Per non dimenticare Fukushima. E la centrale!

27 / 1 / 2012

Nonostante i ripetuti (e criminali) tentativi della autorità nipponiche di far credere che la situazione è risolta e «l'incidente» non ha lasciato strascichi, sul terreno le cose sono del tutto diverse Era una zona quasi paradisiaca, ora la contaminazione ne ha fatto un deserto. A dieci mesi dal disastro, la vita non è tornata alla normalità. La popolazione è dispersa, la comunità frantumata, i bambini a rischio. Eppure il governo ha sostenuto che «l'allarme è cessato» Siamo soltanto all'inizio di un'altra lunga e tragica storia che durerà anni e anni.

«L'uomo imparò a coltivare la terra. Imparò ad allevare gli animali. Coltivare e allevare sono due atti che ci rendono umani. Un giorno però si è reso impossibile coltivare, allevare o pescare, nonostante la terra, gli animali e i pesci siano sempre lì. Com'è possibile, allora, non chiederci se questo è ancora un uomo?», si interroga Jotaro Wakayama, poeta di Fukushima, residente appena fuori della zona off limit intorno alla centrale nucleare teatro del disastro cominciato l'11 marzo scorso.

Forse pochi sanno che la provincia di Fukushima, divenuta famosa come fonte di contaminazione radioattiva, era una zona all'avanguardia giapponese per l'agricoltura biologica, con 200 aziende attive e altre 500 in via di conversione. Iitate-mura, oggi noto per i punti caldi di radiazioni e le tracce di plutonio trovate sul territorio, nonostante disti 40 chilometri dalla centrale di Fukushima Daiichi, era stato addirittura definito il villaggio più bello del Giappone. Era abitato anche da giovani nativi di Tokyo, che innamorati del luogo avevano scelto di trasferircisi per diventare agricoltori biologici o allevatori di mucche.

Addio alla terra felice

Poi un giorno questa provincia di terre fertili, monti stupendi, laghi e mare pieni di pesci ha cessato di essere una terra felice. Eppure i cambiamenti non si notano: anche dopo la scomparsa dei loro abitanti umani, le montagne coperte di neve, i boschi e i campi restano meravigliosi sotto il cielo ampio e profondo che la gente di Fukushima considera «il vero cielo», molto diverso da quello che copre Tokyo.

«A più di dieci mesi dal disastroso terremoto dell'11 marzo, per la popolazione di Fukushima la vita non accenna a tornare alla normalità», ha affermato il professor Fuminori Tanba dell'università di Fukushima incontrando gli ospiti stranieri alla Global Conference for a Nuclear Free World (vedi il manifesto del 20 gennaio). Era il 13 marzo, alla vigilia della conferenza di Yokohama e il gruppo, quarantotto persone da circa trenta paesi insieme a attivisti delle associazioni giapponesi e giornalisti, ha incontrato diversi rappresentanti della società civile locale. Secondo Peace Boat, principale organizzatore sia della conferenza che della visita a Fukushima, era la prima visita di un gruppo così consistente di stranieri dopo il disastro.

Tanba, che studia la ricostruzione delle comunità colpite dai disastri, analizza l'impatto del terremoto e del disastro nucleare nella provincia di Fukushima: «In primo luogo, gli evacuati e i rifugiati si sono dispersi di propria iniziativa in uno spazio vastissimo, perfino all'estero. Sembra che solo il 20 % 160 mila sfollati sia andato nelle abitazioni provvisorie fornite dallo stato e dagli enti locali. Questo rende molto difficile per i comuni ubicare i loro abitanti e di conseguenza anche ricostruire le comunità locali. La seconda caratteristica è che non si ha alcuna idea di quando si potrà tornare a casa. È una situazione mai verificata con altri terremoti, anche gravi». Alcuni sostengono che in certe zone per il ritorno definitivo occorrono almeno 5 anni. E nell'incertezza non è possibile riorganizzare a lungo termine la vita, il lavoro e le scuole per i figli. «Il terzo fenomeno è la frammentazione della famiglia», conclude il professore: «di trentamila famiglie che risiedevano nelle zone più vicine alla centrale nucleare, il 98 percento ora è separato». In effetti quasi tutte le persone che abbiamo incontrato, giovani e meno giovani, dicono che i familiari sono lontani, e li possono vedere appena una volta al mese.

Ma il governo giapponese non aveva dichiarato qualche mese fa che l'allarme era cessato? «A Fukushima nessuno ci crede», rispondono tutti gli interlocutori: «Come si può prenderlo sul serio se a un metro da terra i contatori registrano ancora 1 microSievert all'ora? E la radioattività peggiora se ci si avvicina alla superficie, habitat dei bambini, senza parlare degli hot spot qua e là... Chi può se ne va o cerca di allontanare almeno i figli». Come potrebbero reagire diversamente i cittadini, se finora le autorità non hanno fatto altro che negargli informazioni precise in tempo reale, minimizzare i danni e scaricare le responsabilità sugli altri.

«Il governo giapponese, troppo impegnato a dichiarare al mondo che nel Paese è tornata la normalità, non ha dato nemmeno indicazioni sul futuro dei 160 mila rifugiati di Fukushima», dice ancora il professor Tanba, e aggiunge: «Ciò che più ci preoccupa è che, col passare del tempo, il problema di Fukushima diventi un problema esclusivamente nostro, e di essere dimenticati dal resto del mondo».

