Questa è una pandemia globale: trattiamola come tale

31 / 3 / 2020

Il politologo Adam Hanieh sulla pandemia del COVID-19, originariamente pubblicato su Verso Books e tradotto per noi da Anna Viero e Miriam Viscusi.

Dinanzi allo tsunami del COVID-19, le nostre vite stanno prendendo una piega che solo fino a due settimane fa ci sembrava inconcepibile. È dalla crisi economica del 2008-2009 che il mondo non condivide in maniera collettiva una simile esperienza: un’unica crisi globale, che si evolve di giorno in giorno, e che decide il ritmo delle nostre vite quotidiane entro un complesso calcolo di rischi e probabilità. 

In risposta, molti movimenti sociali hanno avanzato delle richieste che prendono seriamente in considerazione le potenziali conseguenze disastrose del virus e che allo stesso tempo rivolgono l’attenzione all’incapacità dei governi capitalisti di affrontare la crisi stessa in maniera adeguata. Queste richieste riguardano la sicurezza dei lavoratori, la necessità di organizzarsi a livello di vicinato, la garanzia di reddito e la garanzia sociale, i diritti di coloro che hanno contratti a chiamata o altri tipi di occupazione precaria e la necessità di proteggere gli affittuari e coloro che vivono in povertà. Da questo punto di vista, il COVID-19 ha messo in luce la natura irrazionale di un sistema sanitario basato sul profitto delle imprese: i tagli praticamente universali al personale medico negli ospedali pubblici e alle infrastrutture - inclusi posti letto in terapia intensiva e ventilatori -, la carenza di assistenza sanitaria pubblica, i costi di accesso proibitivi ai servizi medici in molti paesi e i limiti all’accesso diffuso a possibili interventi terapeutici e alla creazione di vaccini imposti dai diritti di proprietà delle aziende farmaceutiche.

Eppure, la portata globale del COVID-19 ha avuto una posizione marginale nella maggior parte della discussione di sinistra. Mike Davis ha giustamente osservato che “il pericolo per i poveri del mondo è stato quasi completamente ignorato dai giornalisti e dai governi occidentali” e anche la discussione di sinistra è stata ugualmente circoscritta, concentrandosi particolarmente sulla grave crisi sanitaria che si sta dispiegando in Europa e negli Stati Uniti. Perfino all’interno dell’Europa c’è un’estrema disomogeneità nella capacità degli stati di affrontare questa crisi – come ci dimostra la giustapposizione di Germania e Grecia –, ma un disastro ben peggiore sta per colpire il resto del mondo. Per questo, la nostra visione della pandemia deve diventare davvero globale, comprendendo come gli aspetti della crisi sanitaria del virus si intersechino con questioni di economia politica più ampie, inclusa la possibilità di una grave crisi economica prolungata. Questo non è il momento di chiudere le porte (nazionali) e parlare solo di lotta contro il virus all’interno dei propri confini. 

La sanità pubblica nel Sud globale

Come per tutte le cosiddette crisi “umanitarie”, è necessario ricordare che le condizioni sociali che caratterizzano la maggioranza dei paesi del Sud del mondo derivano direttamente dalla loro posizione nella gerarchia del mercato globale. Storicamente, ciò include il lungo scontro con il colonialismo occidentale, che si è protratto fino ai tempi odierni con la subordinazione dei paesi più poveri nei confronti degli interessi di quelli più ricchi e delle più grandi multinazionali. A partire dalla metà degli anni Ottanta, ripetuti periodi di aggiustamenti strutturali – spesso accompagnati da interventi militari, sanzioni economiche, oppure sostegno ai despoti da parte delle potenze occidentali - hanno distrutto sistematicamente le risorse economiche e sociali dei paesi più poveri, lasciandoli impreparati ad affrontare grandi crisi come quella del COVID-19.

Portare in primo piano queste dimensioni sociali e globali ci aiuta a spiegare come l’ampia portata della crisi attuale non riguardi semplicemente un’epidemia virale e una scarsa resistenza dell’uomo a un nuovo patogeno. Le modalità nelle quali molte persone in Africa, America Latina, Medio Oriente e Asia affronteranno questa pandemia in arrivo è una conseguenza diretta di un’economia globale basata sistematicamente sullo sfruttamento delle risorse e dei popoli del Sud del mondo. Da questo punto di vista, la pandemia rappresenta senz’altro un disastro provocato dall’uomo e dalla società, non semplicemente una calamità di origini naturali o biologiche. 

