-entire-palestinian-community-off-the-map/

6 https://www.btselem.org/statistics

7 https://www.btselem.org/gaza_strip/20201029_gaza_electricity_crisis_deepens_summer_2020

8 http://www.infopal.it/la-sofferenza-della-striscia-di-gaza-nessuna-luce-alla-fine-del-tunnel/

9 https://www.un.org/unispal/document/gaza-unliveable-un-special-rapporteur-for-the-situation-of-human-rights-in-the-opt-tells-third-committee-press-release-excerpts/

10 https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/senza-difesa

11 http://nena-news.it/i-100-giorni-di-maher-il-digiuno-piu-lungo-lonu-a-israele-liberalo/