Costretti a fare da sé

I racconti degli abitanti di Fukushima lasciano a bocca aperta. Kentaro Hasegawa, allevatore di mucche nonché amministratore della frazione di Maeta nel villaggio di Iitate-mura, si trovava al comune quando si è sparsa la notizia della prima esplosione della centrale nucleare. «Sono corso subito da un tecnico esperto di radiazioni. Mi ha detto che la situazione era gravissima: ma quando stavo lasciando la sua stanza mi ha fermato per supplicarmi di non dirlo a nessuno, nemmeno al sindaco». Hasegawa non gli ha dato retta e ha riunito gli abitanti della sua frazione, per fornirgli tutte le informazioni che aveva e le raccomandazioni per minimizzare i danni. E mentre lui cercava di far includere il villaggio tra i comuni da evacuare - presso autorità che ragionavano solo in base ai raggi in chilometri - il comune faceva tutto per tranquillizzare la popolazione, citando solo esperti che non vedevano rischi. «Volevano evitare che la zona diventi un ghost town, lo so, ma così ci hanno lasciato nel pericolo molto più lungo del necessario», si sfoga l'amministratore. «Da me sono venuti giornalisti con i misuratori di radioattività. Hanno rilevato 1 millisievert, cioè mille microsievert, il massimo totale consentito per adulti in un intero anno, dove i bambini giocavano e i bucati erano stesi». 

Hasegawa del resto non si preoccupava solo dei bambini. Come i suoi colleghi, è stato costretto a buttare il latte munto delle sue mucche dal 12 marzo fino ai primi di giugno, benché alla fine di aprile con gli altri aveva deciso di chiudere la sua attività. «Non potete immaginare che cosa prova un allevatore quando è costretto a macellare i suoi animali, l'unica cosa che ci hanno consentito di fare. Abbiamo pianto tutti, ma il più straziato era questo giovanotto», ci racconta mostrandoci una sua foto. «Era venuto da Tokyo esattamente dieci anni fa perché voleva fare l'allevatore nel nostro villaggio». Il 10 giugno un allevatore si è siucidato per disperazione, lasciando sul parete una scritta: «Se non ci fosse stata la centrale nucleare (tutto questo si poteva evitare)». Ne parlò anche la stampa italiana. 

Era un suo carissimo amico. «Né lo stato, né la provincia o il comune ci hanno dato consigli e tanto meno sostegni. Siamo stati costretti a decidere tutto da soli»: una frase che sentiamo ripetere durante la visita.

Ancora più drammatica è la storia di un giovane pompiere di Minamisoma. Da pubblico ufficiale vuole rimanere anonimo, ma per offrirci la sua testimonianza ci ha accompagnato in pullman dal comune di Date a Minamisoma. «Subito dopo la prima esplosione le notizie erano molto confuse. Noi abbiamo continuato di giorno e di notte il lavoro di soccorso come se nulla fosse successo, poiché i tempi per salvare i dispersi ancora in vita stringevano», racconta. Anche quando si è resa evidente la grave contaminazione, i vigili del fuoco hanno dovuto continuare a lavorare coperti solo da un normalissimo impermeabile: «Nel nostro comune, Minamisoma, benché sia confinante con il comune che ospita la centrale, siamo dotati soltanto di protezioni chimiche e termiche. Non avevamo nulla contro le radiazioni. Anche perché la Tepco ci diceva sempre che un incidente nucleare era inconcepibile». 

Poco dopo un'altra difficoltà: da quando il territorio è stato dichiarato zona off limit, non sono più arrivati rinforzi dei colleghi pompieri e della polizia da altre zone del Giappone, come previsto nei casi gravi. «Abbiamo dovuto arrangiarci da soli per le ricerche dei dispersi e i soccorsi. Siamo rimasti all'aperto senza le protezioni che tardavano ad arrivare», continua il pompiere, finché «dopo 8 giorni finalmente ci hanno distribuito i misuratori e le protezioni necessarie». Mentre parla, gli aghi dei misuratori a bordo del pullman - che stava attraversando proprio Iitate-mura - indicano 2,3 micro Sievert all'esterno e 1,5 all'interno. Pare che siano stati i dati più alti della giornata.

Altro che emergenza finita

Kenta Sato è un altro giovane di Iitate-mura, trasferitosi ora nel comune di Fukushima. «Volevamo andare via, fuori della provincia, ma al comune ci hanno detto di restare. Ora, siccome per i mesi di marzo e aprile siamo stati lasciati esposti alle radiazioni, abbiamo deciso di organizzare per conto nostro un monitoraggio della nostra salute, stampando 5.000 copie di questo taccuino della salute da distribuire a tutti gli abitanti». Ha in mano un quaderno formato B5, in cui i cittadini possono annotare la propria condizione fisica. «Potrebbe tornarci molto utile fra 5 o 10 anni. Ci hanno dato dei consigli gli hibakusha di Hiroshima e i medici che li seguono».

Per il signor Sato tuttavia non tutte le storie sono senza speranza. «Sapete che nel 2003, quando gli angloamericani stavano per attaccare l'Iraq, Fukushima deliberò una richiesta al governo di Tokyo di fermarli? Fu l'unica provincia in Giappone che fece questo atto, direi, coraggioso», ci dice quasi sorridente.

«Vorrei chiedere ai signori politici: tra la nostra vita e il denaro cosa è più importante?».

A rivolgere questa domanda dal palco della Conferenza di Yokohama era Yuuri Tomizuka, bambino di 10 anni rifugiato da Fukushima in un comune vicino a Yokohama. «Io vorrei diventare un ingegnere che sviluppa le energie rinnovabili o un uomo che aiuta i prossimi. Perciò voglio crescere sano. Non posso ammalarmi e non voglio assolutamente morire! Noi bambini non abbiamo bisogno delle centrali nucleari che ci rendono soltanto infelici». 

L'incubo Nonostante i ripetuti (e criminali) tentativi della autorità nipponiche di far credere che la situazione è risolta e «l'incidente» non ha lasciato strascichi, sul terreno le cose sono del tutto diverse