Un chiaro esempio del perché questo disastro sia causato dall’uomo è rappresentato dal cattivo stato della sanità pubblica nella maggior parte dei paesi del Sud del mondo, caratterizzata dalla mancanza di fondi, farmaci essenziali, attrezzatura e personale medico. Questo è particolarmente significativo per comprendere il pericolo rappresentato dal COVID-19, a causa della grande e rapida impennata di casi gravi e critici che solitamente richiedono un ricovero ospedaliero (al momento stimati intorno al 15/20% dei casi totali confermati). Al momento la questione è ampiamente discussa nel contesto dell’Europa e degli Stati Uniti e sta alla base della strategia di “appiattire la curva” con l’obiettivo di diminuire l’impatto sulle terapie intensive.  

Eppure, mentre sottolineiamo giustamente la mancanza di letti in terapia intensiva, ventilatori e personale medico qualificato in molti paesi occidentali, dobbiamo renderci conto che la situazione nel resto del mondo è infinitamente peggiore. Il Malawi, per esempio, conta circa 25 letti in terapia intensiva per una popolazione di 17 milioni di persone. Nell’Asia meridionale, c’è una media di 2,8 posti letto in terapia intensiva ogni 100.000 persone, con il Bangladesh che ne possiede intorno ai 1100 per una popolazione complessiva di oltre 157 milioni di abitanti (0,7 letti ogni 100.000 persone). Facendo un paragone, lo scioccante scenario italiano emerge da un sistema sanitario molto più avanzato, con una media di 12,5 posti letto ogni 100.000 persone (e la possibilità di metterne ulteriori in funzionamento). La situazione è così grave che alcuni paesi poveri non dispongono nemmeno delle informazioni riguardanti la capienza delle terapie intensive; uno studio accademico del 2015 stima che “il 50% dei paesi a ‘basso reddito’ non ha alcun dato pubblico sulla capienza delle terapia intensive”. Senza questa informazione è difficile immaginare come questi paesi possano realmente organizzare l’inevitabile richiesta di terapia intensiva che risulterà dal COVID-19.

Certamente, la questione della terapia intensiva e della capienza ospedaliera è solo uno dei tanti problemi, tra cui la carenza diffusa di risorse di base (come acqua potabile, cibo ed elettricità), l’accesso adeguato alle cure mediche di base e la presenza di altre comorbidità (come alti tassi di HIV e tubercolosi). Nel complesso, tutti questi fattori risulteranno inevitabilmente in una prevalenza maggiore di pazienti in condizioni gravi (e quindi di morti totali) nei paesi più poveri a causa del COVID-19.

Lavoro e alloggio: due questioni di sanità pubblica

I dibattiti riguardanti le migliori modalità per affrontare il COVID-19 in Europa e negli Stati Uniti hanno dimostrato il rapporto bilaterale presente tra le misure di sanità pubblica vigenti e le condizioni di lavoro, precarietà e povertà. Le richieste di autoisolarsi se malati – o il rispetto di periodi più lunghi di quarantena forzata – risultano economicamente impossibili per quelle molte persone che non possono passare facilmente allo smart working, o per coloro che lavorano con contratti a chiamata o in altri tipi di occupazione precarie. Riconoscendo gli effetti di questi modelli lavorativi sulla sanità pubblica, molti governi europei hanno fatto enormi promesse di indennizzi per coloro che hanno perso il lavoro o che son obbligati a stare a casa durante la crisi. 

Resta da vedere l’efficacia di questi piani e fino a che punto soddisferanno i bisogni del grande numero di disoccupati che uscirà da questa crisi. Ciononostante, bisogna ammettere che per la maggior parte della popolazione mondiale questi piani non esisteranno proprio. In paesi in cui la maggioranza della forza lavoro è impegnata in contratti di lavoro informale o dipende da salari che variano a seconda della giornata - la maggior parte del Medio Oriente, Africa, America Latina e Asia – è impensabile che la gente possa scegliere di stare a casa o autoisolarsi. Ciò va considerato insieme al fatto che il numero dei cosiddetti “working poors” aumenterà in seguito a questa crisi. L’ILO infatti stima che, nel suo scenario peggiore - cioè con un numero di perdite di lavoro globale pari a 24,7 milioni - il numero di persone nei paesi a basso e medio reddito che guadagna meno di 3,20 dollari al giorno in PPP aumenterà di circa 20 milioni di persone. 

Ancora una volta, questi dati non sono importanti solamente per una sopravvivenza economica giornaliera. Senza gli effetti mitiganti risultanti dalla quarantena e dall’isolamento, l’effettivo avanzare della malattia nel resto del mondo sarà sicuramente molto più disastroso rispetto agli scenari strazianti che stiamo osservando finora in Cina, Europa e Stati Uniti. 

Inoltre, i lavoratori del settore informale e i precari spesso vivono nei bassifondi delle città e in abitazioni sovraffollate, condizioni ideali per la diffusione esplosiva del virus. Come ha fatto recentemente notare un’intervistata del Washington Post in riferimento al Brasile: “Più di 1,4 milioni di persone, quasi un quarto degli abitanti di Rio, vivono in una favelas della città. Molti non si possono permettere di saltare un singolo giorno di lavoro, per non parlare di settimane. La gente continuerà a uscire di casa… La tempesta sta per arrivare”.

Degli scenari ugualmente disastrosi aspettano i molti milioni di sfollati a causa di guerre e conflitti. Il Medio Oriente ad esempio è il teatro del più grande sfollamento forzato mai avvenuto dalla fine della Seconda guerra mondiale, con un enorme numero di profughi e sfollati risultanti dai continui conflitti in paesi come Siria, Yemen, Libia e Iraq. La maggior parte di queste persone vive in campi profughi o aree urbane sovraffollate e spesso non ha accesso ai diritti sanitari di base di solito riservati ai cittadini. Gli alti tassi di malnutrizione e malattie - come la ricomparsa del colera nello Yemen - rendono queste comunità di profughi particolarmente suscettibili al virus.

Un simile scenario si può osservare nella Striscia di Gaza, dove più del 70% della popolazione è rappresentata da profughi, in una delle aree più densamente popolate del mondo. I primi due casi di COVID-19 sono stati identificati a Gaza il 20 marzo (anche se a causa della carenza di materiale per effettuare il tampone, solo 92 su 2 milioni di abitanti sono stati sottoposti al test). Dopo 13 anni di assedio israeliano e di distruzione sistematica delle infrastrutture essenziali, le condizioni di vita nella Striscia sono caratterizzate da povertà estrema, scarsa igiene e una perenne mancanza di medicine e attrezzatture mediche (a Gaza, ad esempio, ci sono solo 62 ventilatori e soltanto 15 di questi sono attualmente utilizzabili). Bloccata e chiusa per la maggior parte dell’ultimo decennio, Gaza è isolata dal resto del mondo da molto prima dell’attuale pandemia. La regione potrebbe rappresentare il proverbiale canarino della miniera del COVID-19, presagendo l’andamento futuro dell’infezione tra le comunità di profughi in tutto il Medio Oriente e non solo. 

L'intersezione delle crisi

L’imminente crisi della sanità pubblica che i paesi più poveri si troveranno ad affrontare come conseguenza del COVID-19 sarà ulteriormente aggravata da una recessione globale che quasi sicuramente supererà quella del 2008. È ancora presto per prevedere l’intensità del crollo, ma diverse istituzioni finanziarie si aspettano la peggiore recessione della nostra epoca. Una delle ragioni è la contemporanea chiusura di fabbriche, trasporti e servizi in Europa, Cina e Stati Uniti: un evento senza precedenti storici da dopo la Seconda guerra mondiale. Con un quinto della popolazione mondiale attualmente in quarantena, le filiere produttive e il commercio globale sono al collasso e i valori delle borse sono precipitati – la maggior parte dei titoli ha perso intorno al 30-40% del loro valore tra il 17 febbraio e il 17 marzo.

Tuttavia, come ha sottolineato Eric Touissant, il collasso economico che si sta rapidamente avvicinando non è stato causato dal COVID-19. Il virus rappresenta solo “la scintilla, o la causa scatenante” di una crisi più profonda che si preparava da anni. Ciò ha molto a che vedere con le misure messe in campo da governi e banche centrali a partire dal 2008, in particolare il quantitative easing e i ripetuti tagli ai tassi d’interesse. Tali politiche avevano lo scopo di sostenere i prezzi delle azioni aumentando esponenzialmente l’introduzione di denaro a basso costo sul mercato finanziario.Questo ha portato a una crescita importante del debito in tutte le sue forme – delle imprese, degli stati e delle famiglie. Negli Stati Uniti, ad esempio, il debito non finanziario delle grandi aziende ha raggiunto i 10 miliardi di dollari a metà del 2019 (circa il 48% del PIL), un aumento significativo rispetto al precedente picco del 2008 (quando era rimasto intorno al 44%).In generale, questo debito non veniva usato per investimenti produttivi ma per attività finanziarie (dividendi di fondi azionari, share buybacks, fusioni e acquisizioni). Abbiamo avuto così il noto fenomeno del boom dei mercati finanziari in concomitanza con investimenti stagnanti e profitti in caduta.

Importante per la crisi che si avvicina è il fatto che la crescita di debito aziendale si è concentrata principalmente in titoli con livelli di rating inferiori all’investment grade (i cosiddetti titoli spazzatura), o titoli classificati come BBB, quindi solo un grado sopra lo status di “titolo spazzatura”. Infatti, secondo Blackrock, il più grande gestore di stock finanziari del mondo, il debito sotto forma di BBB nel 2019 costituiva un buon 50% del mercato globale dei titoli, mentre nel 2001 era solo il 17%. Ciò significa che il simultaneo collasso globale di produzione, domanda e prezzi degli asset finanziari presenta un enorme problema per le aziende che hanno bisogno di rifinanziare il loro debito. Mentre l’attività economica si è arrestata in settori chiave, le aziende il cui debito dev’essere rinnovato si trovano ora a fronteggiare un mercato dei crediti praticamente chiuso – nessuno vuole prestare in queste condizioni – e molte aziende sovraindebitate(specialmente quelle coinvolte in settori come trasporti aerei, energia, turismo, automobili, tempo libero e commercio al dettaglio) potrebbero non avere quasi nessun guadagno nel prossimo periodo. La prospettiva di un’ondata di bancarotte di multinazionali di altissimo rilievo, default e downgrade è perciò altamente probabile. E non è solo un problema degli Stati Uniti: alcuni analisti finanziari hanno avvertito recentemente che ci potrebbe essere una “crisi di liquidità” e “un’ondata di bancarotte” in Asia Orientale, dove i livelli di debito aziendale sono raddoppiati fino a raggiungere i 32.000 miliardi di dollari nell’ultimo decennio.

Tutto questo rappresenta un grave pericolo per il resto del mondo, dove la recessione giungerà ai paesi e alle popolazioni più poveri attraverso vari canali di trasmissione. Come nel caso del 2008, ci sarà probabilmente un crollo delle esportazioni, una forte regressione dei flussi di investimento diretto estero e del gettito derivante dal turismo e un calo delle rimesse dei lavoratori emigrati. Quest’ultimo fattore è spesso ignorato nella discussione della crisi attuale ma è essenziale ricordare che l’integrazione nel capitalismo globale di gran parte della popolazione mondiale attraverso i flussi di rimesse dei lavoratori emigrati è stata un fattore chiave della globalizzazione neoliberale. Nel 1999, solo undici paesi ricevevano rimesse superiori al 10% del PIL; nel 2016 questa cifra era salita a trenta paesi. Nel 2016, circa il 30% dei 179 paesi per cui c’erano dati disponibili aveva registrato livelli di rimesse superiori al 5% del PIL – una percentuale raddoppiata rispetto al 2000. È sorprendente che circa un miliardo di persone – un settimo della popolazione mondiale – siano coinvolte direttamente nei flussi di rimesse, o come mittenti o come destinatari. La chiusura dei confini causata dal COVID-19, sommata alla sospensione di attività economiche in settori dove i migranti tendono a prevalere, significa che potremmo dover fronteggiare anche un precipitoso calo globale nelle rimesse dei lavoratori. Questo avrebbe gravi conseguenze per i paesi del Sud globale. 

Un altro meccanismo chiave con cui la crisi economica potrebbe colpire i paesi del Sud è la grande quantità di debito che hanno accumulato negli ultimi anni, sia quelli meno sviluppati che i cosiddetti “mercati emergenti”. A fine 2019, l’Istituto della Finanza Internazionale ha stimato che il debito dei mercati emergenti valeva 72.000 miliardi di dollari, una cifra raddoppiata rispetto al 2010. Molto di quel debito è espresso in dollari statunitensi, il che espone i suoi detentori alle fluttuazioni nel valore del dollaro stesso. Nelle ultime settimane, in risposta alla crisi, gli investitori si sono rifugiati nel dollaro, come in una sorta di porto sicuro, rafforzandolo in modo significativo. Risultato: altre valute sono precipitate e il carico di interessi e rimborsi di capitale per debiti espressi in dollari è in aumento. Già nel 2018, 48 paesi spendevano di più nel debito pubblico che nel sistema sanitario rispetto al PIL complessivo. Oggi stiamo per entrare in una situazione allarmante nella quale i paesi più poveri avranno situazioni di debito estremamente gravose e allo stesso tempo cercheranno di gestire una crisi sanitaria senza precedenti – tutto questo con una profondissima crisi globale sullo sfondo. 

E non facciamoci nessuna illusione sul fatto che questa intersezione di crisi potrebbe metter fine agli aggiustamenti strutturali o far emergere un nuovo tipo di “socialdemocrazia globale”. Come abbiamo visto ripetute volte nello scorso decennio, il capitale spesso coglie nei momenti di crisi l’opportunità per implementare cambiamenti radicali che in precedenza erano bloccati o apparivano impossibili. Infatti,qualche giorno fa il presidente della Banca Mondiale David Malpass ha sottinteso tutto ciò nel suo intervento al G20 (virtuale) dei Ministri della Finanza: “Gli stati dovranno mettere in atto riforme strutturali per accorciare il tempo necessario alla ripresa… Lavoreremo con quei paesi ostacolati da regolamentazioni eccessive, sussidi, sistemi di brevetti, protezionismi commerciali e litigiosità per stimolare i mercati e aumentare le prospettive di crescita durante la ripresa”.

È fondamentale portare questa dimensione internazionale al centro della discussione di sinistra sul COVID-19, per collegare la battaglia contro il virus a questioni quali l’abolizione del debito del “Terzo Mondo”, la fine dei programmi di ristrutturazione neoliberale guidati dai pacchetti di salvataggio di FMI e Banca Mondiale, la richiesta di riparazioni per il colonialismo, la fine del commercio di armi e dei regimi sanzionatori e così via. Tutte queste campagne, in fondo, sono questioni di sanità pubblica globale: riguardano direttamente l’abilità dei paesi più poveri di mitigare gli effetti del virus e della crisi economica ad esso collegata. Parlare di solidarietà e mutualismo con i nostri vicini, all’interno delle nostre comunità e dei nostri confini nazionali non è abbastanza, se non si discute anche della minaccia più grande che il virus presenta al resto del mondo. Naturalmente, anche in Europa e negli Stati Uniti, gli alti livelli di povertà, le condizioni lavorative e abitative precarie e la mancanza di strutture sanitarie adeguate minacciano la possibilità delle popolazioni di proteggersi dal contagio. Ma le campagne dal basso partite nel Sud globale stanno costruendo coalizioni che affrontano tali questioni in modi interessanti e soprattutto internazionalisti. Senza un orientamento globale, rischiamo di rafforzare quella retorica tanto facilmente alimentata dal virus dei movimenti xenofobi e anti-immigrati; retorica profondamente impregnata di autoritarismo, ossessione per il controllo dei confini e nazionalismo in stile “prima-il-mio-paese”.